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Gli ideologi del Corriere della sera

Il Corriere della sera è da sempre il “pesce pilota” della borghesia nazionale, l’interprete in tempo reale delle esigenze e dell’ideologia di questo settore. Da giorni batte con i sui editoriali sempre sullo stesso tasto: aboliamo lo stato sociale, ridiamo alla legge della giungla l’ultima parola su ogni cosa e vedrete come saremo di nuovo “competitivi”.

Oggi è stato il turno di Panebianco, grigio e stanco tessitore di frasi fatte, che si impegna come può nello stilare la “lista dei nemici”, definiti “complici del declino”. Significativo non per la profondità del pensiero, quanto per il fatto che la classe dirigente ritenga necessario rivolgersi così ai lettori, veicolando un senso comune reazionario senza ritorno.

Come altra volte, “decodifichiamo” il ragionamento inframezzando l’editoriale di Panebianco con le nostre considerazioni.

Tutti i complici del declino

Angelo Panebianco

Ma perché mai dovrebbe esserci in Italia un futuro di crescita economica, di ampliamento della ricchezza individuale e collettiva, di assorbimento e valorizzazione delle energie giovanili, se entrambi i principali strumenti di guida e controllo della collettività, la politica e il diritto, danno l’impressione di essere stati plasmati per favorire il declino, l’accelerazione della deindustrializzazione del Paese, l’accrescimento e la diffusione della povertà?

Redazione. È singolare questo atto d’accusa contro “politica” e “diritto” per come sono stati costruiti in Italia. Quel che abbiamo davanti, infatti, è esattamente quello che il Corriere della sera ha sponsorizzato per decenni. Se la notazione critica venisse da un giornale d’opposizione, potrebbe sembrare sensata; ma dal Corriere, via…

Partiamo dal diritto. Si accusano sempre e soltanto i politici per le astruserie delle norme che regolano l’amministrazione pubblica e i rapporti fra amministrazione e cittadini. Ma i politici sono solo dei coprotagonisti e, spesso, anche impotenti (basti vedere come il cavillismo, di cui l’amministrazione pubblica è maestra, riesca oggi a ritardare, e forse anche a sabotare, l’attuazione di diverse riforme varate dal governo Monti). Quella impalcatura giuridica, soffocante e irrazionale, è gestita, plasmata, interpretata da una «infrastruttura amministrativa», una burocrazia, che, per mentalità prevalenti e stili di lavoro, è assai poco compatibile con le esigenze di una società industriale in crescita.

Red. L’«infrastruttura amministrativa» e giuridica italiana è frutto di compromessi più o meno “storici” tra esigenze oggettive e interessi di parte. Anche qui, il Corsera ha avuto per decenni un ruolo “ideologico” non secondario, consigliando sempre il conformismo alla burocrazia: sia quando si trattava di “proteggere” l’impresa e il potere, sia quando c’era da “fare le pulizie” (Tangentopoli, ecc). “Mentalità” e “stili di lavoro” sono stati sagomati per rispondere a certi input, che con “l’efficienza” e “il merito” c’entrano davvero poco. Ma l’intemerata di Panebianco contro il “cavillismo” sembra fuori luogo quanto l’incazzatura di un padre che ha dato per anni il sonnifero ai figli per non essere disturbato e poi scopre che, diventati grandi, sono tossicodipendenti.

Tale uso perverso del diritto da parte di burocrati addestrati a non fare i conti col principio di realtà non caratterizza solo l’amministrazione. Tanti operatori giudiziari sono dello stesso conio, figli della stessa tradizione giuridica che ha formato gli amministratori. Basti vedere come viene giudiziariamente gestita la vicenda dell’Ilva di Taranto. Non sembra che si voglia contemperare a tutti i costi, tenendo conto dei dati di realtà, bonifica e salvataggio della continuità produttiva e delle quote di mercato dell’azienda. Sembra piuttosto che si voglia dare, anche lì, un contributo alla de-industrializzazione del Paese. Come se la disoccupazione e la conseguente povertà non fossero anch’esse attentati alla salute, cause di mille malattie. Oppure pensiamo ai ricorsi Fiom contro la Fiat. La Fiom ha già vinto un importante ricorso su Pomigliano. Poniamo che anche altri magistrati le diano ragione. Non sarebbe forse quello, alla fine, un ottimo argomento per spingere la Fiat a prender su baracca e burattini e andarsene definitivamente? È da dubitare che ci sarebbe in tal caso una vittoria dei «diritti dei lavoratori»: quei diritti, comunque definiti, si estinguerebbero, non essendoci più i lavoratori.

Red. Ma è qui il cuore dell’argomentazione. L’amministrazione e la magistratura dovrebbero uniformarsi al “principio di realtà”, non alle norme o alla legge. Ma è noto che il “principio di realtà” può dare risultati opposti a seconda degli interessi in campo. Il boia e il condannato, per esempio: applicando lo stesso “principio di realtà” il primo cerca di portare a termine il compito, il secondo di impedirlo. Gli esempi fatti da Panebianco, però, sono davvero rivelatori dell’”interesse di classe” in questo momento. L’Ilva, i ricorsi Fiom contro la Fiat per comportamento antisindacale e il “modello Pomigliano”… In pratica Panebianco vorrebbe un mondo infernale in cui una fabbrica possa ammazzare all’infinito chi ci lavora e chi ci vive intorno, senza che nessuno – nemmeno la magistratura – possa metterci il naso. Strano, pensavamo che l’omicidio volontario, specie se seriale, fosse un reato alquanto grave… E vorrebbe anche un mondo in cui il sindacato non c’è, il lavoratore è muto, l’imprenditore fa profitti cercando le soluzioni per lui più vantaggiose.

