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Sovranità scomparsa, l’austerità senza volto

Ricerca scientifica, quindi sincera, perciò rivelatrice. L’assunto base, anche se non è da qui che parte, è in effetti fulminante: l’evoluzione del modello sociale italiano nel dopoguerra è la conseguenza di un equilibrio di forze sociali e politico interno al paese che viveva in simbiosi con l'”equilibrio bipolare” tra Usa e Urss. Il conflitto andava evitato e quindi si è favorito, attraverso l’esplosione della spesa pubblica e quindi del debito, l’espansione di un “ceto medio” molto più largo e diffuso del normale, foraggiato anche tramite clientelismo ed evasione fiscale. Con la fine della “guerra fredda” e l’insoergere della crisi sistemica quella necessità è venuta meno. E il fatto che la sovranità – il potere di decidere sulle politiche economiche – sia stata assunta da forze sovranazionali senza volto (i mercati finanziari, le istituzioni non elette a livello continentale o globale, come Bce, Ue, Fmi, ecc) permette oggi di demolire quel modello senza che nessuna forza politica ne sia formalmente responsabile.

Ma questo trasferimento del potere sovrano demolisce anche “la politica” in senso stretto. Sia a livello dei partiti, che non hanno più il tradizionale ruolo di sintesi anche ideologica di interessi sociali differenziati che pretendono di essere “rappresentati” per condizionare le scelte nazionali. Sia a livello dei sindacati (e organismi sociali similari), la cui funzione di mediazione tra interessi dei lavoratori e gestione dell’impresa diventa a questo punto superflua o addirittura un “peso” per la “competitività”.

Ma cambia anche la prospettiva da cui i comunisti hanno sempre riguardato il problema del “potere politico” e quindi della trasformazione sociale. Se quel potere non è più nello Stato-nazione, quali cambiamenti strategici e analitici diventano necessari? Il minimo che si possa dire è che a poteri continentali va contrapposta una soggettività continentale; o che a poteri globali va contrapposta una soggettività alla stessa altezza.

L’altro elemento da sottolineare è che esiste una forte consapevolezza nelle “classi dirigenti” che stanno attuando la distruzione creatrice del modello sociale europeo. Sanno che stanno demolendo le barriere e gli ammortizzatori che fin qui hanno garantito sia la pace sociale interna ai paesi europei che quella tra paesi europei.

Se tagli l’operatore sociale erogatore di servizi (reddito indiretto), l’unico strumento di controllo resta il poliziotto.

 

Sovranità scomparsa, austerità senza volto

Lo Stato non è più libero di decidere della ricchezza prodotta sul proprio territorio. È la fine della politica, nell’analisi dell’istituto diretto da Giuseppe De Rita

