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“Netanyahu non gradito. L’Italia non sia complice di Israele”

E’ con questa parola d’ordine che in tutta Italia movimenti e comitati di solidarietà con il popolo palestinese si stanno mobilitando da settimane per contestare un vertice tra il governo italiano e quello israeliano fissato finora a Torino il prossimo 2 dicembre ma che ora sembra che verrà spostato (forse a Roma?).

Un vertice all’insegna della cooperazione militare, ha sottolineato ieri pomeriggio la giornalista Stefania Limiti aprendo un seminario organizzato da varie realtà romane all’interno del Cinema Occupato Volturno, a due passi dalla Stazione Termini. “L’Italia è protagonista della cooperazione con Israele, e dal punto di vista del mercato di armi è al secondo posto solo dopo gli Stati Uniti con 500 milioni di euro di scambi nel settore bellico solo nel 2012” ha ricordato l’animatrice del Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila, denunciando che ciò avviene in un contesto in cui Israele continua ad essere attiva nella destabilizzazione e nella balcanizzazione del Vicino Oriente. Il che non impedisce alla Nato di proseguire un processo di integrazione di Israele che vede nelle esercitazioni congiunte nel Negev israeliano un momento saliente. Le ragioni per dire ‘no’ all’amicizia e alla cooperazione tra Italia e Israele sono infinite, sottolinea Limiti, sottolineando in particolare due aspetti: la natura colonialista di uno stato che persegue la guerra e la pulizia etnica nei confronti dei palestinesi e la natura aggressiva ed egemonica della nuova destra sionista che ormai governa Israele da una decina d’anni e che ha visto l’ascesa della famiglia Netanyahu sostenitrice del progetto della Grande Israele. Conseguenza del fallimento degli accordi di Oslo, ha avvertito Limiti, è che in questi venti anni Israele ha perseguito una continua colonizzazione con l’obiettivo di rendere impossibile la costituzione di uno Stato Palestinese indipendente, facendo mancare – come hanno denunciato anche le Nazioni Uniti – la continuità territoriale e le risorse minime necessarie. “Non vogliamo che l’Italia faccia parte dei Cani del Sinai” ha affermato Stefania Limiti, utilizzando una formula utilizzata nel 1967 dall’intellettuale livornese Franco Fortini in riferimento ai sostenitori di Israele. La giornalista ha concluso il suo intervento con l’invito a non dividersi nel sostegno a una o all’altra fazione palestinese ma a concentrarsi sulla solidarietà nei confronti del popolo palestinese e dei suoi interessi generali, prendendo a punto di riferimento coloro continuano a perseguire la resistenza.
Proprio sul diritto alla resistenza – riconosciuto dalle convenzioni internazionali – si è concentrato Marco Ramazzotti Stockel, della Rete Ebrei contro l’Occupazione, che ha invitato a difendere l’applicazione del diritto internazionale che in qualche modo rappresenta un’arma contro l’aggressività del sionismo. Ramazzotti Stockel ha spiegato come dal punto di vista storico e delle convenzioni internazionali i palestinesi abbiano tutto il diritto di resistere alla colonizzazione e all’occupazione israeliana, frutto delle responsabilità delle potenze coloniali che al termine della Seconda Guerra Mondiale violarono quanto stabilito dalla Società delle nazioni che aveva riconosciuto la sovranità e l’indipendenza della Palestina sancendone l’indipendenza al termine di un breve mandato internazionale. Come è possibile negare la resistenza palestinese – si è chiesto l’esponente della rete Eco – quando l’intera mappa mondiale è il frutto di movimenti di resistenza anticoloniali e delle resistenze europee contro il nazifascismo.

