[da notav.info]
La prima puntata dell’inchiesta, il 2 maggio la prossima puntata.
Le strane amicizie del pm Rinaudo
Magistratura e ‘Ndrangheta all’attacco della Val Susa
Nell’ottobre 2003 un pubblico ministero della procura di Torino, Antonio Malagnino, ricevette un rapporto dei carabinieri in cui comparivano telefonate “amichevoli” tra un suo collega in procura, Antonio Rinaudo, e un uomo, tale Antonio Esposito detto Tonino, soprannominato negli ambienti malavitosi “O’ Americano”, già accusato di aver pianificato un omicidio negli anni Ottanta, emissario a Torino del più potente e famoso boss della ‘Ndrangheta in Val Susa: Rocco Lo Presti, le cui attività criminali avevano condotto nel 1995 allo scioglimento per mafia del comune di Bardonecchia (primo caso nel nord Italia). Motivo scatenante dello scioglimento era stata l’inchiesta sul sindaco della piccola città alpina, che aveva concesso proprio a Lo Presti appalti miliardari in qualità di boss di quella “mafia della Val Susa” che connotò negativamente, per decenni, la fama di quei territori – fino alla nascita del movimento No Tav. Oggi Antonio Rinaudo gestisce con furore la battaglia giudiziaria contro quel movimento e difende un cantiere da più parti accusato di essere il nuovo e più grande bancomat per la stessa e sempre più potente organizzazione criminale.
La scoperta delle relazioni pericolose tra Rinaudo e l’emissario della ’Ndrangheta valsusina non portarono, sorprendentemente, ad alcuna conseguenza di rilievo per il magistrato. Rinaudo continuò, indisturbato, a ricoprire il suo ruolo di pubblico ministero. In quello stesso anno, anzi, gli fu affidata proprio un’inchiesta su attività riconducibili alla ‘Ndrangheta. Si trattava di sessantacinque persone coinvolte in un traffico internazionale tra tre paesi e due continenti. Rinaudo, per loro fortuna, lascerà giacere il fascicolo per ben dieci anni nel suo cassetto, prima di riesumarlo, appena un anno fa, quando per tutti gli indagati è ormai garantito, nei fatti, l’esito della prescrizione. È il procedimento 6616/02 R.G. G.I.P.: la chiusura indagini è datata 2003, ma la richiesta di rinvio a giudizio di Rinaudo (unico titolare dell’inchiesta) è dell’agosto 2013, dieci anni in ritardo e ad appena dieci giorni dalla firma del magistrato sulle prime accuse di terrorismo per chi si oppone all’alta velocità.
Prima di arrivare in Val Susa e imbastire la guerra giudiziaria contro il movimento, Rinaudo ha avuto tempo di lasciare altre tracce delle sue relazioni pericolose. Il 26 febbraio 2005, quando Tonino Esposito ormai da anni gestiva l’impero dello strozzinaggio per conto di Lo Presti a Torino, Rinaudo fece al criminale una delle tante telefonate, chiedendogli di passare a prenderlo in macchina per portarlo a cena in un Hotel di lusso, dove lo aspettava Luciano Moggi, da cui il pubblico ministero, scopriranno i carabinieri, riceveva da tempo regalie e favori. Ironia della sorte, il malavitoso si lamentò della richiesta di Rinaudo proprio con Moggi (che definì al telefono il pm “’Na rottura di palle”) e sbottò: “Questi qua so’ tutti la stessa pasta, so’, ‘sti magistrati!”. La telefonata era intercettata, stavolta, dal nucleo investigativo dei carabinieri di Roma, su ordine della direzione distrettuale antimafia di Napoli, che indagava, tra l’altro, sugli agganci che Moggi aveva con le forze di polizia e negli ambienti giudiziari.
Proprio da quelle telefonate emerse la presenza, alla cena tra Moggi, Rinaudo e Tonino Esposito, anche dell’avvocato ed ex deputato del Msi Andrea Galasso. La presenza di Galasso (che i carabinieri di Roma definiscono “comune amico” di Rinaudo e Moggi) conduce nuovamente, guarda caso, alla Val Susa. Galasso aveva difeso il presunto mandante di Esposito per il vecchio caso di omicidio: era Franco Froio, dirigente supremo dei lavori per l’autostrada del Frejus che ingrassarono a tal punto il clan di Lo Presti da attirare le attenzioni della commissione antimafia. Ora, mentre è a cena con Rinaudo, Galasso assiste il suo amico e sodale politico Ugo Martinat (all’epoca viceministro dei lavori pubblici), mentre suo fratello darà domicilio legale a Vincenzo Procopio, suo portaborse. I due erano sotto inchiesta per gli appalti truccati al previsto cantiere Tav di Venaus: il viceministro, grazie al suo faccendiere, aveva messo in piedi un sistema di incassi in favore di Alleanza Nazionale per tutti gli appalti pubblici del torinese, ma anche una spartizione occulta del denaro stanziato per il Tav (che coinvolse anche l’allora ministro per i lavori pubblici, Pietro Lunardi).
I fili pronti a dipanarsi dalle frequentazioni di Rinaudo, però, sono appena cominciati. Quando Antonio Malagnino scoprì i suoi rapporti con l’uomo di Lo Presti, nel 2003, stava indagando su vicende criminali che avevano il loro fulcro proprio nel rapporto tra Tonino Esposito e Vincenzo Procopio, l’uomo degli appalti a Venaus. Accadde in quell’anno, infatti, che Procopio (membro del comitato direttivo di Torino 2006) ricevesse strane telefonate di minaccia, per poi essere avvicinato da Tonino in persona, che gli disse: “So che hai dei problemi. Conosco persone che possono aiutarti”. Fu a partire da questo avvicinamento mafioso, e dal successivo invio di cinque buste contenenti proiettili calibro 10 a tutti i dirigenti del comitato direttivo, che la procura ordinò l’intercettazione dell’utenza di Esposito e appurò tanto i suoi contatti con Rinaudo quando quelli con Lo Presti, scoprendo le attività usurarie a Torino del boss della ‘Ndrangheta e il tentativo di infiltrazione nei cantieri olimpici.
Lo Presti ed Esposito furono arrestati alla fine del 2006, pochi giorni prima che uno dei sessantacinque indagati che Rinaudo aveva “dimenticato” nel suo cassetto, Rocco Varacalli (un affiliato di primo piano della ‘Ndrangheta), cominciasse a parlare con (altri) magistrati e raccontasse che tutti gli appalti di Torino 2006 erano stati assegnati dal comitato olimpico a ditte facenti capo alla sua organizzazione, così come i lavori finanziati dalla giunta Chiamparino per il piano regolatore torinese (spina 3) e dal governo per il Tav Torino-Milano (che servì anche a interrare quintali di rifiuti tossici nella pianura padana). E qui la storia inizia a farsi complicata. Varacalli rivelò i nomi dei capi delle “locali”, le strutture territoriali della ‘Ndrangheta torinese; tra essi Bruno Iaria, figlio di Giovanni, vecchio boss del Canavese, con centro di comando a Cuorgné, nell’hinterland settentrionale di Torino. Proprio in quei mesi Bruno Iaria figurava, guarda caso, tra i “dipendenti” dell’azienda di una nota famiglia valsusina, i Lazzaro, che secondo l’ex sindaco di Bardonecchia avevano svolto la funzione di prestanome per Lo Presti durante la costruzione dell’autostrada del Frejus. Lazzaro era stato anche arrestato per appalti truccati nel 2002, e in quell’occasione era emersa la presenza di una “talpa” in procura (mai identificata), che aveva avvisato gli “imprenditori” che era in corso l’intercettazione dei loro telefoni.
Poco tempo dopo, nel 2008, i Lazzaro ottennero appalti sia per lavori pubblici in Val Susa, sia per lavori di manutenzione della Salerno-Reggio Calabria e, attraverso complessi giochi camerali e contabili, si associarono a Giovanni Iaria in modo occulto. Questo, almeno, è ciò che dirà una relazione alla procura di Torino nel 2011, in cui si fece riferimento anche alle visite agli Iaria compiute da un altro “imprenditore” valsusino, Claudio Martina. Eppure, in quello stesso 2011, Ltf firmò un contratto milionario per il cantiere Tav di Chiomonte… con chi? Beh, naturalmente proprio con le ditte Italcoge e Martina Srl delle famiglie Martina e Lazzaro. Questo nonostante pochi giorni dopo, il 9 giugno, Giovanni e Bruno Iaria venissero arrestati con l’accusa di associazione mafiosa. Ma il 17 giugno, dopo altri otto giorni, Antonio Rinaudo firmò i primi cinquantacinque avvisi di indagine per altrettanti oppositori all’installazione del cantiere e ordinò la perquisizione di alcune loro abitazioni, tra cui quella del portavoce Alberto Perino (che avrebbe di lì a poco ricevuto una lettera con scritto: “Vi diamo tutti in pasto ai maiali e vi sciogliamo nell’acido”).
Altri dieci giorni e, il 27 giugno, duemila agenti tra poliziotti e carabinieri scortano la pala meccanica dei Lazzaro affinché essa distrugga, tra le proteste e la resistenza dei valligiani, le barricate che delimitavano l’ingresso alla Libera Repubblica della Maddalena, il presidio degli oppositori costruito dove doveva sorgere il contestato cantiere. Antonio Rinaudo fu allora definitivamente delegato a contrastare il movimento No Tav con l’arma degli arresti e dei processi. Il 18 gennaio 2012, intanto, Vincenzo Procopio entrò nel Consorzio Valsusa Imprese per lo Sviluppo, di cui facevano già parte i Lazzaro, e ottenne appalti per il cantiere appena aperto. Milioni di euro dei contribuenti sono quindi tuttora a disposizione, oltre che di chi è indicato dagli investigatori come sodale degli Iaria, e dall’ex sindaco di Bardonecchia quale prestanome di Lo Presti, anche di chi intrigò per spartire i miliardi di Venaus che non furono rubati (in favore del viceministro difeso dall’amico di Rinaudo, Andrea Galasso) soltanto per l’opposizione del movimento No Tav.
Il cerchio delle cene del 2005 e delle telefonate del 2003 si chiude sei giorni dopo l’ingresso di Procopio nel cantiere. Rinaudo firmò infatti la maxiretata con ventisei arresti e cinquantasei avvisi d’indagine contro gli oppositori al cantiere di Chiomonte. Le attività del pm e dei suoi collaboratori contro l’opposizione al Tav hanno successivamente portato, in meno di quattro anni, a quasi mille indagati per reati connessi alla protesta contro la grande opera. Arresti, forzature giudiziarie, lesioni del diritto di difesa, indifferenza smaccata o insabbiamenti per le violenze subite dai No Tav (dalle diffamazioni a mezzo stampa, ai pestaggi, agli incendi di auto e presidi, agli abusi sessuali). Tre ragazzi e una ragazza contrari all’opera sono detenuti da mesi, su ordine di Rinaudo, in completo isolamento e in regime d’alta sorveglianza nelle carceri italiane con l’accusa di aver danneggiato un compressore del cantiere, e per questo sono accusati da Rinaudo di “attentato con finalità terroristiche”. Due ragazzi scontano due anni e due mesi ai domiciliari per aver supportato un’azione No Tav. Le imputazioni e le intimidazioni del pm e dei suoi più stretti collaboratori non hanno risparmiato gli amministratori locali contrari al Tav, i giornalisti e i blogger critici verso il suo operato o verso quello della polizia, gli scrittori e gli intellettuali contrari all’opera; ma si sono concentrate soprattutto sui valligiani più affezionati alla salute della loro terra e sui giovani più generosi nel difendere un pezzo d’Italia dall’ennesima devastazione tossica da parte delle ecomafie e dei partiti.
Perché proprio Rinaudo? Perché proprio lui? Perché la procura ha affidato a un uomo con tali legami le controversie sociali sulla Torino-Lione, che coinvolgono migliaia di cittadini in contrapposizione a interessi politici e criminali cui conduce proprio ciò che abbiamo documentato con l’inchiesta che ora pubblichiamo nella sua interezza? E perché i mezzi d’informazione non hanno mai dato conto di tutto questo, almeno da quando Rinaudo è stato destinato a quella Val Susa che anche grazie a lui è diventata, in questi anni, territorio d’emergenza? Sono possibili risposte diverse. Quel che è certo, è che l’abuso giudiziario contro il movimento No Tav rivela, grazie alle informazioni che abbiamo qui raccolto, risvolti ancora più inquietanti. Tutte le notizie che abbiamo reperito sugli intrecci tra crimine organizzato, politica e magistratura in rapporto al Tav sono basate su fonti documentate, su visure camerali, atti giudiziari, interviste e report giornalistici che troverete indicati in calce ai testi. Curiosamente, questo materiale ci ha condotto esattamente dove ci avevano condotto, da anni, le informazioni raccolte nei bar della Val di Susa e, in alcuni risvolti decisivi, per le strade di Torino.
D’altra parte – come abbiamo già avuto modo di affermare – chi ci arresta e ci indaga sarà sempre sotto indagine da parte nostra. L’indagine di un movimento, però, è diversa da quella di un tribunale; ogni valutazione sui fatti è affidata unicamente all’attenzione critica di chi vorrà dare lettura di quanto segue.
Rinaudo nella selva incantata
Relazioni pericolose di un pubblico ministero
(2003-2006)
Le telefonate tra Rinaudo e Moggi – Rinaudo amico di Tonino Esposito – Esposito emissario della mafia della Val Susa – Rocco Lo Presti, il boss di Esposito – Lo Presti e l’Autostrada del Frejus – Rinaudo amico di Andrea Galasso – Galasso difensore del viceministro – Il viceministro e gli appalti Tav di Venaus – Galasso, Martinat e Procopio – Gli arresti di Esposito e Lo Presti – Rinaudo nell’inchiesta Moggi – Rinaudo pm disattento sulla ‘Ndrangheta – Procopio nel cantiere di Chiomonte – Rinaudo alla crociata contro l’opposizione al Tav
Le telefonate con Moggi
Alcune circostanze riguardanti l’attuale pm impegnato contro il movimento No Tav, Antonio Rinaudo, sono rimaste, fino ad oggi, nascoste. Amicizie e frequentazioni lo portano ad avere conoscenze cordiali in ambienti legati agli interessi economico-criminali in gioco sulla linea Torino-Lione, alla ‘Ndrangheta valsusina e all’estrema destra in doppiopetto inserita nelle lobby del Tav. Il complesso puzzle che abbiamo ricostruito produce uno squarcio sugli interessi criminali di quelle lobby nell’arco di vent’anni e anche più, ma anche sulla spregiudicatezza di certa magistratura torinese. È una storia che, per essere conosciuta nei dettagli – ed è importante conoscerla – ci riconduce indietro, fino alle Olimpiadi 2006, al piano regolatore di una metropoli come Torino, alla realizzazione dell’autostrada Torino-Bardonecchia e alla cementificazione dell’alta valle di Susa, per arrivare agli appalti per il Tav a Venaus, all’opposizione valligiana, all’occupazione militare della Maddalena, alla lottizzazione di mafie e partiti di 23 mld di denaro pubblico e alla persecuzione vergognosa di centinaia di persone – da parte del pubblico ministero Rinaudo e del suo team – per il fatto di opporsi a determinati interessi.
La documentazione prodotta mostra come la contrapposizione tra legalità e illegalità, sul piano dei grandi investimenti e delle grandi spartizioni di capitali, cada: il denaro e l’impresa illegali trovano schermo legale nel mondo dei partiti e nell’azione di governo, mentre l’azione repressiva della magistratura, selezionando gli obiettivi da colpire (perseguire alcuni settori della malavita o della politica a scapito di altri, concentrare tutte le proprie forze contro i fenomeni di insubordinazione sociale), si configura come ultimo dispositivo legale di tutela sostanziale degli interessi di una classe di investitori, costruttori e imprenditori che usano le tangenti, l’omicidio, l’intimidazione, l’accordo sottobanco e l’azione legale come tanti strumenti intercambiabili per raggiungere lo stesso scopo. In questa storia, che conduce al torrente Clarea, alla baita No Tav e allo scempio di uno dei luoghi più belli d’Italia, agli scontri con la polizia e agli arresti, fino alle celle di isolamento dove vengono rinchiusi i No Tav nelle carceri italiane, dobbiamo partire da molto lontano.