Francesco Piccioni
Non sono rimasti in molti a fare ricerca politica tenendo d’occhio la realtà sociale concreta. Il Censis è uno di questi pochi luoghi e sforna sempre un insieme di dati e riflessioni di livello. È così specialmente stavolta, con la ricerca Dove sta oggi la sovranità che apre un mese denso di appuntamenti scientifici coincidenti – forse non per caso – con il «giugno orribile» dell’Unione europea; quello in cui dovrà essere trovata una convincente via di superamento alla crisi oppure si presenterà alla porta il rischio di esplosione dell’eurozona.
Il tema della sovranità non è infatti per nulla astruso: si tratta di capire chi decide, su cosa, attraverso quali procedure e – se sbaglia – quali sanzioni. La democrazia, nel dopoguerra, ha fornito una risposta forse zoppicante, ma che – ricorda il Censis – ha tenuto insieme il paese «comprando a debito la pax sociale». In parole semplici: facendo crescere il debito pubblico più velocemente del Pil pur di «includere» una massa critica sociale tale da evitare lo scontro frontale tra interessi opposti (a partire da quello tra imprese e lavoratori). È il cuore della «cetomedizzazione» reddituale, del «taglio delle estreme» sul piano politico, della proliferazione dei «corpi intermedi» (sindacati, associazionismo, volontariato, ecc).
Mercati finanziari internazionali e istituzioni sovranazionali hanno però preso in mano – grazie alla crisi – il potere decisionale assoluto sulle scelte di politica economica: «ce lo chiedono i mercati» oppure «l’Europa» è la risposta standard di ministri senza carisma e fantasia. E convince sempre meno. In ogni caso, la «sovranità democratica» è scomparsa non solo per i paesi deboli, ma anche per quelli di prima fascia che partecipano all’Unione. Come l’Italia.
Non è una scomparsa solo concettuale. Si porta dietro la fine della «politica» come luogo dove «l’insieme dei soggetti che fanno parte della nazione» e «attraverso i meccanismi della rappresentanza» riuscivano almeno a «condizionare le scelte decisive della vita collettiva». L’«eterodirezione», sempre sospettata dietro le porte del potere, prende quindi un corpo reale, anche se distante e sordo. La «sovranità in fuga verso l’alto» è percepita da tutti i settori sociali e si intreccia con pregiudizi atavici radicati nel nostro paese, che oscillano alternativamente verso la «sensazione di impotenza» o l’«antipolitica». Un riflesso distorto di un fatto reale: i partiti non «compattano» più sul piano ideologico interessi sociali differenziati, trasformandoli in riforme, diritti, redistribuzione. Maneggiano soldi pubblici, e per questo sono odiati, ma non detengono più le leve del potere reale. Il governo Monti ne è la certificazione indiscutibile.
Eppure «il governo» è ancora, seppur di poco, indicato come il potere più rilevante rispetto alla vita materiale degli individui. Certo, l’«antipolitica» facilita curiose contrapposizioni fasulle. Un esempio: è più importante che i governanti siano «competenti» o «eletti dal popolo»? Ci cascano in tanti, ma meno di tutti i giovani e gli over 65; ovvero chi ha lo sguardo ancora fresco e chi ne ha viste di ogni. In mezzo, le due generazioni figlie della «fine delle ideologie», e quindi devote in modo spesso acritico all’unica rimasta.
Ma la «percezione di non contare nulla in politica» è il segnale di quanto sia grave la «rottura del nesso rappresentanza-decisione» Gli italiani si sentono mediamente molto più impotenti degli altri cittadini europei (Grecia a parte, ovviamente) e di questo fa le spese anche «l’europeismo». Giustamente definito come «una delle ultime retoriche di massa significative», cresciuto all’ombra del conflitto bipolare e sul ricordo devastante della guerra tra paesi vicini, l’europeismo è oggi un sentimento d’appartenenza debole. Più somigliante a un «ormai ci siamo, non possiamo uscirne», che non a un’adesione convinta.
È infatti certo per tutti che «la volontà sovranazionale si è imposta a seguito dell’operare di indicatori automatici che hanno imposto alla collettività determinate scelte, senza poterne discutere». Ma questo pone limiti seri a un’avanzamento deciso verso un’integrazione più cogente. «Eventuali nuovi strappi in avanti del processo unificatorio, oggi, non trovano consenso», perché giustamente associati a una serie di «riforme», «sacrifici», rinunce, che impoveriscono sia sul piano reddituale che su quello della cittadinanza.
Deve far riflettere, in questo senso, che il rimprovero principale rivolto «alla politica» dei decenni scorsi non sia (per il momento) il fatto di aver accettato l’unificazione europea, ma nel non averla «negoziata abbastanza». Nell’aver insomma rinunciato a esercitare un ruolo più deciso e «protettivo».
Tra percezione e realtà, in questioni di così grande dimensione, lo scarto può essere grandissimo. E anche legittimo. Certo è che se si condivide – come bisogna fare – il giudizio sulla storia italiana del dopoguerra come frutto di un «lungo e vero compromesso sociale; e se quel «meccanismo si è interrotto, a cominciare dalla capacità di dividere la torta in modo percepito come equo e inclusivo per tutti», allora i problemi di «tenuta sociale» che ci stanno davanti sono parecchio pesanti. Difficile passare indenni attraverso una «partita giocata tutta sul meno, sul ridurre, su una decrescita tutt’altro che virtuosa». Dove l’«equità» è solo una parola detta spesso per accompagnare una sottrazione forzosa di reddito e diritti. Di «sovranità democratica».

IL RUOLO DEI «MERCATI»

