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Cosa facciamo, con la Fiat che se ne va?

E’ quanto abbiamo scritto subito, a caldo, alla fine dell’incontro. E vediamo che anche i commentatori migliori – quelli che conoscono l’industria automobilistica e le regole del mercato, ma non obbediscono a Confindustria – hanno demolito l’incontro di sabato almeno quanto agli effetti produttivi. “Sotto le parole, niente”, perché non solo Marchionne non ha neppure accennato a investimento, ma ha seminato fumo su tutti gli argomenti chiave. E il governo ha acconsentito, prendendo per buone le parole (“mi fido”, avrebbe detto Mario Monti secondo i giornalisti-retroscenisti) e accordandosi per portare l’esempio Fiat al tavolo della produttività come minaccia per tutti: “se non ci dare l’aumento dell’orario e la cancellazione del contratto nazionale le imprese lasciano il paese”.
Giunge ora a maturazione completa, in un paese ridicolo, una conseguenza della globalizzazione che altrove (Usa, Germania, Francia, Olanda, ecc) è stata tamponata decisamente meglio: la produzione può essere effettuata ovunque nel mondo, e la vendita altrettanto. I parametri di costo che diventano decisivi sono allora: gli incentivi statali (là dove sono ancora possibili) e la loro dimensione, il costo del lavoro, l’assenza di diritti sindacali, l’orario di lavoro. Tutto il resto (prezzo delle materie prime e dei semilavorati, costo di trasporto, energia, ecc) ha un prezzo internazionale uguale per tutti. Sulla stessa merce, dunque, gli elementi suscettibili di “concorrenza” sono soltanto i primi. Addirittura lapalissiano, quindi, che venga chiesto ovunque di “flessibilizzarli” verso il basso. L’Europa liberista ha proibito gli “aiuti di stato”, cancellando quindi un elemento “politico” di sostegno alla produzione in una determinata area.
L’alternativa posta al lavoro dipendente è dunque secca: asservimento totale all’impresa o assenza di lavoro. Poiché lo Stato viene contemporaneamente ammanettato sul piano della politica industriale e del welfare, chi non trova un’occupazione a una qualsiasi livello di salario è automaticamente a rischio vita.
Il caso Fiat diventa così il paradigma di una condizione globale; e in tal senso “la crisi” aziendale viene usata come un’opportunità reazionaria. Contemporaneamente, tutta la vecchia impostazione sindacale – già ridotta sulla difensiva dalla lunga fase di stagnazione e recessione – diventa completamente obsoleta, fuori sincrono, ingestibile.
Sul piano strettamente industriale, infatti, quel che Marchionne dice non ha letteralmente senso. Se Fiat “credesse” nella rispresa del mercato da qui a due anni investirebbe ora per arrivare puntuale all’appuntamento. C’è un elemento di rischio? Beh, il capitale è per definizione “di rischio”. A fare i capitalisti come la Fiat fa a Pernambuco, in Brasile – dove lo stato ha messo l’85% del capitale necessario ad aprire l’impianto, concedendo anche cinque anni di fisco zero; o come in Serbia, dove tutto (investimento, salari, ecc) è stato messo dal governo locale – siamo in effetti capaci tutti.
Quindi lo scambio tra Usa e Italia, al tempo dell’eccordo sponsorizzato da Obama, è stato relativamente semplice: tecnologie italiane (risparmio energetico) in cambio di soldi per gli azionisti; ovvero in primo luogo per la famelica famiglia Agnelli, desiderosa da tempo di liberarsi della fastidiosa incombenza della produzione reale. Specie in Europa, dove la concorrenza è diventata insostenibile soprattutto a causa dell’assenza di nuovi modelli Fiat (un’altra conseguenza della scelta sciagurata di “non investire in un mercato in crisi”), mentre tutti i grandi gruppi ne hanno sfornati a decine.
Ma c’è anche un altro elemento sistemico che va messo a tema. Il modello di sviluppo centrato sull’automobile (come per gli elettrodomestici) è arrivato al punto zero. tranne che in alcuni mercati emergenti, il mercato automobilistico è un mercato di sostituzione. Non è più pensabile di costruire quantità crescenti di veicoli, all’infinito. Ma, al contrario, lo sviluppo tecnologico consente di produrre molti più esemplari in una minore quantità di tempo (e di impiego di forza lavoro). In regime capitalistico si palesa così un limite insuperabile che si introverte in concorrenza spietata tra i produttori: o si rassegnano a produrre tutti di meno, o accelerano la concorrenza e se ne eliminano molti. La seconda strada è quella “naturale”, per il capitale. QUindi la Fiat si avvia a chiudere, scomparendo dentro Chrysler e abbandonando il mercato europeo, dove – non sfornando nuovi modelli – non ha letteralmente più nulla da offrire.
L’impresa è dunque libera di volare via. Ma la gente, la popolazione, operaia e non, resta qui. E’ accettabile restare passivi di frnte a questa fuga che si traduce in povertà crescente per tutti? E se, com’è ovvio, non è accettabile, cosa facciamo?
Uscendo dalla logica retrò della disperata “difesa” dello statu quo ante, bisogna ormai mettere in campo pratiche e proposte di “pubblicizzazione” degli impianti che vengono abbandonati dal capitale. E’ possibile infatti che per alcuni stabilimenti e alcuni settori merceologici ci sia un “subentro” da parte di imprese straniere, ma questo riguarderà comunque una percentuale minima dei siti produttivi. Quindi è ora di passare – trovando le forme e “i bisogni” sociali da soddisfare – dall’occupazione degli impianti in via di chiusura alla loro riattivazione. Non è uno slogan, deve diventare un programma…