Dobbiamo incunearci per un attimo in ciò che potrebbe apparire più distante da simili vicende, irrilevante o distante da questo tipo di conflitti: il mondo del calcio; ma nella lunga e contorta fase della dismissione industriale e del saccheggio finanziario dell’area metropolitana torinese (dove alla continua apertura di cantieri pubblici si alterna l’investimento permanente nelle diverse dimensioni assunte dal fenomeno spettacolare) tutto si tiene. Il 24 febbraio 2005 i carabinieri intercettano una telefonata tra un pubblico ministero della procura di Torino, Antonio Rinaudo, e Luciano Moggi, direttore generale della Juventus. Rinaudo chiama Moggi, inutilmente, più volte; infine la segretaria del dirigente bianconero, Lella, glielo passa:
Rinaudo: Pronto?
Moggi: Ehii.
Rinaudo: Come stai?
Moggi: Come sta… eh io sto bene… lo sa perché c’ho il telefonino spento?
Rinaudo: Eh perché non vuoi che ti rompano le scatole.
Moggi: Perché mi massacrano con i biglietti del Real Madrid (ride) mannaggia.
Rinaudo: Eh, lo credo! Lo credo! Lo credo!
Moggi: Ma te la cosa migliore… mi chiami in sede e poi io ti richiamo subito… come si è
fatto ora… vedi non…
Rinaudo: Sì! Ma difatti, io che sono un Pubblico Ministero e so come vanno fatte le cose…
Moggi: Apposta (ride)
Rinaudo: Eeh… sono un po’ più intelligente degli altri!
Le telefonate tra Moggi e Rinaudo sono intercettate, in quei mesi, dal nucleo investigativo dei carabinieri di Roma su ordine della procura di Napoli, che indaga sugli illeciti sportivi compiuti da diverse società calcistiche, in particolare la Juventus. L’indagine è ancora segreta: il pubblico sportivo, il mondo del calcio e la popolazione italiana verranno a sapere di essa (che passerà alla storia come Calciopoli) più di un anno dopo, quando avverrà la chiusura delle indagini a carico di Moggi, direttore generale della Juve, Antonio Giraudo, suo vice, e molti altri patron e manager calcistici, oltre ad alcuni arbitri. La procura di Napoli, che ascolta Moggi per trovare prove dei suoi pilotaggi delle designazioni arbitrali da parte della Figc, scopre che il dirigente bianconero passa al telefono la maggior parte del suo tempo: per indicare ai designatori gli arbitri a lui graditi, ma anche per esercitare influenze e pressioni sul mondo giornalistico e coltivare amicizie nella magistratura e nella polizia, perché – come afferma lo stesso dirigente – “pallone uguale soldi e soldi uguale potere”.
Moggi, che ancora non sospetta di essere ascoltato, coltiva rapporti con i magistrati di Torino perché sa che la procura sta indagando, nella persona del pm Guariniello, su casi di doping sportivo; la Juventus ha tutto da guadagnare ad avere appoggi, anzitutto per ragioni informative, all’interno della procura: chi sa le cose in anticipo può prevedere meglio le proprie mosse. Ecco, ad esempio, cosa si dicono Rinaudo e Moggi:
Moggi: Senti un po’… come… ma quando ci vediamo una volta?
Rinaudo: Eh… dovevamo combinare… poi la cosa non… tu questo week end come sei messo?
Moggi: Eh io gioco in casa col Siena… noi ci vediamo con… Tonino e Andrea Galasso sabato sera alle otto e mezza a cena al Concord, che c’è la squadra… se tu vuoi vieni!
Rinaudo: Al Concord? Dov’è lì a…
Moggi: L’albergo!
Rinaudo: Eh! Ma dov’è ubicato?
Moggi: È lì vicino alla stazione a… in fondo a Viale… (inc.)… proprio davanti… vicino alla stazione Porta Nuova.
Rinaudo: Ah!
Moggi: Dai! Stiamo assieme… poi…
Moggi invita Rinaudo a cena con la squadra in un hotel di lusso, il Concord di via Lagrange 47, alla presenza di tali “Tonino e Andrea Galasso”, per recuperare un appuntamento che già da tempo (lo si evince dalle parole di Rinaudo) i due cercavano. Il magistrato, però, non è convinto da questa proposta perché preferirebbe che l’incontro restasse riservato:
Rinaudo: Ma io preferirei… non possiamo fare una cosa noi? Senza la Juve… senza la…
Moggi: La prossima settimana allora!
Rinaudo: Sii! La prossima settimana…
Moggi: Ci sentiamo allora, ascolta… io torno martedì mattina… ci sentiamo martedì e ci mettiamo d’accordo… un giorno della prossima settimana ci vediamo in un posto dove ti fa comodo a te…
Rinaudo: Eh! Ci vediamo… perché… cioè… non è che… che voglia fare il supponente e dire non vengo… perché… ma se siamo in (inc.)…
Moggi: Ma stiamo… stiamo assieme noi stai tranquillo!
Rinaudo: …non è meglio?
Moggi: Stai tranquillo! Ci sentiamo martedì in settimana e ci mettiamo d’accordo!
Non è per supponenza che Rinaudo vuole vedere Moggi in privato. Moggi sembra capirlo benissimo; l’appuntamento viene posticipato. Il pubblico ministero ha giusto una cosa da aggiungere, riguardo a ciò che ha già anticipato a Lella, la segretaria del dg della Juve:
Rinaudo: Uhm. Senti… senti una cosa… io ho chiesto a Morena, lì… a Lucia… come si
chiama… Se mi poteva dare oltre al mio posto qualche biglietto… al limite…
Moggi: Sì! Non ti preoccupare, con te ci penso io!
Rinaudo: Riesci?
Moggi: Stai tranquillo!
Rinaudo: (inc.)
Moggi: Per queste cose qui, io già me le memorizzo… e poi quando ci vediamo ci mettiamo
d’accordo!
Il collega Laudi
In realtà, sabato 26 febbraio (due giorni dopo) Rinaudo chiama nuovamente Lella e dice di aver cambiato idea: gradisce comunque presenziare alla cena con la squadra, e vuole portare con sé anche la moglie. Chiede addirittura un’auto della società bianconera a disposizione: vuole essere accompagnato, vuole che la società lo venga a prendere. L’incontro, quindi, avviene. Due giorni dopo, squilla un telefono presso le utenze del consiglio superiore della magistratura, a Roma. Risponde un certo Guglielmo: a chiamare è l’arbitro De Santis, a sua volta intercettato perché elemento chiave del giro di accordi sottobanco per ottenere arbitraggi favorevoli e far collocare gli arbitri giusti alle partite giuste. De Santis è l’arbitro di Moggi, quello che sempre e sfacciatamente favorisce la compagine bianconera. Ha avuto un’informazione. Sa che c’è un magistrato che sta indagando sugli arbitraggi di serie A, un pubblico ministero di nome Tatangelo, cui Guariniello ha affidato un nuovo troncone dell’inchiesta sportiva. È un’informazione che, naturalmente, doveva restare segreta. L’amico di De Santis lo aiuta a capire chi è questo Tatangelo, e in pochi secondi ha controllato i terminali:
Guglielmo: Senti allora, di Tatangelo ce ne stanno due. Uno è Tatangelo Augusto che fa il gip al Tribunale di Napoli. E l’altro è Marcello, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino.
De Santis: E allora è questo qua di Torino è. Sì me sa che è questo de Torino perché dice che sta insieme a Guariniello.
Guglielmo: Mmmm.. sarebbe da parlà co’ coso lì, come si chiama? Porca miseria come si chiama quello di Torino? Co’ Laudi.
De Santis: Ah, co’ Maurizio? Ho capito, vabbé allora ci posso… Ci parlo io direttamente co’ Maurizio.
“Co’ Maurizio”: Maurizio Laudi, classe 1948, procuratore aggiunto a Torino. Membro del pool creato da Gian Carlo Caselli negli anni Settanta contro la sovversione di sinistra, protagonista di innumerevoli processi contro i movimenti sociali e antagonisti, tra cui uno dei più inquietanti nel 1998: accusa tre occupanti di case di aver formato una “cellula terrorista” per colpire l’Alta Velocità in Val Susa. Due di loro moriranno suicidi in carcere quello stesso anno e, una volta morti, saranno assolti. Negli stessi anni in cui costruisce il castello accusatorio contro quei ragazzi, i cui nomi erano Sole e Baleno, Laudi inizia anche a ricoprire ruoli nella giustizia sportiva. Anni dopo, al tempo dell’incontro tra Moggi e Rinaudo al Concord (e della successiva telefonata di De Santis al Csm), Laudi è giudice sportivo per la serie A, la serie B e la Coppa Italia, ed anche lui non disegna i favori che il dg Juventus concede a chi gli è amico. 9 novembre 2004:
Lella: Poi, il dottor Laudi chiede quattro ovest-primo e due special. Io ho detto che non… che non sapevo se due potevamo darli… (inc.) che chiedevo a lei.
Moggi: Quattro ovest-primo va bene… uno special va bene… due mi sembrano troppi.
Lella: Uno vero?!
Moggi: Ce li abbiamo noi due special?
Lella: Sì… Sì, sì! Al momento sì.
Moggi: E diamoli ah!
Lella: Uhm… Ok!
Pochi giorni dopo si svolge Fiorentina-Bologna. È arbitrata da De Santis, che ammonisce i tre difensori del Bologna Petruzzi, Nastase e Gamberini: saranno così squalificati in vista del successivo incontro con la Juventus. Dice a Moggi Tony Damascielli, opinionista sportivo de Il Giornale, in una telefonata, il giorno stesso della partita: “…oh, comunque De Santis ha fatto il delitto perfetto, eh?”; e aggiunge: “C’abbiamo tre gio… tre difensori del Bologna fuori, tutti e tre squalificati”. A firmare il provvedimento di squalifica, in seguito alle ammonizioni di De Santis, è stato Maurizio Laudi: gioco di squadra.
Un amico nella ‘Ndrangheta
Ma torniamo a Rinaudo, che ci porterà ben più lontano – fino alla Maddalena di Chiomonte. I suoi rapporti con Moggi sono giudicati, nel rapporto dei carabinieri romani, “più stretti” di quelli che intrattiene il giudice Laudi. 2 febbraio 2005:
Rinaudo: Volevo ringraziarti per…
Moggi: (inc.)
Rinaudo: … quel pensiero di Natale… siete stati veramente gentili!
Moggi: È un pensierino… niente di particolare!
Rinaudo: Siete stati veramente gentili!
Moggi: Aspetto… aspetto che ci vediamo e ci sentiamo, ok?
Rinaudo: Grazie bello!
Il dg Juventus non deve sperticarsi: è il magistrato stesso (come Laudi del resto) che accorre a lui. Rinaudo sconfina anzi ampiamente nel patetico:
Rinaudo: Pronto?
Moggi: Antonio!
Rinaudo: Ma da… dove sei?
Moggi: Chi non muore si risente… manna…
Rinaudo: Mannaggia! Io t’ho cercato eh però… non è… eh! Eh!
Moggi: T’ho cercato eh!
Rinaudo: No! No! Io ti ho cercato più volte in società e l’ho lasciato detto alle tue segretarie! L’ultima volta l’altra settimana!
Moggi: Eh… ma io ero ammalato! Eh… ho avuto una settimana un po’ brutta di influenza…
Rinaudo: Uhm. (inc.)
Moggi: Quando ci vediamo un giorno?
Rinaudo: Eh! Non lo so, dobbiamo combinare una cena!
Moggi: Io mi vedo… mi vedo spesso con Tonino ma non ti vedo più te…
Rinaudo: Eh lo so… me lo ha detto eh! […]
Chi è questo “Tonino” cui Rinaudo dice di aver parlato, comune amico suo e di Moggi, già presente alla cena all’Hotel Concord? È Antonio Esposito, classe 1946, accusato di omicidio nel 1985, poi prosciolto. Pietro Dimo, 36 anni all’epoca, trafficante di droga per conto del clan dei catanesi e suo socio in una ditta di pulizie dell’autostrada del Frejus, ne fece il nome al processo per le tangenti Dc-Psi-Pci nella giunta torinese di Diego Novelli degli anni Ottanta. Il mandante, disse Dimo, era Francesco Froio detto Franco, ex parlamentare Psi, che così veniva descritto su un giornale valsusino nel 2002:
L’onorevole Froio, non è solo stato uno dei padri dell’autostrada, è stato il vero “padre padrone” della Sitaf. Froio è stato uno degli uomini più forti degli anni finali della Prima repubblica. Socialista della prima ora come il suo conterraneo Mancini, quando il Psi ebbe il presidente del Consiglio, Froio non era più in Parlamento, dove era stato dal 1972 al 1979, ma era uno degli uomini più potenti del sistema politico di quegli anni. Il vero braccio socialista dell’asfalto.
Alla Sitaf, l’azienda creata per la costruzione dell’autostrada Torino-Bardonecchia, per la quale verrà arrestato nel 1993 (accusato di tangenti per 300 milioni). Secondo Dimo, Froio aveva chiesto nel 1983 proprio a Tonino Esposito, l’amico di Rinaudo, di occuparsi dell’eliminazione di Adriano Zampini, faccendiere finito in carcere che aveva cominciato a parlare delle tangenti. Si tenne un incontro al bar San Carlo, disse il testimone, in cui Froio offrì cinquecento milioni di lire per l’omicidio, in un affare che comprendeva anche nuovi appalti per l’autostrada. I magistrati non gli credettero e il magnate del cemento e il suo sodale vennero assolti.
Questo negli anni Ottanta; ma nel 2005, quando l’autostrada valsusina è stata conclusa da quindici anni, Esposito siede all’elegante Hotel Concord con Rinaudo e ha ormai poco a che fare con i catanesi, perché è diventato elemento di spicco di un’altra organizzazione criminale, la famigerata ‘Ndrangheta della Val Susa; è infatti l’emissario torinese del famoso boss di Bardonecchia Rocco Lo Presti, che lo chiama “O’ Americano” per il suo stile di vita esagerato e i suoi continui viaggi a Cuba. Esposito è da tempo amico personale di Rinaudo, al punto che già nel 2003 la voce del pm era stata intercettata sull’utenza di Esposito dall’arma dei carabinieri. Quell’indagine non c’entrava con il calcio, ma con gli appalti e l’usura; e mai avrebbe pensato, il pm e collega di Rinaudo Antonio Malagnino, di scoprire che un uomo come Esposito, che concordava al telefono direttamente con Lo Presti i tassi di usura delle sue vittime a Torino, parlava anche con un pubblico ministero della sua stessa procura.
L’inchiesta era partita nell’ottobre del 2003. I dirigenti dell’Agenzia per Torino 2006 avevano ricevuto una lettera a testa con un proiettile calibro 10. Poi Tonino Esposito si era presentato a uno di essi con strane richieste, allusioni alle minacce ricevute e ambigue offerte d’aiuto. Il telefono di Esposito fu allora messo sotto controllo, ed è in quella fase che Malagnino scoprì l’amicizia tra il mafioso e il pm, oltre a un enorme complesso di affari illegali legati all’usura e alla compravendita di commesse pubbliche e appalti.
Nessuno, in procura, nel 2003, ritenne necessario sollevare Rinaudo dall’incarico di pubblico ministero. Anzi: due anni prima gli era stata affidata persino un’indagine su fatti legati alla ‘Ndrangheta, e ne resterà nonostante tutto il titolare. È un’indagine è delicata, che tratta di un giro di affari illegali tra la Germania, l’Italia e il Marocco, con 65 indagati, molti dei quali appartenenti alle ‘ndrine calabresi. Proprio nei giorni in cui la sua voce veniva intercettata al telefono con Esposito, Rinaudo firmò la chiusura di quelle indagini (18 giugno 2003) e non poté non evidenziare forti indizi di colpevolezza; ma due anni dopo, quando si incontrò con Esposito all’Hotel Concord, il fascicolo era ancora nel cassetto, e per nessuno dei 65 indagati era stato chiesto il rinvio a giudizio…
Lo stronzo di Bardonecchia
L’organizzazione finalizzata all’usura cui apparteneva Esposito mentre andava a prelevare Rinaudo a casa per portarlo da Moggi, aveva una “cupola” divisa tra la Val Susa e Torino: al vertice Rocco Lo Presti, il “padrino” di Bardonecchia, e i nipoti Luciano e Giuseppe Ursino; alla base decine di malavitosi impegnati, a Torino, a riscuotere gli interessi dei prestiti in nero. Della cupola faceva parte però lo stesso Esposito, che coordinava l’attività usuraria nel capoluogo e faceva da tramite tra Lo Presti e i suoi sottoposti e tra Lo Presti e le vittime, che erano decine e decine: commercianti, albergatori, semplici cittadini. I suoi uomini non esitavano, per sollecitare i pagamenti, a fare esplicitamente il nome del boss a scopo terroristico; e quando le vittime parlavano, in lacrime, con i propri parenti e amici dei loro debiti e delle minacce, si riferivano a Rocco Lo Presti come “lo stronzo di Bardonecchia”.
