Forse è il caso di prendere atto che gli “invasori” messi lì dalla troika attraverso Napolitano stanno effettivamente cambiando la struttura del paese. Intanto distruggendo le funzioni “sociali” – in senso lato – dello Stato. La rivendicazione di aver aggravato la recessione con le scelte fatte in dieci mesi illumina il “progetto di società” che dall’alto dei cieli europei “deve” essere imposto per il futuro.
L’idea di fondo, presa dai manuali più eterei di macroeconomia liberista, recita semplicemente: l’economia è affare delle imprese, che devono avere le idee, i capitali, la possibilità di imporre il tipo di contratto che loro conviene. I lavoratori debbono “competere” tra di loro per chi obbedisce di più e lavora fiatando meno. Il governo controlla dall’alto, indica le disfunzioni, favorisce le impresa che offrono soluzioni innovative, cancella le leggi che danno un briciolo di forza collettiva al lavoro, manda la polizia quando il conflitto supera una certa sogli molto bassa. E basta.
Dimenticatevi dell’Iri, delle partecipazioni statali, della programmazione economica, dei “piani per il paese”. Tutta roba che, secondo il pensiero degli economisti “ortodossi” alla Van Hayek, ha “impigrito” sia i lavoratori che le imprese, rendendo queste ultime troppo dipendenti dalla spesa pubblica. Sia sotto forma di appalti che di incentivi, di favoreggiamento dell’evasione fiscale che entrambi gli occhi chiusi sul lavoro nero.
Il regno dell’economia, quello in cui dovrebbe in teoria ripartire “la crescita”, per questo governo è una savana in cui “ogni mattina, non importa che tut sia gazzella o leone, devi correre”.
Vediamo qualche dettaglio in più dalla stampa di oggi.
La crescita? Affari vostri
Francesco Piccioni
La crescita è affare vostro. Crediamo sia la prima volta nella storia – non solo italiana – che un governo in carica si rivolge così alle parti sociali (sindacati e imprese, in primo luogo). «Il ruolo del governo è quello di cogliere il problema e farlo cogliere alle parti sociali e all’opinione pubblica. Facilitare le due parti a confrontarsi su questo tema e seguire le modalità». Poteva anche dire «scordatevi che da noi venga una proposta di politica industriale». Ma forse sarebbe sembrato poco elegante.
L’incontro con i sindacati, dunque, sembra essersi svolto in un clima decisamente «innovativo». Finito il tempo in cui i tavoli di concertazione vedevano l’esecutivo aprire una borsa immaginaria da cui trarre il valsente per accontentare tutti i commensali. In cassa non c’è una lira, ripetono in coro da molti mesi, e «intendiamo mettere le poche risorse che abbiamo come un’azione di supporto a quello che porterete come sindacato dal tavolo degli imprenditori». Parola di Corrado Passera, ministro di uno sviluppo economico demandato al libero gioco degli attori sul mercato.
Il «problema» che il governo ha messo davanti ai segretari generali confederali (Susanna Camusso per la Cgil, Raffaele Bonanni per la Cisl e, in assenza di Luigi Angeletti, Antonio Foccillo per la Uil) si chiama «produttività». Naturalmente accompagnato dalla «riduzione del costo del lavoro». Nel consueto impasto di retorica tra il gesuitico e il manageriale, il governo «si è chiesto se si sono fatti tutti gli sforzi per mettere in pratica l’accordo del 28 giugno 2011; ci chiediamo se non sia il caso di procedere ad uno sforzo di modernizzazione dei rapporti» tra le parti sociali «per cercare di colare questo spread di produttività». Ha portato infatti la certezza che Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo «hanno aumentato la produttività e diminuito il costo del lavoro», l’Italia (ancora) no.
Non è difficile capire cosa intenda il governo – e Confindustria – per aumento della produttività: «le ore lavorate», naturalmente a parità di salario. O quasi. «Senza aumenti della produttività gli aumenti salariali saranno impossibili». Nessun accenno al fatto che la produttività, normalmente, dipende dall’«innovazione di processo», ossia dagli investimenti in macchinari più moderni. Altrimenti, si accelera semplicemente la prestazione, come in Tempi moderni.
Tutto questo lavorare di più – è sfuggito a Passera – serve soprattutto a «convincere i mercati che l’Italia sta facendo sul serio»; che sta creando insomma le condizioni migliori per favorire l’arrivo di grandi imprenditori. Anche se – da Alcoa a Fiat, da Vinyls a Ibm – avviene esattamente l’opposto.