Ma Panebianco si rivela ideologo a tutto tondo quando attribuisce alle “regole” (sulla sicurezza ambientale o sui diritti) la responsabilità di “disoccupazione e povertà”; come se solo l’assenza di leggi fosse compatibile con la logica d’impresa. È vero, naturalmente, in una sola direzione: le leggi, secondo lui, dovrebbero legare le mani soltanto ai dipendenti e ai cittadini, mai alle imprese e ai potenti.

Con il tocco “di classe” finale: “Come se la disoccupazione e la conseguente povertà non fossero anch’esse attentati alla salute, cause di mille malattie”. Ricapitoliamo: se è l’impresa a licenziare, la disoccupazione e la povertà sono “benefiche” perché aumentano la competitività; se una regola impedisce all’impresa la libertà totale (anche di omicidio), allora l’impresa fa bene a chiudere e in questo caso disoccupazione e povertà non sono benefiche. Quindi, l’unico modo di “convincere” l’impresa a restare è accettare tutte le sue scelte, anche quelle omicide, così si eviteranno le malattie della disoccupazione e della povertà (aumentando però quelle di una produzione sregolata). Coerente, non vi sembra?

Guardiamo ora alla politica. È troppo comodo, è troppo facile dire che la «demagogia» è solo quella di Beppe Grillo. Se per demagogia si intende promettere senza tener conto dei dati di realtà, senza precisare come, con quali soldi, e presi dove, e con quali conseguenze, si onoreranno le promesse, allora la demagogia è di casa ovunque: è il modo dominante mediante il quale i politici, vecchi e nuovi, si rivolgono all’opinione pubblica.

Dario Di Vico (Corriere , 22 settembre) ha ben illustrato a cosa abbia condotto la demagogia nella vicenda dell’inceneritore di Parma. I grillini avevano promesso di bloccare l’opera senza però precisare quale salasso ciò avrebbe comportato per le già disastratissime finanze comunali: una penale di 16 milioni di euro. E senza badare al fatto che la «soluzione» cosiddetta alternativa (esportare i rifiuti, secondo il luminoso esempio napoletano) imporrebbe ai contribuenti costi altissimi.

Ma, come si è detto, è facile prendersela con i grillini: con il no all’inceneritore non stanno facendo nulla di diverso da ciò che, prima di loro, hanno già fatto altri amministratori in altre zone del Paese.

Oppure, si prenda il caso di Berlusconi: promette di abolire l’Imu ma dimentica di dire da dove prenderà le risorse. O quello di Bersani, il quale, nel rigoroso rispetto della «agenda Monti» (qualunque cosa questa espressione significhi) si circonda di uomini che intendono rovesciare come un guanto la suddetta agenda, dalle pensioni al lavoro.

O si pensi a chi invoca patrimoniali in un Paese già super tassato. O a chi vaneggia di politiche industriali (che, tradotto dal politichese o dal sindacalese, significa massicci investimenti pubblici) per «sostenere l’occupazione», come se vivessimo ancora nel mondo relativamente chiuso e protetto del 1960 anziché in quello, globalizzato e iper competitivo, del 2012. Eppure, forse per la prima volta nella storia del Paese, c’è la possibilità che la demagogia abbia stancato una parte almeno dell’opinione pubblica e che quella parte attenda solo che qualcuno se ne accorga. Magari, chissà?, si è aperto uno spazio per l’anti demagogia (quella vera), la quale consiste nello spiegare dettagliatamente che cosa si intenda fare, con quali costi e quali conseguenze prevedibili, tenuto conto degli stringenti vincoli posti dalla realtà. Magari, il primo che riesca a dare di sé una vera immagine di serietà e di rigore potrebbe avere uno spazio elettorale che, data la nostra tradizione, è sempre stato fin qui negato ai non-demagoghi. Per esempio, chi scrive è convinto che se non si abbasseranno drasticamente le tasse, le tante parole che si spendono a favore della crescita economica resteranno solo chiacchiere. Ma è altrettanto convinto che se si vogliono abbassare le tasse bisogna spiegare dettagliatamente come e dove si recupereranno le risorse occorrenti.

Cattive abitudini politiche e cattivo uso del diritto spingono il Paese sulla strada del declino. Urgono idee fresche su come rovesciare la tendenza.

Red. Su una cosa, infine, Panebianco ha ragione. Constata che tra esigenze dell’economia in crisi e “qualità” della classe politica italiana c’è uno scarto molto grave. I “populismi”, da sempre, prendono un solo tema (a scelta tra tasse, inceneritori, corruzione, zingari, extracomunitari, ecc) e fanno una bandiera della soluzione semplicistica da loro immaginata per “risolvere il problema”. Problema che invece ha legami e implicazioni “sistemiche” troppo complesse per esser volgarizzate in parole d’ordine semplici.

La qualità infima della classe politica italiana è il problema che si trova davanti, oggi, la borghesia multinazionale europea. È il problema che ha momentaneamente risolto con il governo Monti, e che spera di contenere a lungo grazie al fiscal compact, al pareggio di bilancio in Costituzione e cento altri provvedimenti sulla stessa falsariga. Gli editoriali del Corsera (chiunque li scriva) servono ad accompagnare questo trasferimento di poteri (e di senso comune) dall’ambito della democrazia parlamentare a quello dei comandamenti imposti dall’alto, dai cieli della “troika” (Fmi, Ue, Bce). È questo il “principio di realtà” cui si richiama Panebianco. Lo potremmo anche chiamare “la voce del padrone”.

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