La scia di violenza e devastazione che, dagli abusi edilizi degli anni Sessanta, conduce al tentativo di costruire in Val Susa l’alta velocità, ha una continuità, un’origine e un riferimento proprio nell’organizzazione capeggiata da Rocco Lo Presti, nato a Marina di Gioiosa Jonica e arrivato a Bardonecchia, nell’alta valle, nel lontano 1963, dove fu mandato al confino come accadeva in quel periodo a molti altri “malavitosi” meridionali. Qui aveva trovato i fratelli Ciccio e Vincenzo Mazzaferro, elementi criminali di maggior peso emigrati a loro volta dalla Calabria, e vi si era imparentato, sposando la figlia di uno dei due. Insieme avevano intessuto un sistema di affari che aveva come sfondo il tipico ramo della modernizzazione mafiosa degli anni Sessanta, che dall’agricoltura compie il salto verso l’edilizia, e dai campi coltivati passa alla città. Anno dopo anno, lotto dopo lotto, uno dei luoghi più belli della valle fu quindi completamente cementificato dalle imprese riconducibili ai clan calabresi.
Le autorizzazioni arrivavano dal comune di Bardonecchia con le stesse modalità proprie di Reggio Calabria o Palermo: i sindaci Dc del paesino settentrionale non si chiamavano Vito Ciancimino, ma ad essere protagonista politico era sempre e comunque il cemento. In cambio soldi pubblici, nessuna conflittualità operaia, perché Lo Presti e i Mazzaferro non amavano le pretese degli operai, e tantomeno le organizzazioni operaie: nulla doveva sfuggire al loro controllo e i sindacati non erano ben visti nei cantieri edili dell’alta valle. Un imprenditore di Bardonecchia, Diano De Matteis, dichiarò che Lo Presti si era rifiutato di appoggiare un candidato sindaco, Mario Corino (che pure era della Dc) eccependo che gli aveva dato noie quando era sindacalista della Cisl. La commissione antimafia che visiterà il territorio nel 1974 stabilirà che l’80% della manodopera edile assunta in alta valle non aveva, guarda caso, alcuna tutela o garanzia giuridicamente riconosciuta.
Proprio quella commissione scrisse che esisteva una ‘ndrina a Bardonecchia (fatto che appare normale oggi, ma che per l’epoca sembrava molto strano) e d’altra parte a quell’epoca lo strapotere di Lo Presti in alta valle era già totale, se è vero che anche i carabinieri della zona (come testimonieranno successive indagini) accettavano di buon grado le sue regalie e gli mostravano reverenza e rispetto. Lo Presti e i Mazzaferro puntavano a un vero e proprio monopolio capitalistico sui cantieri valsusini: per non avere concorrenza con altri attori del territorio (spesso piccole ditte a conduzione familiare di lavoratori della valle, che cercavano commesse dai comuni) ricorrevano ai picchiatori. È in questo periodo che alcuni membri della famiglia Lazzaro da Bronte furono arrestati (1973) per aver aggredito due operai che rifiutavano di lavorare nei cantiere sotto l’egida della loro azienda. Poi, il 23 maggio 1976, Mario Ceretto, un imprenditore di Cuorgné, nel Canavese, che si rifiutava di sottomettersi, fu rapito e ucciso. Il tribunale condannò Lo Presti a 26 anni per il sequestro e l’omicidio, ma la cassazione annullò tutto.
Le cose, d’altra parte, stavano cambiando. Il giro degli affari stava diventando più grosso. Se i cugini meridionali venivano foraggiati dai lavori infiniti sulla Salerno-Reggio Calabria, i trapiantati in Val Susa poterono usufruire dei finanziamenti miliardari per la costruzione dell’A32: la Torino-Bardonecchia, detta anche autostrada del Frejus. Come tutte le faraoniche colate di cemento inventate nell’Italia repubblicana, l’opera è controversa e ne vengono messe in dubbio le finalità: in valle esistono già due statali quasi parallele (il raddoppio era avvenuto durante la guerra, per necessità militari) e una ferrovia. La costruzione dell’autostrada prevede un intervento molto invasivo sul territorio, con la costruzione di tunnel alpini in grado di provocare importanti dissesti ambientali e idrogeologici, che puntualmente si verificheranno. I valligiani vedono inoltre nel progetto un viatico allo spostamento indiscriminato del traffico su gomma sul versante valsusino e verso il Frejus, con effetti negativi sulla vita e sull’economia della valle.
Si creano i comitati contro la realizzazione dell’autostrada. La ferrovia è ancora sottoutilizzata, le merci potrebbero viaggiare tranquillamente su rotaia, magari promuovendo migliorie tecniche sulla tratta e sui mezzi che la percorrono, che sarebbero anche meno costosi per l’erario pubblico; ma, come denunciano i valligiani, l’obiettivo del governo non è il commercio: l’apertura dei cantieri è lo scopo in sé, i grandi costruttori pretendono il denaro pubblico, e l’impresa illegale è al comando nei flussi capitalistici del settore delle costruzioni. Il gioco non consisteva più, in quegli anni, soltanto nel farsi elargire somme astronomiche per la realizzazione di opere del tutto strumentali. Siamo ormai negli anni Settanta: si trattava di investire anche a scopo di riciclaggio, negli appalti pubblici, i capitali ricavati dal narcotraffico internazionale. Il clan Mazzaferro-Lo Presti ambiva agli appalti per l’A32 e, nel 1976, li ottenne.
I comitati si batterono con tenacia, ma ebbero contro la stampa e la politica al completo: gli anni dei lavori sono gli anni Ottanta, quelli delle tangenti torinesi che coinvolgono Dc, Psi e Pci. Il capo indiscusso del progetto autostrada era, in qualità di dirigente della Sitaf, Franco Froio, che proprio durante i lavori in val Susa conobbe Tonino Esposito e il suo collega, il mafioso catanese Pietro Dimo. Quando Adriano Zampini, arrestato, farà il nome di Froio nel giro di corruzione legato ai rapporti tra appalti e politica, quest’ultimo andrà a processo e, nel 1985, Dimo dichiarerà:
Fu […] Franco Froio a proporre di far uccidere Zampini in cambio di duecento milioni. A quell’epoca, nel 1983, io ero contitolare di un’impresa di pulizie, la Pultorino. Una mattina il mio socio, Antonio Esposito, venne e mi disse: “Franco è disposto a pagare cento, duecento milioni per far ammazzare Zampini”. […] Conobbi Froio nel 1982 quando entrai in società con Esposito. […] Avevamo un contratto da cinqucento milioni l’anno per la pulizia del tunnel dell’autostrada del Frejus […]. Froio era arrabbiato, diceva che Zampini era un delinquente, che bisognava farlo fuori […].
Il pm Vitari, tuttavia, che pure rappresentava la procura e quindi l’accusa nel processo, ipotizzò che le parole di Dimo potessero nascondere un complotto e mise subito in dubbio la sua testimonianza, che infine sarà ritenuta inattendibile, con grande e comprensibile sollievo di Tonino Esposito e del suo ipotetico mandante politico. In quel momento Rinaudo lavorava già per la procura di Torino con Vitari e, quale gregario di Gian Carlo Caselli e Maurizio Laudi, concentrava le attenzioni su tutt’altre vicende: quelle in cui, guarda caso, le deposizioni dei “pentiti” erano tenute in grande considerazione.
Lo Presti, nel frattempo, intesseva le manovre necessarie (1978-1986) per dare il sacco all’ultimo spazio non edificato del comune di Bardonecchia: Campo-Smith. Froio restò dominusincontrastato degli appalti per l’autostrada nell’interesse dei partiti e degli ambienti a lui vicini. Quando il procuratore capo dell’epoca, Bruno Caccia, fu ucciso dalla ‘Ndrangheta nel 1983 perché “con lui non si poteva parlare” (così dichiarò il boss Belfiore al processo), le indagini sull’omicidio lasciarono emergere “relazioni pericolose” con alcuni magistrati torinesi, che avevano con loro una “consuetudine di rapporti” (Rapporto Cnel 2010). “Il clan dei calabresi aveva purtroppo ottenuto in quegli anni a Torino la confidenza, la disponibilità o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati” (Ibidem).
All’assalto di Venaus
Le amicizie che Antonio Rinaudo ha coltivato in ambienti connessi ai futuri cantieri del Tav, tuttavia, non si limitano soltanto agli ambienti criminali, ma investono anche a quelli politici. Quando sedeva al Concord con Moggi, ad esempio, si trovava in compagnia anche di un altro personaggio, che il rapporto del nucleo investigativo dei carabinieri di Roma definisce, al pari di Esposito, “comune amico” tra Moggi e il magistrato. Il dg Juve lo ha citato in una telefonata con Rinaudo: “Ci sono anche Tonino e Andrea Galasso…”. Andrea Galasso, classe 1932, deputato Msi negli anni Settanta, è il capostipite di una famiglia di avvocati molto nota negli ambienti dell’estrema destra torinese. Il fratello Ennio era stato al centro di una polemica giornalistica nel 2002 per aver partecipato, da consigliere regionale, a una commemorazione durante la quale era stato fotografato all’atto di salutare romanamente la sepoltura di un camerata. Nulla di strano: gli anni della cena al Concord sono gli anni in cui Alleanza Nazionale spadroneggia nelle istituzioni a ruota del consenso elettorale berlusconiano.
Se Galasso ha in comune con Rinaudo il rapporto con il malavitoso Tonino Esposito, Esposito deve molto, dal canto suo, all’avvocato amico di Rinaudo: fu proprio Galasso infatti – guarda caso – a difendere negli anni Ottanta il manager dell’autostrada del Frejus Franco Froio dalle accuse riguardanti il progetto di omicidio di Adriano Zampini, che aveva parlato ai magistrati delle tangenti negli appalti; secondo le testimonianze del “pentito” Dimo, Froio avrebbe commissionato proprio a Esposito l’assassinio: l’attività professionale dell’amico “politico” di Rinaudo, l’ex deputato neofascista Galasso, aveva salvato da una possibile condanna per omicidio l’amico “criminale” del pubblico ministero (sempre e rigorosamente per vicende legate ad appalti miliardari e alle grandi opere in Val Susa). Questo, tuttavia, è anche per Andrea Galasso il passato: nel presente è l’avvocato di Ugo Martinat, viceministro dei lavori pubblici in carica nel governo Berlusconi, che sarà di lì a poco indagato per compravendite di appalti in tutta la provincia di Torino e, in particolare, per la spartizione dei soldi del programmato cantiere Tav di Venaus.
Se i rapporti di Galasso con Moggi e la Juventus sono giustificati dal suo ruolo di difensore di Antonio Giraudo, numero due della società (nei giorni dell’incontro con Rinaudo impegnato con il suo capo a truccare il campionato di serie A grazie ad arbitri come De Santis) il rapporto di Galasso con Martinat va molto al di là del mero ruolo di difesa legale: il legame che li unisce è tutto politico e, anche stavolta, affonda le sue radici negli anni Settanta, quando Galasso era deputato del Msi e Martinat era picchiatore di riferimento dei missini torinesi. Il 16 febbraio 1975, per fare solo un esempio, Martinat si imbatté, in via Cernaia (accompagnato da altri tre camerati: Roggero, Kristen e Massano), in quattro operai e aprì il fuoco contro di loro. Per fortuna non aveva una gran mira e le conseguenze non furono irreparabili.
Vent’anni dopo, nel 1994, quando diventò deputato di Alleanza Nazionale, fu nominato questore alla camera dei deputati e i suoi primi atti istituzionali furono volti a imporre uomini-chiavi ai vertici delle società che hanno in gestione la Torino-Bardonecchia, e non a caso a capo di una di queste, la Stef, arriverà ben presto Vincenzo Procopio, suo uomo di fiducia. I fili della tavolata cui siede Rinaudo, come tutti i fili di potere, conducono sempre gli uni agli altri, e – in questo caso – sempre alla Val di Susa. I suoi amici sanno che per fare denaro ci vogliono capitali, e l’unico ente che può fornire capitali con un pezzo di carta è lo stato: le grandi opere lanciate da Berlusconi nel 2001 sono questo tipo di risposta ai vecchi-nuovi appetiti delle mafie imprenditoriali e dei partiti (Pd incluso, come vedremo). Nel 2001 Martinat aveva presentato le liste di AN per le elezioni regionali; vi aveva inserito Ennio Galasso, fratello di Andrea, che sarebbe diventato consigliere regionale. Martinat, invece, nuovamente eletto alle politiche, sarà appunto nominato viceministro ai lavori pubblici da Berlusconi sotto il ministro Pietro Lunardi, di Forza Italia, che controllava attraverso una prestanome (sua figlia) la Rocksoil, azienda in lizza per gli appalti Tav in Val Susa.
Se Lunardi lavorava per sé stesso, tuttavia (è un imprenditore), il suo vice Martinat (che era un “politico”) non lavorava meno alacremente per il suo partito. Vincenzo Procopio (definito nelle intercettazioni il “cassiere” del viceministro), fondò infatti una nuova società di progettazione, la Sti, attraverso cui riceveva denaro in cambio di appalti per lavori pubblici a Torino, in cintura e in Val Susa, e lo girava al viceministro, che a sua volta girava tutto alle casse di Alleanza Nazionale. Tutto questo avveniva negli stessi anni (2001-2003) in cui Tonino Esposito metteva in piedi il giro torinese dell’usura per conto di Rocco Lo Presti e Rinaudo veniva intercettato per la prima volta al telefono con il mafioso. Quando, successivamente, nel 2005, Rinaudo andrà a cena con Esposito e Galasso su invito di Moggi, la direzione investigativa antimafia avrà già pubblicato un rapporto (16 luglio 2004) in cui veniva segnalata l’acquisizione del lotto 1 per il tunnel di Venaus da parte della Rocksoil, riconducibile a Lunardi. Lo stesso rapporto segnalava le telefonate che proprio Vincenzo Procopio stava effettuando, su interesse di Martinat e di Alleanza Nazionale, per organizzare il sistema di turbativa d’asta generalizzata verso chiunque volesse ottenere appalti per quella e altre opere pubbliche.
Due mesi dopo la cena tra Rinaudo e Galasso, infatti, quest’ultimo assumerà le difese di Martinat (9 maggio 2005) nel procedimento – intentato dalla stessa procura dove Rinaudo è pm! – per abuso d’ufficio e turbativa d’asta in tutta la provincia di Torino e in Val Susa. L’emergere di interessi sporchi in relazione al promesso disastro ambientale di Venaus e della Val Cenischia (diversi scienziati hanno sottolineato l’alta presenza di amianto nella montagna che Lunardi e Martinat vogliono perforare) non fermerà tuttavia la lobby del Tav. Il 31 ottobre 2005 i tecnici della Cmc, la cooperativa in quota Pd che ebbe ed ha tuttore la fetta maggiore di appalti, tentarono di raggiungere un sito nei pressi di Monpantero (Val Cenischia) per installare un cantiere geognostico. Accadde però l’imprevisto: centinaia tra abitanti della Val Susa e ragazzi arrivati da Torino bloccarono la polizia al ponte del Seghino. Già da alcuni mesi in Val Susa stava accadendo qualcosa di strano: migliaia di persone scendevano in strada al grido “No Tav No Mafia” e promettevano che, dopo la sconfitta sull’A32, la valle non avrebbe permesso un ulteriore scempio interessato sul suo territorio.
A fine novembre migliaia di persone si alternarono nella Libera Repubblica di Venaus, un presidio permanente contro l’inizio dei lavori, che venne sgomberato con particolare violenza dalla polizia agli ordini del vicequestore Salvatore Sanna nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2005. Il 7 dicembre, però, i valsusini bloccarono la ferrovia, tutte le statali e l’autostrada. Il confine internazionale con la Francia restò chiuso per la mobilitazione della valle, e l’8 dicembre migliaia di persone forzarono o aggirarono i blocchi delle forze dell’ordine, riconquistando gli spazi destinati al cantiere. All’interno del governo Gianni Letta intervenne per bloccare la linea dura di Lunardi, anteponendo agli interessi del ministro e del suo vice l’esigenza di non provocare turbamenti dell’ordine pubblico a ridosso della campagna elettorale del 2006. Il progetto Tav Torino-Lione venne temporaneamente sospeso. Il 17 dicembre migliaia di persone sancirono con una manifestazione a Torino l’inedita e sia pur parziale vittoria di una popolazione locale contro uno scempio ambientale voluto dalle casse dei partiti e dalle imprenditorie criminali.
“… so’ tutti la stessa pasta, so’, ‘sti magistrati!”