Ma cosa significa «ci sono margini per mettere più soldi in tasca alla gente»? I pochi dettagli concreti erano già arrivati in mattinata dal ministro Elsa Fornero. La quale aveva spiegato come ci fosse ancora qualche incertezza sullo strumento da usare, tra «detassazione del salario di produttività» (ovvero degli straordinari; spiccioli) e riduzione del cuneo fiscale. «Studieremo entrambi i provvedimenti, si tratta di trovare le risorse, ma nessuno si aspetti – ci mancherebbe, ndr – che saranno su vasta scala». La sua idea, è noto, consiste nel premiare «le buone relazioni di lavoro»; o, come usava dire in modo più brutale il suo predecessore Maurizio Sacconi, la «complicità» subordinata tra sindacato e impresa. Non si usa più la parola «cottimo», ma a occhio non dovremmo essere troppo lontani.
Le reazioni dei due segretari sindacali, dopo due ore di riunione, sono state come sempre immediatamente diverse. Bonanni ha preferito incassare il ritorno a un tavolo di palazzo Chigi come «una smentita per tutti i gufi anticoncertazione». Tanto, con la sua nota preferenza per la contrattazione prevalentemente aziendale, «coltiverò la possibilità di raggiungere un’intesa con le aziende», ha aggiunto senza troppi giri di parole.
Molto perplessa, invece, il segretario della Cgil, che era arrivata all’incontro con in tasca una delega del Direttivo nazionale a «programmare azioni di lotta, sino allo sciopero generale». Non c’è assolutamente alcun impegno» da parte del governo, che «continua a immaginarsi una incentivazione semplicemente al maggior lavoro», mentre infuriano «cassa integrazione e licenziamenti e riduzione della produzione». Ha gettato sul tavolo anche la modesta proposta di detassare le tredicesime, ma non si ha notizia di risposte. «Il governo continua a dire che le risorse non ci sono e questo dimostra la debolezza di una politica che propone la crescita senza mettere a disposizione provvedimenti e risorse».
Il problema in effetti è stato posto da Monti in altri termini: «le proposte e le risorse (in termini di «disponibilità») le dovete mettere voi. Questo governo, ripetiamo, ritiene che la «politica industriale» non sia affar suo. Ma «del mercato». In pratica, affari nostri.da “il manifesto”
Monti: crescita possibile solo migliorando la produttività
di Giorgio Pogliotti ROMA. Ridurre lo spread di produttività che ostacola fortemente la capacità competitiva delle imprese. È questo uno dei tasselli principali della strategia di rilancio della crescita del premier Mario Monti che, nella convocazione delle parti sociali per due distinti incontri a Palazzo Chigi (ieri si è svolto quello con i sindacati), ha sottolineato come su questo capitolo «non sono ancora riscontrabili significativi passi avanti».
A livello internazionale, infatti, dai principali organismi sono arrivati riconoscimenti per il percorso di riforme avviato dal Governo in risposta alle raccomandazioni del Consiglio europeo di fine giugno, mentre l’Italia resta un osservato speciale proprio sul versante della produttività.
Come ha ricordato al workshop Ambrosetti di Cernobbio il neopresidente dell’Efsf, Klaus Regling, a differenza delle altre principali nazioni europee che vedono il costo del lavoro per unità di prodotto diminuire nel tempo, in Italia il Clup è in aumento. Ebbene l’incontro di giovedì scorso con le imprese e quello di oggi pomeriggio con i sindacati, spiega l’ultimo comunicato di Palazzo Chigi, rispondono all’esigenza di sollecitare le parti sociali ad impegnarsi in tempi brevi su proposte condivise per migliorare l’attuale livello della produttività del lavoro. Il Governo considera centrale l’attuazione dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 per rafforzare la contrattazione di secondo livello che collega l’andamento dei salari a quello della produttività. Le imprese si sono dichiarate disponibili, ma come anche i sindacati, hanno chiesto una serie di interventi da parte del Governo, a partire dall’incremento della dote per la detassazione dei premi di produttività, dopo il taglio deciso dal precedente Esecutivo con la legge di stabilità.