«Se anche il mercato si riprendesse fiat arriverebbe in ritardo»

Oreste Pivetta

Forse era tutto scritto nell’accordo Fiat-Chrysler: tecnologie agli americani, soldi agli azionisti italiani, cioè alla famiglia Agnelli, stabilimenti storici, da Mirafiori a Pomigliano, in vita finché la domanda di mercato avesse retto. Le promesse di Marchionne, il progetto Italia, i venti miliardi di investimenti, un libro dei sogni che politica e buona parte del sindacato hanno letto, con malizia o con ingenuità, come un modo per tirare a campare, illudendo se stessi e illudendo buona parte di quanti nelle fabbriche Fiat si sono guadagnati da vivere e ci contavano ancora.

«Chi ha mai letto – commenta Luciano Gallino, sociologo e grande studioso dell’industria e del lavoro in Italia – una pagina di quel programma. Nelle mani di chi è mai stato consegnato un volume di centinaia di pagine in cui si dettagliassero progetti per la Fiat e conseguenze per l’indotto, in un quadro di enorme complicazione: basti dire che il futuro Fiat si sarebbe dovuto misurare con la realtà di ottocento fornitori. Niente. Quanto ci è stato riferito adesso, quanto siamo venuti a sapere, non aggiunge nulla, se non ancora una promessa, la promessa di Marchionne di investire quando il mercato riprenderà quota. Vaghe e soprattutto strane parole. Perché se davvero le vendite prima o poi dovessero riprendere, la Fiat arriverebbe inevitabilmente in ritardo, seguendo la strada indicata da Marchionne. Sappiamo bene quanto tempo sia necessario per progettare e mettere in produzione un nuovo modello. Due, tre anni? In un mercato ipoteticamente in rilancio, Marchionne si ripresenterebbe con modelli vecchi? Per perdere un altro giro? Siamo alla ripetizione di una scena già vista: non abbiamo ascoltato null’altro che dichiarazioni generiche, senza una prospettiva, senza una novità, senza una invenzione. Faccio un esempio: una grande impresa automobilistica non è detto debba produrre solo proprie automobili, potrebbe realizzare anche parti per altre imprese, motori o pianali. Non mi sembra che Marchionne abbia mai esplorato una possibilità del genere». Il manager italiano più americano, come lo hanno definito alcuni, o il solerte funzionario di un dipartimento Usa, come lo hanno definito altri, probabilmente sa di finanza, molto meno di auto.