La vittoria del movimento No Tav, nel 2005, sembrò essere un brutto presagio per Rinaudo: il 2 maggio 2006, un anno dopo la cena al Concord, si chiusero le indagini di Calciopoli e l’oggetto dell’ammirazione e della riconoscenza del magistrato, Luciano Moggi, finì sulle prime pagine di tutti i giornali, simbolo della corruzione sportiva e dell’immane presa in giro di tutti gli appassionati di calcio. Ma andò anche peggio: il grande potere calcistico, impersonato da Moggi ma non solo, mostrò all’Italia i suoi addentellati nella politica, nei ministeri, nelle questure e nelle procure, e sui giornali finì lo stesso Rinaudo. Il 18 maggio La Repubblica dedicò un’intera pagina alle telefonate tra Rinaudo, Laudi e Moggi, anche se evitò accuratamente di approfondire i legami tra il pm ed Esposito “O’ Americano”, e non riferì i legami dell’avvocato Galasso con la lobby del Tav. Il 6 novembre, infine, Antonio Malagnino chiuse le indagini sul giro torinese dell’usura. L’amico di lunga data di Rinaudo, Esposito, finì in prigione: prima a Fossano, poi a Verbania. Anche l’amico del suo amico, il boss Lo Presti, finì dietro le sbarre.
Anche in questo caso, la procura di Torino non ritenne fosse necessario sollevare Rinaudo dal suo incarico di pubblico ministero: la sua frequentazione di un mafioso già accusato di omicidio, coinvolto negli appalti di Torino 2006 e a capo del sistema torinese dell’usura, non provocò, a quanto pare, grandi turbamenti. Nonostante i favori chiesti e ottenuti da Moggi e le sue relazioni pericolose con la società bianconera (all’apice delle corruzioni sportive) e nonostante il legame personale con un emissario della ‘Ndrangheta, accertato in due diverse inchieste (usura 2003 e calciopoli 2005) Rinaudo continuerà a sedere sullo scranno di magistrato negli anni che seguiranno. Anche i media non si accaniscono, del resto, insistendo maggiormente sui legami tra Moggi e l’allora più noto giudice Laudi. Una lontananza dalle cronache che Rinaudo manterrà fino al 2011 quando, su incarico di Caselli, diventerà uomo di punta della battaglia giudiziaria contro gli oppositori all’alta velocità in Val Susa.
Nel frattempo sia il boss dell’amico Esposito, Lo Presti, sia l’assistito dell’amico Galasso, Martinat, sono morti. Quando Rinaudo presidierà il cantiere Tav di Chiomonte assieme alla polizia, nella notte di violenze del 19 luglio 2013, gli appalti della Maddalena erano già stati affidati al portaborse di Martinat, Vincenzo Procopio (pur fresco di condanna in primo grado per gli appalti all’epoca di Venaus) e alla famiglia siciliana che era stata indicata dall’ex sindaco di Bardonecchia Mario Corino come prestanome del clan Lo Presti per l’A32, i Lazzaro. Ai vecchi maneggioni si sono sostituiti i vecchi portaborse, nuovi accaparratori. Nove giorni dopo le accuse di terrorismo, il 9 agosto 2013, Rinaudo si dedica invece a un fascicolo che ha lasciato riposare per tanto tempo: quello sul giro d’affari legato alla ‘Ndrangheta che gli era stato affidato nel 2001 e per cui aveva chiuso le indagini nel 2003. Quel giro di denaro illegale tra la Germania, l’Italia e il Marocco in cui compariva, tra gli altri, il nome di Rocco Varacalli, affiliato alla ‘Ndrangheta e all’epoca non ancora “pentito”.
Quello tra la firma della conclusione indagini e quella del rinvio a giudizio è l’unico momento dell’iter processuale in cui soltanto il pm può accelerare o rallentare i tempi: sua deve essere la firma di conclusione indagini, sua la firma di richiesta di rinvio a giudizio. Il tempo medio è alcuni mesi, anche se, come vedremo, i tempi di Rinaudo, per i No Tav, si accorceranno ulteriormente; ma il procedimento 19468/01 R.G.N.R., 6616/02 R.G. G.I.P. sulla ‘Ndrangheta, affidato a Rinaudo, giace inerte per dieci lunghissimi anni, rendendo certa la prescrizione per i sessantacinque indagati. Ci associamo alla loro gioia di quegli indagati per aver avuto un pm così; del resto è giusto, perché anche lui, che pure era amico di Tonino Esposito “O’Americano”, l’uomo di Lo Presti a Torino, non ne ha mai avuto conseguenze, se non apparire in verità (tanto al mafioso quanto al comune amico Luciano Moggi) un gran rompicoglioni. Lo si evince da un’intercettazione del 26 febbraio 2005, in cui Antonio Rinaudo chiamò Tonino per essere scarrozzato da Lucianone, contrariamente a quanto aveva annunciato: il malavitoso non si tenne e, al telefono con quest’ultimo, disse un’involontaria parola di verità:
Moggi: Stasera ci vediamo!
Tonino: Sì, ma mi ha telefonato Rinaudo… dice che viene anche lui… gli hai detto…?
Moggi: Eh, no! Io glielo avevo detto!
Tonino: Ah!
Moggi: Mi disse che non poteva venì!
Tonino: Eh!
Moggi: Poi ha lasciato detto alla segretaria mia, contrariamente a quello che mi aveva detto, può venire!
Tonino: Ah! Perché mi ha telefonato e mi ha detto se lo… “Vienimi a prendere”, “Fammi ‘sta cortesia”… Gli ho detto: “Va beh, non c’è problema!”.
Moggi: È ‘na rottura di palle!
Tonino: Ehh, va beh… No, ma non fa niente! Tanto questi qua so’ tutti la stessa pasta, so’, ‘sti magistrati!
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Nota
Le prime telefonate intercettate tra Rinaudo e Tonino Esposito hanno trovato eco giornalistica inParte dalle pallottole al Toroc la pista che porta alla banda, La Repubblica, 7 novembre 2006. Il ruolo di Esposito quale emissario di Lo Presti e il suo coinvolgimento nell’inchiesta sulla pianificazione dell’omicidio Zampini è descritto in La ‘cupola’ degli usurai, La Repubblica, 7 novembre 2006, Usura, Lo Presti patteggia tre anni e non va in carcere, La Repubblica, 4 maggio 2007 e nella Relazione del commissario straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, 15 novembre 2007; i rapporti tra Rinaudo, Moggi, Esposito e Galasso, e i favori di Moggi a Laudi, in Intercettazioni, anche i giudici nelle telefonate di Moggi, la Repubblica, 18 maggio 2006. Il testo integrale della Relazione alla procura di Napoli sul sodalizio criminale facente capo a Moggi Luciano, redatto dal nucleo investigativo dei carabinieri di Roma, in cui sono contenute le intercettazioni riportate tra Moggi ed Esposito, Moggi e Rinaudo, la segretaria di Moggi e Laudi, ed altre, è consultabile al sito rubentus.it.
La vicenda del tentato assassinio Zampini nel cui processo furono accusati Froio ed Esposito è sommariamente narrata in Sì, avevo l’ordine di uccidere Zampini. Compenso: 500 milioni, in La Repubblica, 20 febbraio 1985, Un ex deputato socialista voleva far uccidere Zampini?, La Provincia, 20 febbraio 1985, Ci disse: uccidete Zampini, L’Unità, 20 febbraio 1985. Cfr. ancheL’autostrada del Frejus è merito mio, Luna Nuova, 24 dicembre 2002 e Supermazzetta, in cella Froio (autostrada del Frejus), Corriere della Sera, 29 giugno 1993. Il rapporto tra Martinat e Galasso nel procedimento per gli appalti di Venaus è documentato tra l’altro in Martinat, indaghiamo su di lei, La Repubblica, 3 maggio 2005; gli appalti illegali per il Tav e la turbativa d’asta da opera di Procopio e Martinat in Un ministro, il suo vice e quei microfoni indiscreti, La Repubblica, 16 dicembre 2004, Tangenti ad alta velocità, Diario, 16 dicembre 2005; la Sentenza della terza sezione penale del tribunale ordinario di Torino nei confronti di Procopio Vincenzoper le sue attività in favore di Martinat, deceduto all’epoca del pronunciamento (procedimento 2198/09 R.G. Tribunale), è consultabile al sito lyonturin.eu.
I furbetti del cantierino
Partiti, mafie e appalti da Venaus a Chiomonte
(2006-2011)
Lazzaro prestanome di Lo Presti? – I Lazzaro nel Canavese – Ferdinando Lazzaro in carcere – Osvaldo Napoli e la “talpa” in procura – Tonino Esposito minaccia Procopio – Rinaudo al telefono con Esposito – Procopio e Lunardi – I Lazzaro e Bruno Iaria – Giovanni Iaria nel Canavese – Iaria e il procuratore di Ivrea – Claudio Martina a casa di Iaria – Bertot e Porchietto al bar della ‘Ndrangheta – Bertot e Iaria – Il patto politica-‘Ndrangheta su Tav e cantieri – Il boss De Masi appoggia Fassino – Scontri in valle per i sondaggi – Ltf e Procopio condannati in primo grado – Ltf firma il contratto Tav con Lazzaro e Martina – I No Tav respingono Lazzaro e la polizia – Rinaudo indaga i No Tav – Nasce la Libera Repubblica della Maddalena.
L’ascesa dei Lazzaro
Quando Rocco Lo Presti, storico boss della Val Susa, venne arrestato il 6 novembre 2006, era passato un anno e mezzo dalla cena che Luciano Moggi aveva organizzato alla presenza del suo emissario a Torino, Tonino Esposito, e il futuro pm d’assalto contro il movimento No Tav, Antonio Rinaudo. L’arresto di Lo Presti segnò la fine di un’epoca nella storia della ‘Ndrangheta valsusina e torinese. Tale trasformazione era già iniziata molto prima, il 3 giugno 1993, quando il sindaco di Bardonecchia, Alessandro Gibello (Dc), aveva firmato l’ultima autorizzazione a edificare per il clan di Lo Presti, al fine lasciargli deturpare l’ultimo territorio rimasto verde sul demanio comunale, nell’area denominata Campo-Smith. Le ditte facenti capo al boss furono beneficiarie degli appalti attraverso prestanome, com’era già avvenuto con l’autostrada del Frejus, conclusa nel 1990.
Un anno dopo l’investitura istituzionale per l’edificazione di Campo-Smith, tuttavia, la procura di Torino indagò il sindaco, alcuni funzionari del comune e i carabinieri di Bardonecchia (si era in pieno clima Tangentopoli) per favoreggiamento e collusioni decennali con il padrino dell’ormai famosa “mafia della Val Susa”. Lo Presti sarà condannato a sei anni per associazione mafiosa nel 2002, ma l’istanza d’appello giacerà dimenticata nei cassetti della procura, permettendogli quella libertà che utilizzerà per mettere in piedi il giro d’usura a Torino grazie a Tonino Esposito. Il vecchio boss sperava così di non attirare le attenzioni della procura, spostando i propri interessi a Torino. Si sarebbe servito, come luogotenente, dell’amico del pm Rinaudo.
Nel 2006, conclusa la grande spartizione per i giochi olimpici, Lo Presti finì però, nuovamente, sotto i riflettori della stampa, con le manette ai polsi proprio per il giro di usura, che fu scoperto dal pm Malagnino (che proprio durante quella indagine, per primo, scoprì il legame tra Esposito e Rinaudo. Lo Presti, vecchio e malato, uscì allora definitivamente di scena. I suoi alleati storici, i Mazzaferro, erano a loro volta, da tempo, fuori gioco: Vincenzo è in carcere per narcotraffico e Ciccio è stato assassinato in una faida nel 1993. Quando la magistratura indaga su Campo-Smith, tuttavia, l’ex sindaco di Bardonecchia Mario Corino rivela alla stampa (è il 6 ottobre 1994) che i prestanome per i Mazzaferro-Lo Presti per l’A32 furono i Lazzaro, la famiglia di Bronte (un piccolo centro della provincia di Catania) emigrata a Susa, che già negli anni Settanta era stata al centro di violenze occorse in valle nei confronti di operai e aziende rivali. Il rapporto Cnel del 2010 ricostruisce così la situazione nel torinese prima degli anni Novanta: “Prima che intervenissero i magistrati c’era stata un’alleanza tra famiglie legate alla ‘ndrangheta calabrese e famiglie legate alla mafia siciliana, in particolare a quelle del catanese, che era riuscita a monopolizzare il traffico di sostanze stupefacenti e le attività estorsive in danno di commercianti ed operatori economici”.
Nel 1992 Benedetto Lazzaro – il capostipite della famiglia – fu arrestato per reati contabili; poi, nel 1993, finì sotto inchiesta proprio per i 13 miliardi di lire ricevuti per i lavori dell’autostrada Torino-Bardonecchia. Sono gli anni in cui, dopo quarant’anni di devastazione ambientale da parte dei boss, e nell’ambito dell’esigenza dello stato di rifarsi un’immagine dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, il presidente Scalfaro impone lo scioglimento per mafia del comune di Bardonecchia, primo caso in assoluto nel nord Italia (1995). Ma già alla fine degli anni Novanta, non risultando coinvolti direttamente, per ciò che appurò la magistratura, nelle faide e nel narcotraffico, i Lazzaro gestivano il loro piccolo impero nei cantieri della valle pressoché indisturbati. Il padre Benedetto lasciò allora il posto al figlio Ferdinando, secondo un tipico avvicendamento da anni Novanta in cui in primo piano emerge una generazione dall’aspetto più rispettabile, da “colletto bianco”. Ferdinando arriva ad allargare il giro d’affari della famiglia anche al Canavese, l’area settentrionale della provincia di Torino, a nord della Val Susa: nel 1999 la Regione Piemonte offre ai Lazzaro ben 1.5 mld di lire per la ristrutturazione di alcuni immobili nel comune di Agliè.
Anche Lo Presti e i Mazzaferro avevano avuto a che fare con quest’area, se è vero che l’imprenditore Mario Ceretto, del cui omicidio era stato accusato proprio Lo Presti, proveniva da Cuorgné. Ma soprattutto, a Cuorgné era presente da tempo un altro affiliato alla ‘Ndrangheta, Giovanni Iaria, naturalmente imprenditore edile e stretto amico di Ciccio Mazzaferro. L’attività di Iaria traduce al meglio il carattere squisitamente di classe dell’attivita dell’organizzazione: tutti gli imprenditori del Canavese di rivolgevano a lui per ottenere mano d’opera a basso costo, poiché la violenza di cui poteva disporre l’organizzazione era anzitutto una minaccia persistente contro qualsiasi rivendicazione operaia. Una forma di violenza cui non erano certo estranei i Lazzaro, inquisiti più volte negli anni Settanta per strane “risse” e “pestaggi” contro valligiani e operai, e il cui capofamiglia, Benedetto, finì proprio in un’inchiesta sul caporalato. L’attività di Iaria nel Canavese per conto della ‘Ndrangheta era pervasiva: coltivò rapporti così stretti con il procuratore di Ivrea che quest’ultimo, una volta scoperto, fu costretto a dimettersi dalla magistratura.
I Lazzaro, dopo l’appalto nel Canavese, creano un cartello illegale che copre tutta l’area di Torino e la Val Susa: da Torino ad Avigliana, passando per Rosta e Sant’Ambrogio, un paesino che subirà una speculazione edilizia vergognosa, con annesse truffe alle famiglie che acquisteranno le case, e che sarà perciò segnato, nella diceria popolare, dalla triste e non meritata fama di paese “della mafia valsusina”. Le commesse pubbliche che i Lazzaro e i loro soci riescono ad ottenere grazie al cartello-ombra hanno il valore di decine di miliardi di euro. Le riunioni si tengono a Buttigliera Alta, nella bassa Val Susa, più precisamente nella sede della Escavazioni Valsusa. Il 31 maggio 2002, però, Ferdinando Lazzaro viene arrestato assieme a undici imprenditori coinvolti nel cartello.
Interessante è che i magistrati che hanno ordinato gli arresti siano costretti anche ad aprire uno scomodo fascicolo “giudiziario-politico” della vicenda.