Particolarmente apprezzato l’intervento della giovane Lema Nazeeh, rappresentante dei comitati popolari di Ramallah, che ha raccontato la scelta di alcune realtà della resistenza palestinese di adottare forme di disobbedienza e resistenza popolare, ad esempio lanciando la realizzazione di villaggi o insediamenti nelle zone che Israele ha deciso di annettere od occupare. Una forma nuova di mobilitazione che non risponde più agli attacchi israeliani ma prende l’iniziativa, mettendo Israele davanti al fatto compiuto e obbligando gli occupanti ad inseguire un attivismo che trova la confluenza delle diverse fazioni palestinesi e che sembra capace di coinvolgere anche ‘i palestinesi del ‘48’ (quelli che vivono nelle terre annesse da Tel Aviv). In particolare Lema Nazeeh si è soffermata sulla ‘fondazione’ di Bab al Shams in Cisgiordania all’inizio di gennaio di quest’anno, iniziativa poi imitata in altri quadranti dei territori palestinesi occupati. L’attivista ha denunciato anche il progetto Prawer, attraverso il quale Israele vuole espellere e deportare migliaia di palestinesi e beduini da ben 37 villaggi del deserto del Negev e ha citato tra le recenti iniziative di lotta le giornate della collera lanciate con scadenza mensile dai movimenti della resistenza popolare palestinese e gli abbattimenti di alcuni tratti del ‘muro dell’apartheid’.
Il merito al diritto al ritorno dei palestinesi nelle terre dalle quali sono stati cacciati, il giurista Gianni Tognoni ha osservato che Israele non ha più neanche bisogno di negare questo diritto, perché ormai sta creando le condizioni affinché milioni di palestinesi cacciati ed esiliati non possano più tornare. I palestinesi non possono più essere relegati ad un ruolo di vittime, ha spiegato Tognoni, ma hanno tutto il diritto di costruire un proprio futuro, quel futuro che che noi occidentali sembriamo aver perso.

Enrico Bartolomei, attivista delle campagne di solidarietà con la Palestina delle Marche, ha analizzato l’ampiezza della collaborazione tra Italia e Israele, che va divisa in tre livelli: accordi bilaterali, accordi nell’ambito dell’UE, accordi tra enti, imprese, fondazioni, università. Negli ultimi anni i governi italiani di diverso colore hanno incrementato e moltiplicato gli accordi, alcuni dei quali, spiega Bartolomei, hanno portato l’esecutivo di Roma a riconoscere in una dichiarazione congiunta – era il 2011 – il carattere ebraico di Israele. Nei vari vertici, denuncia l’attivista, si è ad esempio deciso di integrare alcuni poliziotti israeliani nel contingente italiano ad Haiti, o di finanziare una fondazione legata all’apparato militare per studiare il modo di rivisitare il diritto internazionale con l’obiettivo di impedire che le uccisioni di civili da parte delle forze armate israeliane vengano considerate violazioni gravi delle convenzioni internazionali ma solo danni collaterali. C’è di più, perché l’Italia finanzia enti, università e imprese private israeliane dedite alla progettazioni di sistema di sorveglianza e controllo, oltre che di droni, contribuendo così anche direttamente all’oppressione del popolo palestinese.

 

E’ proprio sulla cooperazione in campo bellico che si è concentrato il breve intervento telefonico del giornalista Antonio Mazzeo, secondo il quale proprio le armi saranno l’argomento clou dell’incontro tra Netanyahu e Letta del 2 dicembre, perché è proprio su questo settore che si concentrano gli appetiti dei due partner. Infatti se l’italia negli ultimi anni ha venduto ad Israele armi per centinaia di milioni di euro – ad esempio 30 caccia Aermacchi destinati all’addestramento dei piloti che Israele impiega nei raid aerei su Gaza o sulla Siria – Roma è interessata all’acquisto di droni senza piloti da utilizzare nello spionaggio internazionale e nel pattugliamento dei mari contro i migranti. Del resto la Guardia di Finanza ha già acquistato numerosi sistemi radar impiegati ora nella cosiddetta campagna ‘Mare Nostrum’ per sorvegliare il Mediterraneo ma ora le forze armate italiane sarebbero interessate ad acquisire alcuni droni killer realizzati dalle aziende belliche israeliane.

Dopo la lunga serie di interventi, Stephanie Westbrook ha ricordato l’importanza delle campagne BDS – boicottaggio, disinvestimento e sanzioni – che stanno causando all’economia di guerra israeliana danni non indifferentti, con la perdita di contratti per milioni e a volte miliardi di euro. 

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