Ma un certo elettorato ci casca sempre, a quanto pare, se è vero che i sondaggi danno il Cavaliere in risalita.
L’Imu è una tassa odiosa, ma soprattutto per nulla equa. Come pensa il Cavaliere di “restituire” quei soldi senza provocare una nuova falla gigantesca nei conti? Stampando Bot e dando quelli al posto del denaro contante. Dal punto di vista dei singoli correntisti, apparentemente, non cambia molto (i Bot sono rivendibili in qualsiasi momento), ma sul piano del valore dei titoli cambia moltissimo. Non si tratterebbe infatti di titoli “messi sul mercato”, e quindi “prezzati” in base a un’asta; ma una semplice emissione di carta che solo a scadenza varrà i 100 euro a Bot.
Spulciando in rete, sono venuti fuori diversi elenchi di promesse fatte e ovviamente mai mantenute nell’arco dei 19 anni del ventennio di Arcore.
Un ripasso – anche se sappiamo che i “credenti” in berluska non arrivano fino a noi – può dunque esser utile. Se qualcuno ha anche una cronistoria delle promesse elettorali del Pd, la pubblicheremo molto volentieri.
Breve cronistoria.
Nel 1994, prima assoluta della sua “discesa in campo”, in campagna elettorale promette la flat tax, l’aliquota unica del 33% per tutti i contribuenti. «Tutti pagheranno meno tasse e i poveri saranno esentati». Non se ne fa niente e ovviamente accusa – successivamente – chi l’ha fatto cadere in Parlamento (Bossi e la Lega), altrimenti l’avrebbe certamente realizzata…
Nel 2001, firmando in diretta tv, nello Studio di Bruno Vespa, il “contratto con gli italiani”, le aliquote promesse diventarono due: 23% e 33%. Vinse e governò per cinque anni. Ma di questa riduzione sostanziosa (solo per i redditi più alti, perché quelli bassi hanno sempre pagato il 23%) non se n’è vista traccia.
Nel 2003, al momento di illustrare la “legge finanziaria” (ora si chiama “di stabilità” e viene scritta congiuntamente con l’Unione Europea) giura: «La riduzione dell’Irpef partirà dal prossimo anno e riguarderà ventotto milioni di italiani».
Il Parlamento arrivò ad approvare una legge delega in proposito, ma venne lasciata scadere. Banalmente, non vennero mai presentati i “decreti attuativi”. Insomma, era rimasta un semplice “documento” senza valore legale.
Suceesivamente, complice anche la peggiorata salute dei conti pubblici sotto la sua presidenza, le aliquote Irpef promesse crebbero di numero. Prima (nel 2005) dovevano diventare tre: 23%, 33%, 39%. Poi crebbero fino a quattro: 23%, 33%, 39%, 43%. Non troppo diversa dalla realtà già esistente. Domenico Siniscalco – che aveva sostituito Tremonti, in quel periodo – scrisse una riforma che rimodulava l’Irpef fu su quelle quattro aliquote, riducendo così le entrate di circa sei miliardi. Recuperati contemporaneamente con una raffica di aumenti sui bolli e altre imposte meno conosciute.
Nel 2006, altro anno elettorale partito con sondaggi assolutamente negativi e conclusosi col famoso “quasi pareggio”, il programma della Casa della libertà si arricchì del quoziente familiare (anch’esso riesumato in queste ore). «Un padre di famiglia pagherà il 30% in meno di tasse».
Alla campagna elettorale successiva, nel 2008, la promessa venne leggermente modificata: «introdurremo il quoziente familiare prendendo le risorse dall’evasione fiscale».
Non sembrava un granché, come spot persuasivo, quindi tornò sull’argomento arricchendo la portata della promessa: «porteremo l’aliquota massima al 33%, con le risorse che verranno dalla cura in profondità che attueremo per diminuire i costi dello Stato».
Questa sorta di “spending review” non fece mai la sua comparsa. In compenso, la “lotta all’evasione fiscale” veniva condotta a colpi di “scudo fiscale” (il terzo e il quarto della serie).
Infine, su una tassa come l’Irap, che a noi non dispiace, ma alle imprese sì (serve a finanziare il sistema sanitario), aveva giurato già nel 2001 nelle mani di Vespa: «Quella tassa farà una brutta fine». Come le imprese sanno bene, è sempre lì.
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