Le indagini, infatti, erano state chiuse in fretta e furia a causa di una fuga di notizie. In una conversazione registrata dalle microspie collocate alla Escavazioni Valsusa, l’imprenditore Beppe Magrita di Giaveno (paese della Val Sangone, situata immediatamente a sud della Val Susa) aveva detto ai sodali di non parlare più al telefono dei loro affari, perché gli apparecchi erano tutti sotto controllo. Qualcuno, disse, aveva fatto trapelare la notizia dalla procura. “Non fate mai il suo nome” disse Magrita intercettato; ma un altro degli imprenditori arrestati, Francesco Butano, parlò in carcere con i magistrati e rivelò che la talpa in procura aveva riferito dell’indagine in corso a Osvaldo Napoli, parlamentare di Forza Italia e sindaco di Valgioie, che è proprio nella Val Sangone: il ben noto affiatamento tra “politica” e “impresa”, condito dalle soliteliason all’interno della magistratura…
Lo stesso Ferdinando Lazzaro, in carcere, dopo neanche due mesi dall’arresto, cominciò a parlare ai magistrati per migliorare la propria posizione processuale. Confidò di aver corrotto un funzionario, Adriano De Falco, inviato da Napoli a Torino dopo la terribile alluvione del 2000, in veste di Magistrato del Po: era lì per mettere in sicurezza gli argini e impedire altre morti o altri disastri per le famiglie e gli abitanti del torinese, ma affidava i lavori a chi gli girava il 5% della commissione pubblica che lui stesso firmava. Lazzaro disse di aver ottenuto così, ad esempio, l’appalto per mettere in sicurezza (si fa per dire, visto lo scenario) le sponde fluviali della Dora a Susa con la sua ditta Italcoge: aveva versato 40 mln di lire a De Falco, consegnandoglieli di persona in un ristorante di Meana di Susa. Lo stesso aveva fatto la famiglia Lucco Castello, titolare della Escavazioni Valsusa, che aveva ottenuto l’appalto per i lavori all’ospedale di Susa.
Tonino Esposito e Vincenzo Procopio
Mentre Lazzaro era in prigione e si confessava ai pm, nel 2002, Lo Presti era vivo e vegeto e ancora libero in attesa dell’appello per la condanna del 2002 per associazione mafiosa (Campo-Smith). In quei mesi Tonino Esposito raccoglieva per lui, a suon di ricatti e minacce, i soldi degli indebitati torinesi, e Lo Presti tentava l’ultima avventura in grande stile: dalla sua dimora di Bardonecchia adocchiò gli appalti faraonici previsti per Torino 2006. Sono gli stessi mesi in cui Ugo Martinat era viceministro e Vincenzo Procopio, che gli imprenditori milanesi definivano il “cassiere” dei versamenti per Alleanza Nazionale attraverso la Sti, faceva parte del comitato direttivo delle Olimpiadi. A settembre del 2003 Procopio iniziò a ricevere strane telefonate di minaccia. Poco dopo fu avvicinato da Tonino Esposito, che gli disse: “So che hai dei problemi. Conosco persone che ti possono aiutare”. Poche settimane più tardi tutti i membri del consiglio ricevettero una busta contenente un proiettile Smith&Wesson calibro 10.
Il messaggio era chiaro; ma soprattutto, con queste modalità, avvenne l’incontro tra due diversi e specifici ambienti criminali: quello di Alleanza Nazionale, facente capo a Martinat e Procopio (istituzioni), e il settore della ‘Ndrangheta valsusina di Esposito e Lo Presti (capitali illegali). È in questo momento che il pm Antonio Malagnino, ordinando ai carabinieri di intercettare il telefono di Esposito, si accorge che quest’ultimo si intrattiene al telefono con il pm e suo collega Antonio Rinaudo. Dai colloqui di Procopio e Giovanni Desiderio (membro del comitato direttivo di Torino 2006) emergeranno le manovre di Lunardi, d’accordo con il colosso imprenditoriale che fa capo al costruttore Marcellino Gavio, per dare a sé stesso il denaro che il suo ministero intendeva versare per il cantiere Tav di Venaus: attraverso società-paravento come l’Alpina di Milano (che copriva la sua Stone) o la Eiffage (che copriva la Rocksoil, intestata alla figlia, già impiegata per il TGV Lione-Marsiglia).
I legami tra Vincenzo Procopio e la Val Susa non si fermarono qui: nello stesso periodo curò anche interessi privati per gli appalti relativi alla variante di Avigliana, in bassa valle, appaltata dall’agenzia Torino 2006 di cui era consigliere; tre anni più tardi, quando tanto lui quanto Gavio e Martinat saranno indagati in seguito alle intercettazioni di Malagnino, Procopio eleggerà domicilio legale in uno studio dei fratelli Galasso; un nome che riporta ancora ad Antonio Rinaudo e Tonino Esposito, se è vero che entrambi, soltanto un anno prima, sedevano con lui in un Hotel di lusso alle cene con Moggi. Nella cena con Moggi al Concord del 26 febbraio 2005 Rinaudo aveva tra i suoi amici, in altre parole, tanto chi era andato a minacciare Procopio per conto di Lo Presti riguardo a Torino 2006, quanto chi offrirà proprio a Procopio domicilio legale per le accuse di turbativa d’asta circa il cunicolo di Venaus.
Ferdinando Lazzaro e Bruno Iaria
Le pressioni di Esposito su Procopio furono, nel 2003, la punta dell’Iceberg dell’inserimento della ‘Ndrangheta negli appalti per le Olimpiadi. Molta luce su questi legami sarà fatta dalle dichiarazioni di un affiliato dell’organizzazione, Rocco Varacalli, che – poco dopo la conclusione dei Giochi e quasi in contemporanea con l’arresto di Lo Presti ed Esposito – iniziò a parlare con i magistrati. Dichiarò che tutti i cantieri di Torino 2006 erano stati subappaltati a ditte facenti capo alla ‘Ndrangheta, che aveva avuto così modo di ripulire miliardi di capitali accumulati con il narcotraffico. Molti altri cantieri edili torinesi, ed anche varianti urbanistiche centrali dell’era Chiamparino (all’epoca delle rivelazioni di Varacalli in pieno corso), erano state realizzate dalle ditte dell’organizzazione (ad esempio la Spina 3). Le dichiarazioni-fiume testimonieranno anche che i lavori per la costruzione del Tav Torino-Milano erano stati realizzati da ditte di copertura per il riciclaggio dei capitali del narcotraffico, e pure con costi gonfiati, grazie ai subappalti forniti dal Gruppo Gavio alle ditte dell’organizzazione (la procura di Milano indagherà solo nel 2008, a lavori finiti, le ditte controllate dalla ‘Ndrangheta che hanno lavorato al Tav Torino-Milano anche per aver usato i cantieri lungo la linea per interrare tonnellate e tonnellate di rifiuti tossici).
Già a inizio anni Novanta, del resto, mentre Lo Presti iniziava a indebolirsi in seguito alle inchieste su Campo-Smith a Bardonecchia, gli appalti per la costruzione del più grande e famoso centro commerciale dell’area torinese, Le Gru di Grugliasco (progettato da Berlusconi in società con un’azienda francese, condannata per 2 mld in tangenti agli amministratori locali), erano stati distribuiti alle famiglie ‘Ndranghetiste radicate in pianura, nella cintura cittadina. Fu proprio alla conferenza stampa per l’inaugurazione delle Gru, il 9 dicembre 1993, che Berlusconi annunciò la sua “discesa in politica” ai giornalisti, alla presenza delle famiglie Belfiore, Pelle e De Masi (come raccontò Varacalli alla procura dopo le Olimpiadi).
Varacalli non si limitò al passato e descrisse l’intera struttura dell’imprenditoria ‘Ndranghetista nella provincia di Torino, attraverso l’enumerazione delle “locali”, le cellule territoriali dell’organizzazione. Nel capoluogo Giovanni Catalano teneva nel 2006 le relazioni tra i centri della Calabria e quelli del Piemonte, dal centro operativo dell’organizzazione, il Bar Italia di via Veglia 59, in Borgata Lesna: nell’esercizio si tenevano le riunioni dei boss di tutta la provincia di Torino. Salvatore De Masi detto Giorgio, invece, la cui famiglia era stata coinvolta nella costruzione delle Gru, è capolocale a Rivoli dopo una complessa vicenda di sangue; e Giovanni Iaria, con il figlio Bruno, gestisce come sempre la “locale” di Cuorgné, nel Canavese, dove, come abbiamo visto, la famiglia Lazzaro di Susa ha interessi fin dagli anni Novanta. Il legame Lazzaro-Iaria, tuttavia, sembra essere molto più sostanziale di una semplice comunanza di influenze territoriali: il suo meccanismo è occultato da manovre contabili e dall’utilizzo di prestanome.
I Lazzaro, ad esempio, ottengono appalti per lotti della Salerno-Reggio Calabria e per alcuni acquedotti calabresi, sempre in società con Foglia Costruzioni srl, ditta che fallisce poco dopo e viene fagocitata dalla Finteco; quest’ultima fa capo, attraverso prestanome, proprio a Giovanni Iaria. Tuttavia Ferdinando Lazzaro, nel 2006, inserisce direttamente Bruno Iaria nella sua ditta, la Italcoge di Susa, con la qualifica di “dipendente” (ovviamente Bruno Iaria non è un operaio); una qualifica che Iaria manterrà fino al 2007, per poi sparire dai registri contabili della ditta. Un piccolo errore che comunque, come vedremo, non costerà nulla ai Lazzaro. Le connessioni che gli Iaria, dal Canavese, hanno con la Val Susa, non finiscono qui: nel 2007 un altro imprenditore valsusino entra direttamente in contatto con Bruno e Giovanni Iaria, entrando nella loro casa a Cuorgné per un incontro (non sa che il luogo è videosorvegliato dai carabinieri, che indagano in seguito alle deposizioni di Varacalli): è Claudio Pasquale Martina, la cui famiglia possiede la Martina Srl, anch’essa di Susa e anch’essa specializzata, come la Italcoge dei Lazzaro, nel movimento terra.
Il legame Iaria-Lazzaro prosegue il 23 ottobre 2008, quando la Italcoge (Lazzaro) ottiene appalti per i sovrappassi e sottopassi valsusini di Vaie, Chiusa san Michele e Sant’Antonino in società con la Foglia Costruzioni che, secondo un copione già noto, “fallisce” e viene sostituita da Finteco (Iaria). Negli stessi mesi la commissione parlamentare antimafia indica “Val d’Aosta, Val Susa e Torino come zone di particolare criticità riguardo alla ‘Ndrangheta”. Chiamparino si indigna e Maurizio Laudi (che nel 2008, dopo lo scandalo delle regalie di Moggi, è stato premiato con la direzione della divisione distrettuale antimafia) gli va in soccorso: “La reazione di Chiamparino – dice – è giustificata. Per Torino non c’è mai stata alcuna vicenda o episodio che potesse essere sintomatico di infiltrazione” (Il Sole24Ore, 8 marzo 2008). Caselli gli fa da sponda: “Se ci fossero infiltrazioni nel comune di Torino, pensa che non me ne sarei accorto?”.
I giornalisti se la ridacchiano: al procuratore, è ovvio, non sfugge mai niente. È vero che non si accorse (a suo dire) della Trattativa stato-mafia a Palermo, nel periodo 1993-1996 quando a Palermo proprio lui dirigeva la procura della repubblica; ed è vero che non si accorse che gli uomini che la conducevano erano i vertici della sua polizia giudiziaria (in alcuni casi, come quello del gen. Mori, da lui stesso coinvolti in operazioni delicatissime, che non a caso condussero a palesi depistaggi). Ora Caselli (siamo nel 2008) non si è accorto che l’Agenzia Torino 2006, nel cui scenario avvennero i contatti Procopio-Esposito (e sulle cui vicende il pm Malagnino aveva indagato già nel 2003) è un’emanazione istituzionale del comune di Torino; né che lo stesso consigliere dell’agenzia Procopio ha mestato a lungo per coinvolgere il Gruppo Gavio nel cantiere previsto a Venaus, proprio nei mesi in cui esso subappaltava alla ‘Ndrangheta i lavori per il Tav Torino-Milano. E in effetti, oltre a lasciare indenni i politici coinvolti nelle indagini (con una sola eccezione su cui torneremo) l’operazione Minotauro del 2011, coordinata da Caselli, lascerà completamente indenne il comune di Torino (inteso come istituzione).
“… pensiamo all’alta velocità…”, “… sosteniamo Fassino…”
Pochi mesi più tardi le dichiarazioni di Laudi e Caselli, Rocco Lo Presti è raggiunto, a tre anni dall’arresto che lo colpì assieme a Tonino Esposito, dalla prima condanna definitiva della sua vita: cinque anni in cassazione, da scontarsi ai domiciliari. È il 15 gennaio 2009; viene arrestato il 21 gennaio; il 24 gennaio (tre giorni dopo) muore. La sentenza contiene una rivelazione agghiacciante: “Esiste un’emanazione della ‘Ndrangheta nel territorio della Val Susa e nel comune di Bardonecchia”. È passato mezzo secolo dall’arrivo di Lo Presti in Val Susa e dalla sua cementificazione dell’alta valle, trent’anni dai suoi appalti per l’autostrada, sedici dall’affare per Campo-Smith. Ma il potere giudiziario di una società divisa in classi, come una nottola tutt’altro che stupida, arriva sempre a sanzionare dopo i delitti commessi da chi detiene i capitali, quando gli affari (sulla nostra pelle) sono già stati fatti.
Le elezioni europee sono previste sei mesi dopo la morte del vecchio boss; e il 23 maggio, a due settimane dal voto, Claudia Porchietto, assessore regionale al lavoro (Pdl), si reca al Bar Italia di via Veglia 59 per fare una visita a Giuseppe Catalano, accompagnata dal nipote del boss, Luca Catalano. I carabinieri la filmano, ma i suoi dialoghi con il boss non vengono trasmessi alla procura. È poi la volta del sindaco di Rivarolo Canavese, Fabrizio Bertot (Pdl), che entra al Bar Italia dopo quattro giorni (dieci giorni prima del voto). Il trattamento dei carabinieri è per lui difforme: il suo dialogo con i boss viene registrato e inviato alla procura. Catalano ha contattato, per l’occasione, Salvatore De Masi di Rivoli, Giovanni Iaria di Cuorgné (la zona in cui Bertot è sindaco) e un’altra decina di boss, affinché presenzino alla riunione con il candidato alle europee.
Alle ore 12.15 il boss Catalano presenta il candidato ai suoi sodali:
Catalano: … un attimo di attenzione.. che… devo esprimere due parole sole e poi… (inc.)… prima di tutto… (inc.) … esprimo… un vero piacere che oggi abbiamo accanto il signor sindaco… il suo segretario… e per noi è un grande orgoglio… poi vi tengo presente che il sindaco è candidato alle europee… e quindi possiamo votarlo sia il Piemonte che Lombardia…
Iaria: pure in Liguria…
Catalano: pure in Liguria… e già sappiamo che…
Iaria: … e Valle d’Aosta…
Catalano: … abbiamo tanti amici… quindi vi chiedo cortesemente… chi c’ha un parente… chi c’ha un amico… di passare questa parola… che avendo… una persona che noi conosciamo… ci porta al bene… sempre… io non ho altro da dirvi…(incomprensibile)… mi fa piacere che fate questo…(inc.)… che ehh…
Iaria… (inc.)…
Catalano: oltre quarant’anni… quindi… vi ringrazio della vostra attenzione… (inc.)
Come si evince dalla successive parole del candidato Bertot, a questo punto interviene il segretario del sindaco, il cui intervento non viene trasmesso dai carabinieri alla procura. Si conosce invece l’intervento di Bertot alla riunione, che inizia dopo le 14.00:
Bertot: … chiedo scusa per l’italiano … (risate) […] no, io vi ringrazio di tutto un po’… di tutto quello che state facendo… ma soprattutto … (rumore di sedia)… per quello che farete! […]. Io che sono un po’ appassionato di urbanistiche… di opere pubbliche … di lavori… e sono convinto che il Piemonte abbia bisogno come terra… di tutta una serie di opere… grosse… importanti… pensiamo al collegamento con Genova per il porto… (rumore) … pensiamo all’Alta Velocità… tutte cose che comunque passano dal Parlamento Europeo… non passano da … (inc.)… […] perché quel terzo valico con Genova… invece di usarlo… usarlo qui… decidessero di usare il porto di Marsiglia… per noi sarebbe devastante… ma permettere che significa… (inc.)… lavoro per miliardi i euro… quindi io sono un grande sostenitore dei grandi cantieri, perché la pubblica amministrazione può solo … (rumore)… (qualcuno interviene brevemente ed in modo incomprensibile)… grandi cantieri… grandi opere… e tutte queste cose passano dal Parlamento Europeo… quindi vado per ammesso a fare … (inc.)… di territorio là! Poi un’altra cosa che non ha detto il mio segretario che mi conosce da tanti anni… io …voglio… sto facendo questa cosa… ma continuerò a fare il sindaco di Rivarolo… (interviene un presente dicendo: “Lo faccio io il sindaco…”) … quindi…ecco… anche magari per interposta persona, continuerò a fare il sindaco di Rivarolo… […] si ma questo significa che comunque sono contattabile… qui… a parte i due Giovanni [Giovanni Iaria, capolocale nel Canavese, dove Bertot è sindaco, ndr] … e Nino [Domenico Catalano, fratello di Giuseppe, capolocale di Torino, ndr] che… sanno bene come rintracciarmi… ma il fatto che io rimanga a fare il sindaco di Rivarolo significa che io voglio andare là… per avere un ufficio là… avere i contatti che servono là… per avere anche tutte quelle cose comunque si vogliono e si possono fare eh… […] quindi mi affido veramente a voi… tutti quelli che sto contattando in questo momento… perché l’obiettivo non é tanto che io vado in Europa… ma che voi possiate avere … (inc.)…
I “grandi cantieri” e le “grandi opere” (Alta velocità in Val Susa e Terzo Valico in primis) fanno parte del patto che la politica sancisce con l’organizzazione criminale più potente e ramificata della provincia di Torino. Nel maggio del 2009, forze dell’ordine e procura ne sono al corrente. Giovanni Iaria si attiva per far confluire voti sul sindaco canavesano e Fabrizio Bertot vince: va a Strasburgo, al parlamento europeo.
