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Lo schiaffo di Ken Loach

 

Un cinema stracolmo di lavoratori, studenti, precari, migranti, disoccupati ha accolto il regista Ken Loach che ha partecipato ed intervenuto all’assemblea indetta dall’USB dopo la vicenda dei lavoratori REAR licenziati (vedi notizie correlate).
Oltre alla solidarietà e alla vicinanza espressi da Ken Loach, si sono succeduti numerosi interventi di denuncia delle condizioni di lavoro e non/lavoro, precariato, casa, istruzione che si vivono oggi in una metropoli europea come Torino.
Dalle voci ascoltate, compresa quella del regista, è emersa  chiara la necessità di un ampio fronte di lotta contro le politiche europee delle banche e dei poteri forti che dettano le condizioni agli stati e determinano un attacco ai diritti e alle condizioni di vita delle popolazioni tutte.

Lo schiaffo di Ken Loach

Quando tra 1952 e 1953 il grande film di Chaplin Limelight (Luci della ribalta) giunse in Italia, la cultura italiana lo accolse con diffidenza, incomprensioni, accuse di ideologismo. Sulle pagine della rivista del PCI «Società» un critico militante – Carlo Muscetta – intervenne con uno splendido saggio, Lo schiaffo di Chaplin, in cui ribadiva il valore artistico e politico del film e l’inevitabile scontro del suo “umanesimo integrale” e del suo universalismo con una cultura retriva, reazionaria e incapace di cogliere la proposta di costruzione di un senso comune che emergeva dal film, questo “grande schiaffo poetico”.

Sessant’anni dopo tocca ad un altro regista inglese, Ken Loach, dare un grande schiaffo – non con un film, questa volta – ma con una presa di posizione, che investe in pieno l’ipocrisia e il pilatismo della cultura italiana pseudoimpegnata, ma ormai miseramente avulsa dalla realtà, che è riuscita a cadere nel ridicolo dichiarando di non conoscere le condizioni dei lavoratori esternalizzati delle cooperative del Museo del Cinema, o peggio – conoscendole – di dire che “l’esternalizzazione è prevista dalla legge”.

Ma questo sarebbe stato ancora poco se il rifiuto di ritirare il premio del TorinoFilmFestival da parte di Loach non si fosse incontrato con la lotta dei lavoratori della REAR e del sindacato Usb, organizzatori dell’assemblea di oggi, dal significativo titolo : Ken Loach a Torino. Non è un film. Questo spiega le centinaia di lavoratori, militanti, spettatori che hanno gremito la sala di un cinema del centro di Torino, in un’assemblea che per partecipazione e livello di discussione fa ben sperare per la creazione di quel fronte del lavoro, del lavoro precario, degli studenti e delle lotte metropolitane da tanti invocato anche oggi come imprescindibile.

Assemblea – hanno voluto ricordare i delegati e i dirigenti Usb intervenuti – e non evento per i giornalisti accorsi a fotografare e intervistare Loach, come se l’incontro fosse ancora una propaggine del TFF e come se le loro testate non avessero ancora una volta stravolto la verità coprendo di ingiurie il regista inglese e accusandolo di essersi solo fatto pubblicità! Assemblea di lavoratori e studenti, dunque, oggi ancora una volta in piazza a Torino a fianco dei metalmeccanici, e pronti nel pomeriggio a contestare Trichet, invitato al rettorato di Torino per una lectio magistralis i cui contenuti sono facilmente immaginabili.