È stato ridotto il tetto di reddito per poter beneficiare della detassazione (da 40mila a 30 mila euro), insieme all’importo soggetto alla cedolare del 10% (da 6mila a 2.500 euro), con il risultato di escludere operai qualificati e impiegati dal beneficio fiscale. La dotazione è ridotta a 835 milioni di euro per il 2012 e 263 per il 2013.
da Il Sole 24 Ore
Monti: “Fase molto dura. Si deve lavorare di più”
Alessandro BarberaColpo di scena. Il rito della concertazione non è più quello di una volta. Per anni ci hanno abituato a riunioni in cui sindacati e imprese presentavano al governo la lista delle doglianze. Ieri, per dirla con JFK, il governo ha definitivamente cambiato prospettiva. La possiamo riassumere così: non chiedete a noi quel che possiamo fare per voi, chiedetevi cosa potete fare voi per l’Italia. Poiché soldi da spendere non ce ne sono, poiché detassare la tredicesima servirebbe solo a far vendere più Iphone a Natale, Monti e i suoi ministri hanno spiegato brutalmente ai sindacati che per far ripartire la crescita e mettere più soldi nelle tasche degli italiani c’è solo una strada: lavorare di più.
Il premier l’ha detta in modo più diplomatico, il concetto è quello: «Il momento è carico di tensioni e preoccupazioni», «la fase che vive il Paese è molto dura», ma «così come il governo, bene o male, sta facendo il meglio che può, ci aspettiamo, anzi esigiamo a nome dei cittadini che imprese e sindacati facciano di più». Cosa? Poiché «la produttività del lavoro è la base per la crescita e l’occupazione», «bisogna recuperare la competitività delle imprese». A corredo del concetto Passera ha presentato sei tabelle imbarazzanti. Primo: la produttività per ora lavorata è la più bassa dell’Europa a 27, più bassa di qualunque Pigs . Nella classifica l’Irlanda è undicesima, la Grecia quindicesima, la Spagna ventesima, il Portogallo ventiduesimo. Nonostante un recupero a partire dal 2009, la forbice con area euro, Francia e Germania si va allargando sempre di più. Secondo: fatto 100 il costo nominale del lavoro per prodotto in Germania, in Italia è 135. A detta di Passera, di fronte a tutto questo non c’è credit crunch che tenga: «Nella sola industria i maggiori costi per interessi bancari valgono quattro miliardi in più che in Germania. A parità di persone occupate lo spread in termini di valore aggiunto è di 70 miliardi». In sintesi: in Italia si lavora (mediamente) poco, si innova (mediamente) poco, il costo del lavoro (soprattutto a causa delle tasse) è alto. Risultato: i nostri prodotti non sono abbastanza competitivi.
Come uscirne? Monti ha chiesto «entro un mese» un accordo fra imprese e sindacati, giusto in tempo per sventolarlo agli appuntamenti europei di ottobre: quello dell’8 (Eurogruppo dei ministri finanziari) e del 18-19 (Consiglio dei capi di governo). Il premier chiede «risultati concreti», qualcosa che porti l’Italia oltre l’intesa di giugno 2011 rimasta in gran parte inattuata. Nelle intenzioni dei più ottimisti l’accordo dovrebbe assumere la portata storica di quello del luglio ’93. Ma se allora si parlò essenzialmente di salario, qui oggetto dell’intesa dovrebbero essere tutti i fattori che incidono sulla produttività del lavoro: organizzazione aziendale, ferie, mansioni, assenteismo, utilizzo degli impianti, modelli contrattuali. Il governo chiede alle parti di ridare una spinta ai contratti aziendali, tuttora secondari rispetto ai nazionali.
Dopo aver rinunciato al rifinanziamento della legge Sacconi sulla detassazione del salario di produttività, il governo si è evidentemente accorto di aver fatto un errore. Se accordo ci sarà, se la produttività aziendale aumenterà, il governo si impegna «a mettere più soldi in tasca alla gente», dice Passera. «I margini ci sono». L’arco temporale è quello anticipato nei giorni scorsi dalla Stampa : prima della fine dell’anno, in un decreto ad hoc da convertire in Parlamento entro lo scioglimento delle Camere in febbraio.
Ce la faranno i nostri eroi? Dipende. Per Cisl e Uil se ne può discutere: «Abbiamo smentito i gufi anticoncertazione», esulta Bonanni. La leader Cgil Camusso invece ha intavolato un cortese (ma aspro nei contenuti) dibattito con Monti e i suoi ministri, lamentando la mancanza di misure per la «politica dei redditi», «l’occupazione» eccetera. «Siamo disposti a fare la nostra parte per estendere gli accordi di giugno 2011, ma per noi scadenze non ce ne sono». Sarà un mese lungo.
da La Stampa
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