Non si pensi, però, che i legami e le connessioni riguardino soltanto il Pdl: analogo successo avrà la campagna per Fassino sindaco sostenuta dal parigrado di Iaria a Rivoli, altro comune interessato dal progetto della Torino-Lione. A richiedere il sostegno del padrino della cintura sud-est De Masi è addirittura un deputato del Pd, Mimmo Lucà (anch’egli di Rivoli) che gli telefona il 21 febbraio 2011:
De masi: pronto…
Lucà: … ciao Giorgio…
De masi: … ciao Mimmo… come stai?
Lucà: … eh bene, abbastanza, tutto tranquillo.
De masi: … sì…
Lucà: … ascolta…ti volevo chiedere questo… tu sai che a Torino abbiamo le primarie…
De masi: … certo!… tu dimmi qualcosa che io mi interesso…
Lucà: …ecco… che io sto sostenendo Fassino…
De masi: …eh beh… anch’io avrei fatto la stessa cosa…
Lucà: … perché obbiettivamente mi pare la persona più seria in questo momento…
De masi: … si… si…
Lucà: …a dare continuità… a dare continuità alla giunta di Chiamparino…
De masi: … si… si…
Lucà: …infatti anche Chiamparino ovviamente sostiene…
De Masi: …sostiene Fassino…
Lucà: …Piero…quindi… […]
De Masi: …si…si…eh una mano…
Lucà: …se magari hai qualche…un qualche amico a Torino…
De Masi: …certo!… certo che ne ho!…
Lucà: … a cui passare la voce…
De Masi: …senz’altro…si… […]
Lucà: …eh… quindi insomma… se qualcuno riesce… se hai qualche amico da consigliar…
De Masi: … come non ne ho… ne ho!… ne ho più di uno… grazie a Dio… ne ho più di uno… quindi… quindi…
Lucà: …prova… prova a sentire che area tira…
De Masi: …si…si… e facciamo… facciamo… diciamo questi che conosciamo facciamo votare Fassino…
Lucà: … poi appena vengo a Torino noi due magari ci andiamo a prendere un caffè…
De Masi: come no… come no… quando vuoi, Mimmo…
Il 27 febbraio 2011, proprio durante lo svolgimento delle primarie, alle ore 17.21, De Masi telefona al deputato Pd per comunicargli di aver provveduto a sostenere Fassino sindaco, e si mostra fiducioso sulla possibilità di vittoria:
De Masi: ciao Mimmo…
Lucà: …ciao Giorgio…ho visto che mi hai chiamato…ciao…
De Masi: …si…si…ti avevo chiamato… io ero appena arrivato… che avevo fatto ancora qualche commissione tutta la mattinata in Torino…
Lucà: …ah…ah…
De Masi: …si…per il nostro amico… comunque…io dico che dovrebbe andare bene…
Lucà: …si…si…
De Masi: …anche se è una battaglia abbastanza…
Lucà: …complicata…
De Masi: …eh…eh… perchè… insomma… l’altro si è dato… si è dato molto da fare anche!
Lucà: …si… mi hanno detto che l’altro anche ha lavorato anche molto sui… sui Calabresi!
De Masi: …si…si…ho riscontrato questo… comunque…
Lucà: …perchè c’era Mangone che ha lavorato sui…
De Masi: …esatto…esatto…esatto…si…si…si…io comunque fino alle dodici ed un quarto… insomma quindi… ho fatto il mio dovere va!
All’assalto di Chiomonte
Anche Gaetano Porcino (Idv) e Antonino Boeti (Pd) (quest’ultimo, oltre ad essere consigliere regionale in carica, è stato per molti anni sindaco di Rivoli) sono intercettati al telefono con Salvatore De Masi. Il colore politico degli interlocutori dei boss cambia senza scossoni a seconda del partito che governa il territorio. De Masi comanda la ‘Ndrangheta a Rivoli, comune tradizionalmente governato dal centrosinistra, e si impegna per Fassino alle primarie Pd, su diretta richiesta di parlamentari del partito; Giovanni Iaria, che comanda l’organizzazione nel Canavese, si attiva per far confluire i voti delle europee su Bertot, amministratore sul suo territorio per il Pdl. Proprio l’Unione Europea, poco dopo le elezioni, dà un ultimatum all’Italia per ciò che concerne la Torino-Lione, per cui il governo ha chiesto un cofinanziamento europeo. L’UE non ha mai affermato che finanzierà il progetto ma, per poter prendere in considerazione la richiesta (senza dubbio su sollecitazione dei delegati italiani), chiede, a ormai cinque anni dai fatti del 2005, la dimostrazione che il governo è in grado di superare le resistenze.
Il ministro dei trasporti e delle infrastrutture Matteoli (Pdl, ex Alleanza Nazionale) annuncia allora che Ltf, la società italo-francese incaricata di realizzare il progetto, eseguirà, entro la fine del 2009, 91 sondaggi geognostici in Val di Susa. La mobilitazione dei No Tav fa slittare l’iniziativa all’inizio del 2010, a ridosso della scadenza indicata dall’Unione Europea. Il 10 gennaio, di fronte alla presenza di centinaia di oppositori su uno dei siti destinati ai sondaggi, le forze dell’ordine rinunciano. Come risposta, il 16 gennaio qualcuno incendia, di notte, il presidio No Tav di Bruzolo. Il movimento accusa “la mafia Sì Tav” di essere dietro l’attentato. Il governo, dopo esser riuscito a impiantare tre trivelle, decide di ripiegare, per gli altri sondaggi, nella cintura di Torino, cercando di imbonire l’Unione Europea circa la validità delle perforazioni fuori dalla valle. Il 24 gennaio va in fiamme il presidio No Tav di Borgone, il secondo in otto giorni. Il 31 gennaio è nuovamente la volta del presidio di Bruzolo. Gli animatori del presidio, completamente distrutto, espongono uno striscione con scritto: “Brucia più a voi che a noi”.
Il 17 febbraio una quarta trivella viene impiantata, nella notte, in località Coldimosso (tra Bussoleno e Susa). Il movimento si dà appuntamento all’autoporto e scende sull’area per opporsi all’operazione. Le forze dell’ordine che proteggono la trivella si abbandonano a violenze sui manifestanti su ordine di Spartaco Mortola, già protagonista della mattanza della Diaz al G8 di Genova nel 2001. Un ragazzo, Simone, va in coma (ma si salverà) e una signora di Villafocchiardo, Marinella, patisce una frattura scomposta maxillo-facciale. La reazione dei No Tav è durissima. La polizia è costretta a fuggire aprendosi un varco con i mezzi della ditta Geomont di Giuseppe Benente, che realizza le trivellazioni: un escavatore distrugge un brandello di guard-rail e permette ai mezzi della polizia di fuggire sull’A32. Il governo cessa l’operazione sondaggi: rispetto ai 91 annunciati in Val Susa, ne sono stati realizzati quattro. Poche settimane dopo Giuseppe Catalano, organizzatore dell’incontro con l’europarlamentare Bertot dove si trattò dei cantieri dell’alta velocità, viene arrestato su ordine della procura di Reggio Calabria per un’operazione nazionale contro la ‘Ndrangheta (13 luglio).
Il 30 dicembre Ferdinando Lazzaro presenta istanza di ristrutturazione del debito della sua azienda al tribunale di Torino, e il suo legale dà per certo, a garanzia dell’operazione, l’ottenimento dell’appalto per un cantiere Tav alla Maddalena, nel comune di Chiomonte (quando Lazzaro parla al tribunale non è stata indetta alcuna gara d’appalto per il futuro cantiere). Due mesi dopo, l’8 febbraio 2011, è invece Vincenzo Procopio a varcare la soglia del Tribunale, ma per essere condannato in primo grado, assieme al direttore generale di Ltf (Tav Torino-Lione) Paolo Comastri e al direttore generale della Sitaf (autostrada Torino-Bardonecchia) Giuseppe Cerutti, per abuso d’ufficio e turbativa d’asta. I fatti sono quelli relativi al cantiere Tav di Venaus e agli appalti di Torino 2006. Soltanto il già avvenuto decesso ha salvato dalla condanna l’ex viceministro Ugo Martinat e il costruttore Marcellino Gavio, il cui gruppo imprenditoriale è ormai in mano ai suoi successori.
Tre mesi dopo, il 5 maggio, l’appena condannata Ltf stipula un contratto per i lavori di messa in sicurezza del cantiere previsto a Chiomonte. Il governo Berlusconi ha infatti dato assicurazioni, attraverso il ministro dell’Interno Maroni, che presto ogni resistenza al progetto verrà debellata. Contraenti del contratto per il previsto cantiere sono due sole aziende, riunite in una ati (assiociazione temporanea d’imprese): Italcoge, l’azienda dei Lazzaro, e Martina Srl, quella dei Martina (l’imprenditore che fu filmato mentre entrava in casa di Giovanni Iaria a Cuorgné). È il contratto C 11070, con oggetto: preparazione del cantiere e realizzazione di una barriera anti-intrusione sul sito del tunnel esplorativo della Maddalena. Curiosamente lo stesso giorno la Italferr (Rfi), che detiene il 50% di Ltf, segnala a quest’ultima che l’azienda dei Lazzaro, Italcoge, è insolvente per ciò che concerne la costruzione dei sovrappassi e dei sottopassi ferroviari di Chiusa San Michele, Vaie e sant’Antonino, in bassa Val Susa. È l’operazione che Italcoge gestì in società con Foglia Costruzioni, poi fallita e sostituita da Finteco controllata dagli Iaria, come era avvenuto sulla Salerno-Reggio Calabria. Nonostante la segnalazione, quello stesso 5 maggio Ltf chiude il contratto con Italcoge.
Entrambe le ditte cui Ltf concede l’appalto, quindi, hanno legami con gli Iaria, capilocale nel Canavese dove si è candidato Fabrizio Bertot, che proprio agli Iaria (e a Catalano) aveva parlato con entusiasmo dei “cantieri del Tav” al bar di via Veglia, prima delle elezioni europee in cui sarebbe stato eletto. Non basta: undici giorni dopo Italcoge forma un’ati più grande denominata Consorzio Valsusa, in cui si associa alla Escavazioni Valsusa e alla Geomont di Giuseppe Benente, che ha fatto i sondaggi fino alle violenze di Coldimosso. I giornali riferiscono che al Consorzio Valsusa è stato “promesso” l’appalto per i successivi lavori alla Maddalena, anche se non specificano di che tipo di “promessa” si tratti. Il movimento No Tav si mobilita: viene istituito un presidio permanente sulle vie d’accesso a Chiomonte e a Giaglione. Il 23 maggio i mezzi della Italcoge giungono, scortati da decine di poliziotti e carabinieri, alle porte del pianoro della Maddalena, ma i No Tav li respingono colpendo con pietre i mezzi dei Lazzaro e i poliziotti che li scortano. Il convoglio si ritira.
Il 24 maggio gli operai della Italcoge scioperano, denunciando di non essere pagati da mesi. Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni definisce i No Tav “fascisti” e li accusa di aver “aggredito gli operai”. Il 26 giugno il movimento si riunisce in assemblea e invita i lavoratori “a valutare chi veramente difende i loro interessi e ad unirsi alla lotta del Movimento No Tav contro le lobbies politico/sindacali/affaristiche che stanno affossando il nostro Paese”. All’assemblea un No Tav, Claudio Cancelli, dichiara: “Siamo in presenza di una struttura di potere che vive di furto del denaro pubblico… un sistema che mantiene una pletora di altre strutture parassitarie e vi piazza i propri uomini, non importa se pregiudicati, vedi la Sitaf, Trenitalia e le tante municipalizzate e consorziate, vedi gli stessi sindacati come la Cisl, governati da congreghe mantenute con i soldi pubblici. Ecco perché sono favorevoli alle grandi opere. Non per il lavoro ma per difendere se stessi: un’economia di rapina ai danni del cittadino e dei suoi bisogni”.
Sandro Plano, presidente della Comunità Montana Val Susa e Val Sangone, protesta per la prova di forza tentata dai Lazzaro e dalla polizia il 23 maggio e chiede che i soldi vengano investiti nelle piccole opere utili per i comuni della valle e non gettati nel buco nero del Tav. Gli risponde con un’Ansa Claudia Porchietto, l’assessore regionale che fece visita a Giuseppe Catalano in via Veglia pochi giorni prima di Bertot, accompagnata dal nipote del boss: “Plano forse non si rende conto che a sostenere le posizioni grottesche, violente e incivili dei No Tav le vallate rischiano non solo di perdere il treno con l’Europa ma anche quello dello sviluppo socio-economico che opere come la Tav portano come conseguenza”. Il movimento crea un sistema di fortificazioni per difendere l’area, costituito da barricate in tutti gli accessi principali alla Val Clarea: è l’inizio della Libera della Maddalena.
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Nota
Il movimento No Tav ha raccolto e pubblicato una rassegna di articoli apparsi sui quotidiani, riguardanti i fatti qui narrati, nel dossier C’è lavoro e lavoro, consultabile sul sito notav.info. Un separato dossier relativo alla campagna C’è lavoro e lavoro, consultabile sullo stesso sito, contiene l’analisi dettagliata delle visure camerali delle ditte impegnate nel cantiere, tra cui quelle riconducibili alle famiglie Lazzaro e Martina e alla Sti di Vincenzo Procopio. Per ciò che concerne gli Iaria, numerosi sono i procedimenti, ma le notizie qui riportate sono documentate, dal punto di vista giudiziario, in alcuni faldoni dell’inchiesta Minotauro e, in particolare, nella Relazione dei carabinieri alla procura di Torino del dicembre 2011 riguardante i rapporti tra Italcoge, Foglia Costruzioni e Finteco (Lazzaro-Iaria) e i rapporti Martina-Iaria. Cfr. anche Minotauri per i recinti di Chiomonte?, La Stampa, 25 febbraio 2012 e Tav: qualche domanda sulla gestione degli appalti di Chiomonte, Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2012.
Una sintetica ricostruzione giornalistica di alcune vicende relative al radicamento imprenditoriale del capitalismo ‘Ndranghetista in provincia di Torino, e sui contatti tra i boss e i politici bertot e Porchietto, è contenuta in La mafia al nord, puntata del programma Presa Diretta, trasmessa su Rai3 il 15 gennaio 2012 e consultabile su Youtube o sul sito rai.presadiretta.it. Contiene tra l’altro parte dei dialoghi in viva voce tratti dalle intercettazioni tra Bertot, Catalano, Iaria ed altri, tra Lucà e De Masi, le immagini della visita dell’ex assessore Porchietto al bar di via Veglia di Catalano e un’intervista al “pentito” Varacalli.
Un’analoga e parziale sintesi di parte isttuzionale è rinvenibile nel Rapporto sull’infiltrazione della criminalità organizzata nell’economia di alcune regioni del nord Italia, a cura del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, 23 febbraio 2010, in cui sono ricostruite alcune delle attività degli Iaria tra anni Ottanta e anni Duemila e alcuni rapporti tra la magistratura di Torino e Ivrea e la ‘Ndrangheta torinese e del Canavese. Le dichiarazioni di Laudi e Caselli a seguito della reazione di Chiamparino alle osservazioni della commissione antimafia sono riportate in Più ‘Ndrangheta in Piemonte, Il Sole24Ore, 26 marzo 2008. I rapporti tra Pd e ‘Ndrangheta in rapporto all’elezione di Fassino sono riassunti, tra l’altro, in Il parlamentare del Pd Mimmo Lucà chiese alla ‘ndrangheta i voti per Fassino, Il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2011 e “Aiutiamo Fassino alle primarie”, La Repubblica, 9 giugno 2011.