Istituzioni globali ultrapotenti che amano solo i rendimenti

I «mercati finanziari internazionali» sono ormai una «presenza non formale», perché «richiamati come la ragione dell’ineludibilità di scelte economiche e istituzionali». Che non potrebbe godere del «consenso popolare». Il Censis parte di qui per affrontare il nodo della «sovranità perduta». Persino le parole-chiave (spread, Bund, rating, ecc) «sanciscono che la finanza internazionale è in grado di condizionare la vita di ciascun cittadino imponendo opzioni che probabilmente non riuscirebbero ad affermarsi tramite i canali del consenso democratico». Un ruolo in senso lato «golpista», rispetto agli assetti istituzionali nazionali e che necessita di periodi più o meno lunghi di governi «non eletti dal popolo» e, soprattutto, non sanzionabili alla successiva tornata elettorale. È una novità assoluta, nella storia del mondo. Anche per la sproporzione di potere, visto che questi poteri finanziari «sono in grado di parlare da pari a pari e, molto spesso, da posizioni di forza con gli stati nazionali». Poteri che si possono legittimamente considerare «opachi» – e niente affatto democratici neanche al loro interno – perché i protagonisti (Fondi sovrani, Fondi pensione, grandi banche d’affari, agenzie di rating», ecc) presentano un «assai meno noto profilo proprietario e la della trama di interessi che racchiudono». Brutalmente: chi sono, gli uomini che decidono al nostro posto? E perché li viene concesso di farlo se «si muovono agevolmente tra i mercati come fossero un continuum, senz’altra logica che quella della massimizzazione dei rendimenti»?
 
Quel debito pubblico che pagava «la pace»

Smorzare i conflitti con la spesa non serve più. Il «ceto medio» perde ruolo, salario, peso politico

Ma l’arrendevolezza della «politica» italiana di fronte ai diktat europei e dei mercati, dipende solo dalla pochezza dei suoi leader? La lettura del Censis è naturalmente molto più articolata. Si parte dalle dimensioni del debito pubblico, cresciuto dal 35 (nel 1970) al 120% del Pil. Si era allora in un mondo diviso in due e sull’orlo del conflitto nucleare aperto. Qui c’era il partito comunista più forte dell’Occidente, radicatissimo nel mondo del lavoro, e un conflitto sociale di cui ancora si conserva l’odore (il ’68-’69). La scelta tacita fu quella di «pagare a debito la pace sociale». Fu favorito un «processo di popolo, dal basso, di tanti soggetti», con gradi partiti di massa e «soggetti intermedi». E la spesa pubblica provvide a creare le condizione di un «ceto medio diffuso», il cui benessere cresceva con gli anni (grazie anche all’evasione fiscale), politicamente moderato. Finita l’Urss e arrivato questa crisi sistemica, quel modello non ha più ragione di esistere. Né possibilità. «Ogni rinnovo di stock del debito» permette ai «mercati di imporre fisicamente la quota di Pil che deve essere destinata a coprire il debito». L’Italia, quindi, è un paese vulnerabile più della media quando deve presentarsi – e lo fa spesso, vista la dimensione dello stock che va rinnovata un pezzo dopo l’altro – sui mercati per chiedere nuovi prestiti con cui sostituire quelli in scadenza. Non basta. La debolezza finanziaria è all’origine anche dello spread, ovvero della fifferenza tra i tasso di interesse dul debito che l’Italia paga a confronto con altri paesi. Se la Germania si rifinanzia – come in questi mesi – gratis (a tasso zero), mentre l’Italia o la Spagna pagando il 6%, è chiaro che una quota corrispondente di Pil se ne va in interessi invece che in spesa produttiva. E quindi ci tagliano salario, pensioni, dirittti, sanità, istruzione, ecc. In fondo, i comunisti che ci sono non fanno più così paura. Fr. Pi.

 
 
da “il manifesto”

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1 Commento


  • Roberto

    Mi sembra che l’analisi si sbagliata.
    Non è vero che il debito ha finanziato uno stato sociale altrimenti impossibile. Alcune premesse sono sicuramente errate. Diciamo subito che la quota parte di debito che è stato prodotto dopo la prima repubblica è comunque la parte più consistente, e che comunque che con tutti i governi che si sono susseguiti dalla firma del trattato di Mastricht l’aumento del debito è stato maggiore che durante la prima repubblica e nell’eraq di Craxi.
    Ma la cosa più importante è la natura del debito Prima dell’adesione all’Euro (trattato di Mastricht ) lo stato poteva finanziarsi direttamente attraverso la banca centrale che poteva comprare i sui titoli di stato a tassi bassissimi ( anche nulli volendo). Quindi non erea un debito reale ma una forma speciale di tassazione in cui lo stato attaraverso la sua banca centrale stampa nuova moneta che poi promette di restuire.
    Con l’accordo di Mastricth e l’adozione dell’euro il debito di fatto diviene un debito in una moneta estera, quindi diviene un debito reale verso un soggetto terzo (le grandi banche).
    Questa è il motivo per cui mezza Europa sta andando verso la bancarotta.

    Mi permetto di aggiungere che questi grandi movimenti speculativi sono dovuti all’inbcapacità del capitale dio remunerarsi qundi esso si sta dirigendo verso forme di speculazione varia ( vedi ble varie bolle finanziarie americane inglesi e l’euro stesso.

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