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Le zone vincolate e il sì in 45 giorni. Il pasticcio del limite impossibile

Era del resto l’aspetto più evidente, e stridente, del decreto sulle “sempificazioni”. Trasformare il silenzio dell’amministrazione publica in un “assenso” all’avvio dei lavori anche in aeree protette, mentre finora significa va “rifiuto”; e contemporaneamente limitare a soli 45 giorni il tempo entro cui l’amministrazione deve dare eventualmente un parere contrario motivato, vuol dire permettere tutto. Contropiano se n’era occupato ieri.

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Il rischio del boom di ricorsi per chiedere i danni allo Stato in caso di ritardo

Le zone vincolate e il sì in 45 giorni. Il pasticcio del limite impossibile

Cancellato il silenzio-rifiuto. Ma come faranno le sovrintendenze sotto organico?
Se gli efficientissimi uffici tedeschi impiegano 97 giorni a dare l’okay per costruire un capannone, può bastare una legge a miracolare le nostre soprintendenze spingendole a dire sì o no a un eventuale abuso entro 45? E questo nonostante gli uffici di tutela abbiano qua e là paurose carenze d’organico? Eppure è questo l’intento della nuova legge sulla semplificazione. Che rischia di essere un pasticcio dalle conseguenze da brividi. In linea di principio, ovvio, è impossibile non essere d’accordo. Anzi, il sogno di tutti i cittadini sarebbe quello di ottenere una risposta alla domanda di una licenza edilizia entro una settimana. O magari il giorno dopo. Ma un conto sono le dichiarazioni di principio, un altro il buon senso.

Immaginate una legge che dica: le ambulanze devono arrivare in ogni luogo d’Italia entro 5 minuti dalla richiesta di soccorso. Evviva. Ma le strade dovrebbero essere in ordine, le piazzole attrezzate, i centralini sempre all’erta, le autolettighe nuove e non vetuste con 22 anni di anzianità media, i volontari e i medici abbondanti, i serbatoi della benzina sempre pieni… Insomma: calare dall’alto un bellissimo principio su una realtà sgangherata non solo non risolve i problemi ma rischia di aggravarli creando aspettative impossibili da accontentare.
Certo, la storia dei permessi edilizi nei luoghi soggetti a qualche forma di tutela paesaggistica, monumentale o archeologica era regolata fino a ieri da due leggi che finivano per andare in conflitto. Una diceva che il silenzio delle sovrintendenze equivaleva al rifiuto, un’altra che equivaleva al consenso. E sul tema da anni si erano aperte infinite baruffe politiche e giudiziarie. È lì che interviene il disegno di legge: «La nuova disciplina del permesso di costruire, oltre a garantire tempi certi per la conclusione dei procedimenti, elimina il silenzio rifiuto previsto per il rilascio del permesso medesimo nei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali». D’ora in avanti le novità «consentono una maggiore certezza del rispetto dei termini e una riduzione dei tempi di conclusione del procedimento, in virtù dell’obbligo dell’amministrazione competente, di emanare il provvedimento, una volta decorso il termine per l’espressione del parere da parte del soprintendente, che viene ridotto a 45 giorni».

Sulla carta, benissimo. Ma si può chiedere a una tartaruga di farsi di colpo lepre? Dice Confindustria che per tirar su uno stabilimento in una zona industriale una media azienda deve aspettare 97 giorni in Germania, 184 in Francia e 258 giorni da noi. E parliamo di aree industriali, pezzi di territorio già compromessi. Non delle colline terrazzate del Chianti, dei dintorni di un sito archeologico o di una costa ancora incontaminata. Non bastasse, quella tartaruga è azzoppata da un’antica e progressiva carenza di organici. Solo tra i dirigenti, ne mancano uno su sei. E tra quelli che dovrebbero compiere i sopralluoghi i vuoti in certe aree sono drammatici.
«In Molise abbiamo quattro persone che possono andare a fare le verifiche, coi mezzi pubblici o con l’auto propria ricevendo rimborsi bassissimi e pagati a volte molti mesi dopo», spiega il direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici Gino Famiglietti. «Quattro persone per 4.400 chilometri quadrati: ammesso che passino la vita in giro, e ancora non basterebbero, poi i controlli sulle carte in ufficio chi li fa?».

Tanto per dare un’idea: come ricorda il deputato Roberto Morassut il carico di lavoro a Roma è tale che le 600 mila pratiche dei condoni edilizi craxiani e berlusconiani (l’ultimo 9 anni fa) sono state sbrigate solo per la metà. C’è anzi chi sta perfino peggio: a Messina i fascicoli ancora da smaltire sono circa 11 mila su 16 mila. E il giorno in cui tentarono di chiudere il contenzioso con la «sanatoria delle sanatorie» gli abusivi che scelsero di aderire con un’autodichiarazione furono lo 0,37%.
Perfino nelle realtà mediamente più virtuose come Torino la soprintendenza ammette: «Data l’impossibilità di verificare tutto, la maggior parte delle pratiche vengono sbrigate col silenzio-assenso». Figuratevi nel resto del Paese e soprattutto nelle quattro Regioni meridionali (Sicilia, Calabria, Puglia, Campania) in cui si concentra secondo il Cresme il 59,6% delle abitazioni abusive. Immaginatevi quei 45 giorni di tempo dati ad esempio nello sgangherato hinterland napoletano o a Ischia, dove su 62 mila abitanti sono stati denunciati 28 mila abusi. Sinceramente: davvero c’è chi pensa di potere arginare la devastazione del territorio, continuare a tagliare gli organici e allo stesso tempo raggiungere una produttività e una rapidità dimezzata rispetto agli uffici tedeschi? Ma dai…
Dice una nota di Lorenzo Ornaghi che no, «non c’è nessuna diminuzione del livello di tutela del paesaggio e dei beni culturali poiché la nuova norma, obbedendo a un principio generale di trasparenza della funzione pubblica, ha solo ribadito il diritto del cittadino ad avere in ogni caso una risposta espressa e motivata (negativa o positiva) sulla propria domanda di permesso di costruire o sulle altre istanze che presenti all’amministrazione». Può essere.

Eduardo Zanchini di Legambiente spiega però di essere preoccupatissimo: «Oggi le competenze sulla tutela sono in qualche modo contese, di fatto, tra le sovrintendenze e le Regioni. Non vorremmo che, nell’attesa di una risposta fuori tempo massimo dei soprintendenti asfissiati dal lavoro le Regioni e i Comuni consentissero di costruire anche nelle aree più delicate». Conosciamo già la risposta di rito: se succederà si tratterà di case illegali. Bella consolazione: in Italia, stando agli studi di Paolo Berdini, sono già quattro milioni e mezzo. E perfino quelle con decreto di abbattimento vengono poi abbattute nello 0,97% dei casi.

Per non dire, se non arriverà qualche ritocco salvifico, di un rischio ulteriore: ogni cittadino che non riceverà la risposta delle sovrintendenze entro 45 giorni sarà autorizzato a fare causa per danni allo Stato. Accettiamo scommesse: rischia di scatenarsi una baraonda avvocatesca mai vista.

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