[da notav.info]
La prima puntata dell’inchiesta, il 2 maggio la prossima.
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Le strane amicizie del pm Rinaudo
Magistratura e ‘Ndrangheta all’attacco della Val Susa
Nell’ottobre 2003 un pubblico ministero della procura di Torino, Antonio Malagnino, ricevette un rapporto dei carabinieri in cui comparivano telefonate “amichevoli” tra un suo collega in procura, Antonio Rinaudo, e un uomo, tale Antonio Esposito detto Tonino, soprannominato negli ambienti malavitosi “O’ Americano”, già accusato di aver pianificato un omicidio negli anni Ottanta, emissario a Torino del più potente e famoso boss della ‘Ndrangheta in Val Susa: Rocco Lo Presti, le cui attività criminali avevano condotto nel 1995 allo scioglimento per mafia del comune di Bardonecchia (primo caso nel nord Italia). Motivo scatenante dello scioglimento era stata l’inchiesta sul sindaco della piccola città alpina, che aveva concesso proprio a Lo Presti appalti miliardari in qualità di boss di quella “mafia della Val Susa” che connotò negativamente, per decenni, la fama di quei territori – fino alla nascita del movimento No Tav. Oggi Antonio Rinaudo gestisce con furore la battaglia giudiziaria contro quel movimento e difende un cantiere da più parti accusato di essere il nuovo e più grande bancomat per la stessa e sempre più potente organizzazione criminale.
La scoperta delle relazioni pericolose tra Rinaudo e l’emissario della ’Ndrangheta valsusina non portarono, sorprendentemente, ad alcuna conseguenza di rilievo per il magistrato. Rinaudo continuò, indisturbato, a ricoprire il suo ruolo di pubblico ministero. In quello stesso anno, anzi, gli fu affidata proprio un’inchiesta su attività riconducibili alla ‘Ndrangheta. Si trattava di sessantacinque persone coinvolte in un traffico internazionale tra tre paesi e due continenti. Rinaudo, per loro fortuna, lascerà giacere il fascicolo per ben dieci anni nel suo cassetto, prima di riesumarlo, appena un anno fa, quando per tutti gli indagati è ormai garantito, nei fatti, l’esito della prescrizione. È il procedimento 6616/02 R.G. G.I.P.: la chiusura indagini è datata 2003, ma la richiesta di rinvio a giudizio di Rinaudo (unico titolare dell’inchiesta) è dell’agosto 2013, dieci anni in ritardo e ad appena dieci giorni dalla firma del magistrato sulle prime accuse di terrorismo per chi si oppone all’alta velocità.
Prima di arrivare in Val Susa e imbastire la guerra giudiziaria contro il movimento, Rinaudo ha avuto tempo di lasciare altre tracce delle sue relazioni pericolose. Il 26 febbraio 2005, quando Tonino Esposito ormai da anni gestiva l’impero dello strozzinaggio per conto di Lo Presti a Torino, Rinaudo fece al criminale una delle tante telefonate, chiedendogli di passare a prenderlo in macchina per portarlo a cena in un Hotel di lusso, dove lo aspettava Luciano Moggi, da cui il pubblico ministero, scopriranno i carabinieri, riceveva da tempo regalie e favori. Ironia della sorte, il malavitoso si lamentò della richiesta di Rinaudo proprio con Moggi (che definì al telefono il pm “’Na rottura di palle”) e sbottò: “Questi qua so’ tutti la stessa pasta, so’, ‘sti magistrati!”. La telefonata era intercettata, stavolta, dal nucleo investigativo dei carabinieri di Roma, su ordine della direzione distrettuale antimafia di Napoli, che indagava, tra l’altro, sugli agganci che Moggi aveva con le forze di polizia e negli ambienti giudiziari.
Proprio da quelle telefonate emerse la presenza, alla cena tra Moggi, Rinaudo e Tonino Esposito, anche dell’avvocato ed ex deputato del Msi Andrea Galasso. La presenza di Galasso (che i carabinieri di Roma definiscono “comune amico” di Rinaudo e Moggi) conduce nuovamente, guarda caso, alla Val Susa. Galasso aveva difeso il presunto mandante di Esposito per il vecchio caso di omicidio: era Franco Froio, dirigente supremo dei lavori per l’autostrada del Frejus che ingrassarono a tal punto il clan di Lo Presti da attirare le attenzioni della commissione antimafia. Ora, mentre è a cena con Rinaudo, Galasso assiste il suo amico e sodale politico Ugo Martinat (all’epoca viceministro dei lavori pubblici), mentre suo fratello darà domicilio legale a Vincenzo Procopio, suo portaborse. I due erano sotto inchiesta per gli appalti truccati al previsto cantiere Tav di Venaus: il viceministro, grazie al suo faccendiere, aveva messo in piedi un sistema di incassi in favore di Alleanza Nazionale per tutti gli appalti pubblici del torinese, ma anche una spartizione occulta del denaro stanziato per il Tav (che coinvolse anche l’allora ministro per i lavori pubblici, Pietro Lunardi).
I fili pronti a dipanarsi dalle frequentazioni di Rinaudo, però, sono appena cominciati. Quando Antonio Malagnino scoprì i suoi rapporti con l’uomo di Lo Presti, nel 2003, stava indagando su vicende criminali che avevano il loro fulcro proprio nel rapporto tra Tonino Esposito e Vincenzo Procopio, l’uomo degli appalti a Venaus. Accadde in quell’anno, infatti, che Procopio (membro del comitato direttivo di Torino 2006) ricevesse strane telefonate di minaccia, per poi essere avvicinato da Tonino in persona, che gli disse: “So che hai dei problemi. Conosco persone che possono aiutarti”. Fu a partire da questo avvicinamento mafioso, e dal successivo invio di cinque buste contenenti proiettili calibro 10 a tutti i dirigenti del comitato direttivo, che la procura ordinò l’intercettazione dell’utenza di Esposito e appurò tanto i suoi contatti con Rinaudo quando quelli con Lo Presti, scoprendo le attività usurarie a Torino del boss della ‘Ndrangheta e il tentativo di infiltrazione nei cantieri olimpici.
Lo Presti ed Esposito furono arrestati alla fine del 2006, pochi giorni prima che uno dei sessantacinque indagati che Rinaudo aveva “dimenticato” nel suo cassetto, Rocco Varacalli (un affiliato di primo piano della ‘Ndrangheta), cominciasse a parlare con (altri) magistrati e raccontasse che tutti gli appalti di Torino 2006 erano stati assegnati dal comitato olimpico a ditte facenti capo alla sua organizzazione, così come i lavori finanziati dalla giunta Chiamparino per il piano regolatore torinese (spina 3) e dal governo per il Tav Torino-Milano (che servì anche a interrare quintali di rifiuti tossici nella pianura padana). E qui la storia inizia a farsi complicata. Varacalli rivelò i nomi dei capi delle “locali”, le strutture territoriali della ‘Ndrangheta torinese; tra essi Bruno Iaria, figlio di Giovanni, vecchio boss del Canavese, con centro di comando a Cuorgné, nell’hinterland settentrionale di Torino. Proprio in quei mesi Bruno Iaria figurava, guarda caso, tra i “dipendenti” dell’azienda di una nota famiglia valsusina, i Lazzaro, che secondo l’ex sindaco di Bardonecchia avevano svolto la funzione di prestanome per Lo Presti durante la costruzione dell’autostrada del Frejus. Lazzaro era stato anche arrestato per appalti truccati nel 2002, e in quell’occasione era emersa la presenza di una “talpa” in procura (mai identificata), che aveva avvisato gli “imprenditori” che era in corso l’intercettazione dei loro telefoni.
Poco tempo dopo, nel 2008, i Lazzaro ottennero appalti sia per lavori pubblici in Val Susa, sia per lavori di manutenzione della Salerno-Reggio Calabria e, attraverso complessi giochi camerali e contabili, si associarono a Giovanni Iaria in modo occulto. Questo, almeno, è ciò che dirà una relazione alla procura di Torino nel 2011, in cui si fece riferimento anche alle visite agli Iaria compiute da un altro “imprenditore” valsusino, Claudio Martina. Eppure, in quello stesso 2011, Ltf firmò un contratto milionario per il cantiere Tav di Chiomonte… con chi? Beh, naturalmente proprio con le ditte Italcoge e Martina Srl delle famiglie Martina e Lazzaro. Questo nonostante pochi giorni dopo, il 9 giugno, Giovanni e Bruno Iaria venissero arrestati con l’accusa di associazione mafiosa. Ma il 17 giugno, dopo altri otto giorni, Antonio Rinaudo firmò i primi cinquantacinque avvisi di indagine per altrettanti oppositori all’installazione del cantiere e ordinò la perquisizione di alcune loro abitazioni, tra cui quella del portavoce Alberto Perino (che avrebbe di lì a poco ricevuto una lettera con scritto: “Vi diamo tutti in pasto ai maiali e vi sciogliamo nell’acido”).
Altri dieci giorni e, il 27 giugno, duemila agenti tra poliziotti e carabinieri scortano la pala meccanica dei Lazzaro affinché essa distrugga, tra le proteste e la resistenza dei valligiani, le barricate che delimitavano l’ingresso alla Libera Repubblica della Maddalena, il presidio degli oppositori costruito dove doveva sorgere il contestato cantiere. Antonio Rinaudo fu allora definitivamente delegato a contrastare il movimento No Tav con l’arma degli arresti e dei processi. Il 18 gennaio 2012, intanto, Vincenzo Procopio entrò nel Consorzio Valsusa Imprese per lo Sviluppo, di cui facevano già parte i Lazzaro, e ottenne appalti per il cantiere appena aperto. Milioni di euro dei contribuenti sono quindi tuttora a disposizione, oltre che di chi è indicato dagli investigatori come sodale degli Iaria, e dall’ex sindaco di Bardonecchia quale prestanome di Lo Presti, anche di chi intrigò per spartire i miliardi di Venaus che non furono rubati (in favore del viceministro difeso dall’amico di Rinaudo, Andrea Galasso) soltanto per l’opposizione del movimento No Tav.
Il cerchio delle cene del 2005 e delle telefonate del 2003 si chiude sei giorni dopo l’ingresso di Procopio nel cantiere. Rinaudo firmò infatti la maxiretata con ventisei arresti e cinquantasei avvisi d’indagine contro gli oppositori al cantiere di Chiomonte. Le attività del pm e dei suoi collaboratori contro l’opposizione al Tav hanno successivamente portato, in meno di quattro anni, a quasi mille indagati per reati connessi alla protesta contro la grande opera. Arresti, forzature giudiziarie, lesioni del diritto di difesa, indifferenza smaccata o insabbiamenti per le violenze subite dai No Tav (dalle diffamazioni a mezzo stampa, ai pestaggi, agli incendi di auto e presidi, agli abusi sessuali). Tre ragazzi e una ragazza contrari all’opera sono detenuti da mesi, su ordine di Rinaudo, in completo isolamento e in regime d’alta sorveglianza nelle carceri italiane con l’accusa di aver danneggiato un compressore del cantiere, e per questo sono accusati da Rinaudo di “attentato con finalità terroristiche”. Due ragazzi scontano due anni e due mesi ai domiciliari per aver supportato un’azione No Tav. Le imputazioni e le intimidazioni del pm e dei suoi più stretti collaboratori non hanno risparmiato gli amministratori locali contrari al Tav, i giornalisti e i blogger critici verso il suo operato o verso quello della polizia, gli scrittori e gli intellettuali contrari all’opera; ma si sono concentrate soprattutto sui valligiani più affezionati alla salute della loro terra e sui giovani più generosi nel difendere un pezzo d’Italia dall’ennesima devastazione tossica da parte delle ecomafie e dei partiti.
Perché proprio Rinaudo? Perché proprio lui? Perché la procura ha affidato a un uomo con tali legami le controversie sociali sulla Torino-Lione, che coinvolgono migliaia di cittadini in contrapposizione a interessi politici e criminali cui conduce proprio ciò che abbiamo documentato con l’inchiesta che ora pubblichiamo nella sua interezza? E perché i mezzi d’informazione non hanno mai dato conto di tutto questo, almeno da quando Rinaudo è stato destinato a quella Val Susa che anche grazie a lui è diventata, in questi anni, territorio d’emergenza? Sono possibili risposte diverse. Quel che è certo, è che l’abuso giudiziario contro il movimento No Tav rivela, grazie alle informazioni che abbiamo qui raccolto, risvolti ancora più inquietanti. Tutte le notizie che abbiamo reperito sugli intrecci tra crimine organizzato, politica e magistratura in rapporto al Tav sono basate su fonti documentate, su visure camerali, atti giudiziari, interviste e report giornalistici che troverete indicati in calce ai testi. Curiosamente, questo materiale ci ha condotto esattamente dove ci avevano condotto, da anni, le informazioni raccolte nei bar della Val di Susa e, in alcuni risvolti decisivi, per le strade di Torino.
D’altra parte – come abbiamo già avuto modo di affermare – chi ci arresta e ci indaga sarà sempre sotto indagine da parte nostra. L’indagine di un movimento, però, è diversa da quella di un tribunale; ogni valutazione sui fatti è affidata unicamente all’attenzione critica di chi vorrà dare lettura di quanto segue.
Rinaudo nella selva incantata
Relazioni pericolose di un pubblico ministero
(2003-2006)
Le telefonate tra Rinaudo e Moggi – Rinaudo amico di Tonino Esposito – Esposito emissario della mafia della Val Susa – Rocco Lo Presti, il boss di Esposito – Lo Presti e l’Autostrada del Frejus – Rinaudo amico di Andrea Galasso – Galasso difensore del viceministro – Il viceministro e gli appalti Tav di Venaus – Galasso, Martinat e Procopio – Gli arresti di Esposito e Lo Presti – Rinaudo nell’inchiesta Moggi – Rinaudo pm disattento sulla ‘Ndrangheta – Procopio nel cantiere di Chiomonte – Rinaudo alla crociata contro l’opposizione al Tav
Le telefonate con Moggi
Alcune circostanze riguardanti l’attuale pm impegnato contro il movimento No Tav, Antonio Rinaudo, sono rimaste, fino ad oggi, nascoste. Amicizie e frequentazioni lo portano ad avere conoscenze cordiali in ambienti legati agli interessi economico-criminali in gioco sulla linea Torino-Lione, alla ‘Ndrangheta valsusina e all’estrema destra in doppiopetto inserita nelle lobby del Tav. Il complesso puzzle che abbiamo ricostruito produce uno squarcio sugli interessi criminali di quelle lobby nell’arco di vent’anni e anche più, ma anche sulla spregiudicatezza di certa magistratura torinese. È una storia che, per essere conosciuta nei dettagli – ed è importante conoscerla – ci riconduce indietro, fino alle Olimpiadi 2006, al piano regolatore di una metropoli come Torino, alla realizzazione dell’autostrada Torino-Bardonecchia e alla cementificazione dell’alta valle di Susa, per arrivare agli appalti per il Tav a Venaus, all’opposizione valligiana, all’occupazione militare della Maddalena, alla lottizzazione di mafie e partiti di 23 mld di denaro pubblico e alla persecuzione vergognosa di centinaia di persone – da parte del pubblico ministero Rinaudo e del suo team – per il fatto di opporsi a determinati interessi.
La documentazione prodotta mostra come la contrapposizione tra legalità e illegalità, sul piano dei grandi investimenti e delle grandi spartizioni di capitali, cada: il denaro e l’impresa illegali trovano schermo legale nel mondo dei partiti e nell’azione di governo, mentre l’azione repressiva della magistratura, selezionando gli obiettivi da colpire (perseguire alcuni settori della malavita o della politica a scapito di altri, concentrare tutte le proprie forze contro i fenomeni di insubordinazione sociale), si configura come ultimo dispositivo legale di tutela sostanziale degli interessi di una classe di investitori, costruttori e imprenditori che usano le tangenti, l’omicidio, l’intimidazione, l’accordo sottobanco e l’azione legale come tanti strumenti intercambiabili per raggiungere lo stesso scopo. In questa storia, che conduce al torrente Clarea, alla baita No Tav e allo scempio di uno dei luoghi più belli d’Italia, agli scontri con la polizia e agli arresti, fino alle celle di isolamento dove vengono rinchiusi i No Tav nelle carceri italiane, dobbiamo partire da molto lontano.