Una sala di 440 posti a sedere stracolma, forse fino a 6-700 persone – tanto da doverne limitare l’accesso, a un certo punto, per motivi di sicurezza – ha ascoltato l’intervento di Loach che, con l’aiuto di un interprete, ha raccontato la vicenda che lo ha portato a incontrare Federico Altieri, il lavoratore licenziato dalla cooperativa REAR, appaltatrice dei lavori di vigilanza, accoglienza e biglietteria per conto del Museo Nazionale del Cinema. Loach ha poi raccontato anche dello scambio di lettere che egli ha avuto con il direttore del Museo e quello del TFF, così come ha tenuto a chiarire che il suo interessamento a questa vicenda non è nato qualche giorno prima del Festival, ma è iniziato a luglio, quando, dopo la prima lettera di Federico, ha deciso di condurre, su sua libera e privata iniziativa, un’indagine per chiarire meglio i rapporti che legano i servizi esternalizzati appaltati alla cooperativa, il Museo e il TFF e premere affinché i lavoratori licenziati fossero reintegrati e ottenessero uno stipendio adeguato. Insomma, il rifiuto del premio non è stato un coup de théâtre o una trovata pubblicitaria, né tantomeno un gesto estemporaneo o demodé di un regista legato a un passato che molti hanno avuto premura di definire “d’altri tempi“. È invece stata la logica risultanza (e non una “reazione”) di una prassi etico-politica che si svolge, con lo stesso ardore e coerenza, in ambito artistico e politico-sindacale.

Finito “l’evento” per il pubblico del festival, è continuata l’assemblea per le lavoratrici e i lavoratori (precari e non) di diverse aziende torinesi insieme agli studenti e agli attivisti di diverse realtà, oltre che allo stesso regista. Un momento, questo, in cui la realtà anticipata nel film “Il pane e le rose” (2000) – proiettato alla fine dell’assemblea – prendeva corpo nelle testimonianze dei lavoratori. Un momento in cui le diverse realtà del mondo del lavoro e le diverse generazioni hanno tentato di incontrarsi, raccontarsi e organizzarsi insieme. Non era forse fuori luogo, dunque, l’appello conclusivo di Aboubakar Soumahoro, responsabile nazionale USB per l’immigrazione, ad aderire a un sindacato che ha fatto dell’unione delle lotte la sua ragione d’essere.
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Oltre e a margine – ma non tanto – di questa conclusione politico-sindacale, un’altra ne verrebbe da fare sul ruolo e il destino di decadenza (autoindotto) di buona parte del ceto intellettuale e artistico nostrano negli ultimi decenni. A rileggere le dichiarazioni di Paolo Sorrentino su La Stampa a proposito della scelta di Loach, ci si rende conto del distacco di un ceto moribondo non solo dalla classe lavoratrice – come si usava dire un tempo – ma dalla realtà in genere, dai suoi problemi più profondi, dalle sue contraddizioni. Una volta si credeva che, perché un’opera d’arte fosse di valore, dovesse sprofondarsi nel movimento della realtà. Oggi, invece, questa posizione viene etichettata come schematica, ideologica. Pertanto, secondo il regista italiano, la reazione di Loach è «dal suo punto di vista, coerente». E tuttavia, aggiunge Sorrentino: «Non posso dire […] che avrei fatto la stessa cosa. Se una situazione del genere fosse capitata a me, non sarei stato così schematico, capisco che si può essere ideologici, ma io, forse anche per provenienza generazionale, sono più flessibile. Esprimere la solidarietà in quel modo appartiene a quelli che vivono la politica in un’altra maniera». Già, la provenienza generazionale si sente… La coerenza deve essere flessibile (così come i diritti, che devono essere sì garantiti, ma flessibilmente, fino a non essere più tali). Esprimere solidarietà, sì, ma in altro modo: magari continuando a usufruire ancora di servizi e del lavoro svolto in queste condizioni. Da una parte la morale, dall’altra la coerenza, la politica. La prima va sempre bene, se non accompagnata da coerenza, che porta poi a scelte incomprensibili “per distanza generazionale”. Viene da pensare allora a una frase del giovane Leopardi: “Parlate di morale quanto volete a un popolo malgovernato; la morale è un detto, e la politica un fatto”. Come dire, la morale è chiacchiera, la politica un dato, amministrazione “tecnica” dell’esistente. Con buona pace degli “antichi” che vivono la politica in “un’altra maniera”. Ed è in questa distanza etico-politica dalla realtà che si misura la valenza di un filmaker come Sorrentino e di un regista e intellettuale come Loach.

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