Ma, allora, professor Gallino, dobbiamo rassegnarci al ridimensionamento e al declino della Fiat in Italia?

«Ridimensionamento e declino appartengono alla storia degli ultimi decenni. Negli anni novanta la Fiat produceva due milioni di vetture, che sono diventate un milione, ottocentomila, mezzo milione. Adesso siamo a quattrocentomila. Queste sono cifre che dicono tutto. A proposito del passato e a proposito del futuro. Pensiamo al calo degli occupati, anche se in questo caso entrano in gioco nuove tecnologie che hanno consentito di ridurre pesantemente il numero degli addetti».

Il governo deve accontentarsi di ascoltare Marchionne o ha strumenti per intervenire? Ammesso che abbia i soldi…

«È difficile immaginare nuovi incentivi. In passato si usò l’arma della rottamazione. Adesso si finirebbe con il favorire i produttori stranieri più che la Fiat. Se la Fiat non avesse chiuso Irisbus, si sarebbe potuto pensare a un intervento di Stato e Regioni per rinnovare un parco autobus obsoleto, inquinante. Sarebbe stato un bel modo per favorire una mobilità sostenibile e collettiva, alternativa al mezzo privato. Ma non s’è mosso lo Stato, non si sono mosse le Regioni e non c’è più Irisbus. Peraltro costruire autobus non prevede l’automazione in atto nella produzione di auto. L’operazione è più complicata, chiede manodopera specializzata, vi sarebbe stato un bel vantaggio anche per l’impiego. Un autobus, a bilancio, pesa come cinque o dieci auto».

Le chiedo di nuovo: dobbiamo rassegnarci a perdere l’auto italiana?

«Non si può pensare di produrre all’infinito e con la stessa intensità di un tempo macchine, frigoriferi, elettrodomestici o altri tradizionali beni di consumo. Nell’auto non si tornerà mai ai livelli di produzione del 2007. Bisogna immaginare altri modelli di sviluppo, con il realismo di chi sa che non si cambia con un clic e sa che cosa significa dal punto di vista dell’occupazione l’auto, rampo di attività produttiva che riguarda chi costruisce, chi fornisce, chi (dai gommisti ai benzinai) garantisce la funzionalità del sistema. Detto questo bisogna pensare ad altro».

Ma ci sono le idee? Soprattutto ci sono i soldi?

«Le idee ci sono. Dove intervenire: il dissesto idrogeologico, la scuola, i beni culturali, l’energia. Settori ad alta intensità e qualità professionale. I soldi? Quanti miliardi di euro ha consumato l’Unione europea per tenere in piedi banche e finanza? Poi ci si dice che non si può spendere per rilanciare l’industria».

L’ultima fotografia è quella di un governo che assiste impotente?

«Come sempre, quando non si sa che cosa, si istituisce una commissione che studierà oppure si apre un tavolo di trattativa. Politica industriale non se n’è fatta da tempo. Il governo dei professori è preda di una cultura neoliberale: aspettano che siano gli imprenditori e il mercato ad aggiustare le cose. Considerano lo Stato come il nemico e in frangenti come questi ritengono che lo Stato non debba far nulla. Salvo, appunto, pagare le banche».

Da l’Unità

Sotto le parole niente

Vladimiro Giacché

Quanto all’individuazione di proposte concrete per affrontare la crisi della Fiat, il comunicato congiunto emesso al termine dell’incontro di sabato tra Fiat e governo è a dir poco deludente. E tuttavia quel comunicato contiene diverse informazioni importanti. La prima è che Marchionne non garantisce nulla. Certo, «i vertici Fiat hanno manifestato l’impegno a salvaguardare la presenza industriale del gruppo in Italia». Ma non si dice se questo varrà per tutti gli impianti oppure no.

Il modo con cui si vuole salvaguardare questa presenza è poi quanto meno curioso. «Fiat – si legge nel comunicato – è intenzionata a orientare il proprio modello di business in Italia in una logica che privilegi l’export, in particolare extraeuropeo». Qui le cose da notare sono diverse.

In primo luogo, viene confermato l’abbandono del mercato domestico. La motivazione ufficiale è che in Italia e in Europa la domanda è debole. Ma le quote di mercato che Fiat sta perdendo in Europa sono maggiori di quelle perse dai concorrenti: il problema principale non è quindi la debolezza della domanda, ma la carente qualità del prodotto. Inoltre, quali sono i mercati extraeuropei a cui si fa riferimento?

Certamente non la Cina, dove la Fiat non è presente. Non il Brasile, perché le autovetture Fiat che si vendono da quelle parti sono prodotte in loco. Quanto agli Stati Uniti, gioverà ricordare che il piano 2010, che prevedeva l’esportazione di oltre 100 mila autovetture verso gli USA, è stato completamente disatteso.

Ancora: la Fiat ha manifestato «piena disponibilità a valorizzare le competenze e le professionalità peculiari delle proprie strutture italiane, quali ad esempio l’attività di ricerca e innovazione». Questo ovviamente presuppone l’effettuazione di investimenti adeguati. Ma al riguardo la Fiat si limita a confermare «la strategia dell’azienda a investire in Italia, nel momento idoneo, nello sviluppo di nuovi prodotti per approfittare pienamente della ripresa del mercato europeo». La formulazione “nel momento idoneo” significa: “non ora”. Ma se, come lo stesso Mar chionne ha affermato, la ripresa comincerà nel 2014, il momento giusto per investire sarebbe adesso. Altrimenti della ripresa beneficerà qualcun altro.

Alla luce di questo scenario, ben diverso da quello propagandato con Fabbrica Italia, che prevedeva addirittura un inverosimile raddoppio della produzione, nell’incontro si è deciso di iniziare «un lavoro congiunto utile a determinare requisiti e condizioni per il rafforzamento della capacità competitiva dell’azienda». In tale sede la richiesta più probabile da parte di Fiat sarà l’utilizzo della cig in deroga, quando, nel 2013, si arriverà alla scadenza della cassa integrazione straordinaria. Insomma, altri soldi pubblici.

Tutt’altro che chiaro, invece, l’orientamento del governo. Anche qui, però, qualche notizia c’è. In primo luogo, l’incontro stesso di sabato è una sconfessione di fatto dell’affermazione di Monti del marzo scorso, secondo cui «chi gestisce la Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti le localizzazioni più convenienti e non ha nessun dovere di ricordarsi solo dell’Italia». Rispetto al disastro sociale e industriale che si profila, ora il governo ha deciso di intervenire. Scoprendo – un po’ tardivamente – che tra i suoi compiti non rientra quello di farsi megafono dell’irresponsabilità sociale di un’impresa che dallo Stato italiano ha ricevuto 7,6 miliardi di euro in 30 anni, ma piuttosto quello di impedire che un pezzo importante dell’industria italiana scompaia. E forse prendendo coscienza anche del fatto che la campagna di Marchionne contro la Fiom e i diritti sindacali, accusati di essere il freno alla ripresa della Fiat, era pretestuosa, e che comunque appoggiarla non ha minimamente contribuito a risolvere i problemi della Fiat.

Gli strumenti ora a disposizione del governo sono diversi. Si tratta di scegliere quelli giusti. Sarebbe un errore dare alla Fiat incentivi per non produrre, quali la cassa integrazione in deroga. Molto meglio, ad esempio, incentivare fiscalmente gli investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico. Più difficile, ma non impossibile, trovare misure per agevolare le esportazioni. L’esperienza passata però insegna che tutto questo deve essere subordinato ad accordi ed impegni chiari assunti dalla Fiat. Che per ora non ci sono.

In assenza di questi impegni, gli sforzi del governo dovrebbero dirigersi in una direzione diversa: operare attivamente affinché imprese estere rilevino gli stabilimenti automobilistici Fiat che l’azienda (ormai italiana e torinese solo nel nome) sta lasciando inattivi, e si appresta a chiudere. Sapendo che in un caso come questo la variabile tempo è una variabile critica.

Detto in parole povere: che non c’è altro tempo da perdere.

da Pubblico

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