Dobbiamo incunearci per un attimo in ciò che potrebbe apparire più distante da simili vicende, irrilevante o distante da questo tipo di conflitti: il mondo del calcio; ma nella lunga e contorta fase della dismissione industriale e del saccheggio finanziario dell’area metropolitana torinese (dove alla continua apertura di cantieri pubblici si alterna l’investimento permanente nelle diverse dimensioni assunte dal fenomeno spettacolare) tutto si tiene. Il 24 febbraio 2005 i carabinieri intercettano una telefonata tra un pubblico ministero della procura di Torino, Antonio Rinaudo, e Luciano Moggi, direttore generale della Juventus. Rinaudo chiama Moggi, inutilmente, più volte; infine la segretaria del dirigente bianconero, Lella, glielo passa:
Rinaudo: Pronto?
Moggi: Ehii.
Rinaudo: Come stai?
Moggi: Come sta… eh io sto bene… lo sa perché c’ho il telefonino spento?
Rinaudo: Eh perché non vuoi che ti rompano le scatole.
Moggi: Perché mi massacrano con i biglietti del Real Madrid (ride) mannaggia.
Rinaudo: Eh, lo credo! Lo credo! Lo credo!
Moggi: Ma te la cosa migliore… mi chiami in sede e poi io ti richiamo subito… come si è
fatto ora… vedi non…
Rinaudo: Sì! Ma difatti, io che sono un Pubblico Ministero e so come vanno fatte le cose…
Moggi: Apposta (ride)
Rinaudo: Eeh… sono un po’ più intelligente degli altri!
Le telefonate tra Moggi e Rinaudo sono intercettate, in quei mesi, dal nucleo investigativo dei carabinieri di Roma su ordine della procura di Napoli, che indaga sugli illeciti sportivi compiuti da diverse società calcistiche, in particolare la Juventus. L’indagine è ancora segreta: il pubblico sportivo, il mondo del calcio e la popolazione italiana verranno a sapere di essa (che passerà alla storia come Calciopoli) più di un anno dopo, quando avverrà la chiusura delle indagini a carico di Moggi, direttore generale della Juve, Antonio Giraudo, suo vice, e molti altri patron e manager calcistici, oltre ad alcuni arbitri. La procura di Napoli, che ascolta Moggi per trovare prove dei suoi pilotaggi delle designazioni arbitrali da parte della Figc, scopre che il dirigente bianconero passa al telefono la maggior parte del suo tempo: per indicare ai designatori gli arbitri a lui graditi, ma anche per esercitare influenze e pressioni sul mondo giornalistico e coltivare amicizie nella magistratura e nella polizia, perché – come afferma lo stesso dirigente – “pallone uguale soldi e soldi uguale potere”.
Moggi, che ancora non sospetta di essere ascoltato, coltiva rapporti con i magistrati di Torino perché sa che la procura sta indagando, nella persona del pm Guariniello, su casi di doping sportivo; la Juventus ha tutto da guadagnare ad avere appoggi, anzitutto per ragioni informative, all’interno della procura: chi sa le cose in anticipo può prevedere meglio le proprie mosse. Ecco, ad esempio, cosa si dicono Rinaudo e Moggi:
Moggi: Senti un po’… come… ma quando ci vediamo una volta?
Rinaudo: Eh… dovevamo combinare… poi la cosa non… tu questo week end come sei messo?
Moggi: Eh io gioco in casa col Siena… noi ci vediamo con… Tonino e Andrea Galasso sabato sera alle otto e mezza a cena al Concord, che c’è la squadra… se tu vuoi vieni!
Rinaudo: Al Concord? Dov’è lì a…
Moggi: L’albergo!
Rinaudo: Eh! Ma dov’è ubicato?
Moggi: È lì vicino alla stazione a… in fondo a Viale… (inc.)… proprio davanti… vicino alla stazione Porta Nuova.
Rinaudo: Ah!
Moggi: Dai! Stiamo assieme… poi…
Moggi invita Rinaudo a cena con la squadra in un hotel di lusso, il Concord di via Lagrange 47, alla presenza di tali “Tonino e Andrea Galasso”, per recuperare un appuntamento che già da tempo (lo si evince dalle parole di Rinaudo) i due cercavano. Il magistrato, però, non è convinto da questa proposta perché preferirebbe che l’incontro restasse riservato:
Rinaudo: Ma io preferirei… non possiamo fare una cosa noi? Senza la Juve… senza la…
Moggi: La prossima settimana allora!
Rinaudo: Sii! La prossima settimana…
Moggi: Ci sentiamo allora, ascolta… io torno martedì mattina… ci sentiamo martedì e ci mettiamo d’accordo… un giorno della prossima settimana ci vediamo in un posto dove ti fa comodo a te…
Rinaudo: Eh! Ci vediamo… perché… cioè… non è che… che voglia fare il supponente e dire non vengo… perché… ma se siamo in (inc.)…
Moggi: Ma stiamo… stiamo assieme noi stai tranquillo!
Rinaudo: …non è meglio?
Moggi: Stai tranquillo! Ci sentiamo martedì in settimana e ci mettiamo d’accordo!
Non è per supponenza che Rinaudo vuole vedere Moggi in privato. Moggi sembra capirlo benissimo; l’appuntamento viene posticipato. Il pubblico ministero ha giusto una cosa da aggiungere, riguardo a ciò che ha già anticipato a Lella, la segretaria del dg della Juve:
Rinaudo: Uhm. Senti… senti una cosa… io ho chiesto a Morena, lì… a Lucia… come si
chiama… Se mi poteva dare oltre al mio posto qualche biglietto… al limite…
Moggi: Sì! Non ti preoccupare, con te ci penso io!
Rinaudo: Riesci?
Moggi: Stai tranquillo!
Rinaudo: (inc.)
Moggi: Per queste cose qui, io già me le memorizzo… e poi quando ci vediamo ci mettiamo
d’accordo!
Il collega Laudi
In realtà, sabato 26 febbraio (due giorni dopo) Rinaudo chiama nuovamente Lella e dice di aver cambiato idea: gradisce comunque presenziare alla cena con la squadra, e vuole portare con sé anche la moglie. Chiede addirittura un’auto della società bianconera a disposizione: vuole essere accompagnato, vuole che la società lo venga a prendere. L’incontro, quindi, avviene. Due giorni dopo, squilla un telefono presso le utenze del consiglio superiore della magistratura, a Roma. Risponde un certo Guglielmo: a chiamare è l’arbitro De Santis, a sua volta intercettato perché elemento chiave del giro di accordi sottobanco per ottenere arbitraggi favorevoli e far collocare gli arbitri giusti alle partite giuste. De Santis è l’arbitro di Moggi, quello che sempre e sfacciatamente favorisce la compagine bianconera. Ha avuto un’informazione. Sa che c’è un magistrato che sta indagando sugli arbitraggi di serie A, un pubblico ministero di nome Tatangelo, cui Guariniello ha affidato un nuovo troncone dell’inchiesta sportiva. È un’informazione che, naturalmente, doveva restare segreta. L’amico di De Santis lo aiuta a capire chi è questo Tatangelo, e in pochi secondi ha controllato i terminali:
Guglielmo: Senti allora, di Tatangelo ce ne stanno due. Uno è Tatangelo Augusto che fa il gip al Tribunale di Napoli. E l’altro è Marcello, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino.
De Santis: E allora è questo qua di Torino è. Sì me sa che è questo de Torino perché dice che sta insieme a Guariniello.
Guglielmo: Mmmm.. sarebbe da parlà co’ coso lì, come si chiama? Porca miseria come si chiama quello di Torino? Co’ Laudi.
De Santis: Ah, co’ Maurizio? Ho capito, vabbé allora ci posso… Ci parlo io direttamente co’ Maurizio.
“Co’ Maurizio”: Maurizio Laudi, classe 1948, procuratore aggiunto a Torino. Membro del pool creato da Gian Carlo Caselli negli anni Settanta contro la sovversione di sinistra, protagonista di innumerevoli processi contro i movimenti sociali e antagonisti, tra cui uno dei più inquietanti nel 1998: accusa tre occupanti di case di aver formato una “cellula terrorista” per colpire l’Alta Velocità in Val Susa. Due di loro moriranno suicidi in carcere quello stesso anno e, una volta morti, saranno assolti. Negli stessi anni in cui costruisce il castello accusatorio contro quei ragazzi, i cui nomi erano Sole e Baleno, Laudi inizia anche a ricoprire ruoli nella giustizia sportiva. Anni dopo, al tempo dell’incontro tra Moggi e Rinaudo al Concord (e della successiva telefonata di De Santis al Csm), Laudi è giudice sportivo per la serie A, la serie B e la Coppa Italia, ed anche lui non disegna i favori che il dg Juventus concede a chi gli è amico. 9 novembre 2004:
Lella: Poi, il dottor Laudi chiede quattro ovest-primo e due special. Io ho detto che non… che non sapevo se due potevamo darli… (inc.) che chiedevo a lei.
Moggi: Quattro ovest-primo va bene… uno special va bene… due mi sembrano troppi.
Lella: Uno vero?!
Moggi: Ce li abbiamo noi due special?
Lella: Sì… Sì, sì! Al momento sì.
Moggi: E diamoli ah!
Lella: Uhm… Ok!
Pochi giorni dopo si svolge Fiorentina-Bologna. È arbitrata da De Santis, che ammonisce i tre difensori del Bologna Petruzzi, Nastase e Gamberini: saranno così squalificati in vista del successivo incontro con la Juventus. Dice a Moggi Tony Damascielli, opinionista sportivo de Il Giornale, in una telefonata, il giorno stesso della partita: “…oh, comunque De Santis ha fatto il delitto perfetto, eh?”; e aggiunge: “C’abbiamo tre gio… tre difensori del Bologna fuori, tutti e tre squalificati”. A firmare il provvedimento di squalifica, in seguito alle ammonizioni di De Santis, è stato Maurizio Laudi: gioco di squadra.
Un amico nella ‘Ndrangheta
Ma torniamo a Rinaudo, che ci porterà ben più lontano – fino alla Maddalena di Chiomonte. I suoi rapporti con Moggi sono giudicati, nel rapporto dei carabinieri romani, “più stretti” di quelli che intrattiene il giudice Laudi. 2 febbraio 2005:
Rinaudo: Volevo ringraziarti per…
Moggi: (inc.)
Rinaudo: … quel pensiero di Natale… siete stati veramente gentili!
Moggi: È un pensierino… niente di particolare!
Rinaudo: Siete stati veramente gentili!
Moggi: Aspetto… aspetto che ci vediamo e ci sentiamo, ok?
Rinaudo: Grazie bello!
Il dg Juventus non deve sperticarsi: è il magistrato stesso (come Laudi del resto) che accorre a lui. Rinaudo sconfina anzi ampiamente nel patetico:
Rinaudo: Pronto?
Moggi: Antonio!
Rinaudo: Ma da… dove sei?
Moggi: Chi non muore si risente… manna…
Rinaudo: Mannaggia! Io t’ho cercato eh però… non è… eh! Eh!
Moggi: T’ho cercato eh!
Rinaudo: No! No! Io ti ho cercato più volte in società e l’ho lasciato detto alle tue segretarie! L’ultima volta l’altra settimana!
Moggi: Eh… ma io ero ammalato! Eh… ho avuto una settimana un po’ brutta di influenza…
Rinaudo: Uhm. (inc.)
Moggi: Quando ci vediamo un giorno?
Rinaudo: Eh! Non lo so, dobbiamo combinare una cena!
Moggi: Io mi vedo… mi vedo spesso con Tonino ma non ti vedo più te…
Rinaudo: Eh lo so… me lo ha detto eh! […]
Chi è questo “Tonino” cui Rinaudo dice di aver parlato, comune amico suo e di Moggi, già presente alla cena all’Hotel Concord? È Antonio Esposito, classe 1946, accusato di omicidio nel 1985, poi prosciolto. Pietro Dimo, 36 anni all’epoca, trafficante di droga per conto del clan dei catanesi e suo socio in una ditta di pulizie dell’autostrada del Frejus, ne fece il nome al processo per le tangenti Dc-Psi-Pci nella giunta torinese di Diego Novelli degli anni Ottanta. Il mandante, disse Dimo, era Francesco Froio detto Franco, ex parlamentare Psi, che così veniva descritto su un giornale valsusino nel 2002:
L’onorevole Froio, non è solo stato uno dei padri dell’autostrada, è stato il vero “padre padrone” della Sitaf. Froio è stato uno degli uomini più forti degli anni finali della Prima repubblica. Socialista della prima ora come il suo conterraneo Mancini, quando il Psi ebbe il presidente del Consiglio, Froio non era più in Parlamento, dove era stato dal 1972 al 1979, ma era uno degli uomini più potenti del sistema politico di quegli anni. Il vero braccio socialista dell’asfalto.
Alla Sitaf, l’azienda creata per la costruzione dell’autostrada Torino-Bardonecchia, per la quale verrà arrestato nel 1993 (accusato di tangenti per 300 milioni). Secondo Dimo, Froio aveva chiesto nel 1983 proprio a Tonino Esposito, l’amico di Rinaudo, di occuparsi dell’eliminazione di Adriano Zampini, faccendiere finito in carcere che aveva cominciato a parlare delle tangenti. Si tenne un incontro al bar San Carlo, disse il testimone, in cui Froio offrì cinquecento milioni di lire per l’omicidio, in un affare che comprendeva anche nuovi appalti per l’autostrada. I magistrati non gli credettero e il magnate del cemento e il suo sodale vennero assolti.
Questo negli anni Ottanta; ma nel 2005, quando l’autostrada valsusina è stata conclusa da quindici anni, Esposito siede all’elegante Hotel Concord con Rinaudo e ha ormai poco a che fare con i catanesi, perché è diventato elemento di spicco di un’altra organizzazione criminale, la famigerata ‘Ndrangheta della Val Susa; è infatti l’emissario torinese del famoso boss di Bardonecchia Rocco Lo Presti, che lo chiama “O’ Americano” per il suo stile di vita esagerato e i suoi continui viaggi a Cuba. Esposito è da tempo amico personale di Rinaudo, al punto che già nel 2003 la voce del pm era stata intercettata sull’utenza di Esposito dall’arma dei carabinieri. Quell’indagine non c’entrava con il calcio, ma con gli appalti e l’usura; e mai avrebbe pensato, il pm e collega di Rinaudo Antonio Malagnino, di scoprire che un uomo come Esposito, che concordava al telefono direttamente con Lo Presti i tassi di usura delle sue vittime a Torino, parlava anche con un pubblico ministero della sua stessa procura.
L’inchiesta era partita nell’ottobre del 2003. I dirigenti dell’Agenzia per Torino 2006 avevano ricevuto una lettera a testa con un proiettile calibro 10. Poi Tonino Esposito si era presentato a uno di essi con strane richieste, allusioni alle minacce ricevute e ambigue offerte d’aiuto. Il telefono di Esposito fu allora messo sotto controllo, ed è in quella fase che Malagnino scoprì l’amicizia tra il mafioso e il pm, oltre a un enorme complesso di affari illegali legati all’usura e alla compravendita di commesse pubbliche e appalti.
Nessuno, in procura, nel 2003, ritenne necessario sollevare Rinaudo dall’incarico di pubblico ministero. Anzi: due anni prima gli era stata affidata persino un’indagine su fatti legati alla ‘Ndrangheta, e ne resterà nonostante tutto il titolare. È un’indagine è delicata, che tratta di un giro di affari illegali tra la Germania, l’Italia e il Marocco, con 65 indagati, molti dei quali appartenenti alle ‘ndrine calabresi. Proprio nei giorni in cui la sua voce veniva intercettata al telefono con Esposito, Rinaudo firmò la chiusura di quelle indagini (18 giugno 2003) e non poté non evidenziare forti indizi di colpevolezza; ma due anni dopo, quando si incontrò con Esposito all’Hotel Concord, il fascicolo era ancora nel cassetto, e per nessuno dei 65 indagati era stato chiesto il rinvio a giudizio…
Lo stronzo di Bardonecchia
L’organizzazione finalizzata all’usura cui apparteneva Esposito mentre andava a prelevare Rinaudo a casa per portarlo da Moggi, aveva una “cupola” divisa tra la Val Susa e Torino: al vertice Rocco Lo Presti, il “padrino” di Bardonecchia, e i nipoti Luciano e Giuseppe Ursino; alla base decine di malavitosi impegnati, a Torino, a riscuotere gli interessi dei prestiti in nero. Della cupola faceva parte però lo stesso Esposito, che coordinava l’attività usuraria nel capoluogo e faceva da tramite tra Lo Presti e i suoi sottoposti e tra Lo Presti e le vittime, che erano decine e decine: commercianti, albergatori, semplici cittadini. I suoi uomini non esitavano, per sollecitare i pagamenti, a fare esplicitamente il nome del boss a scopo terroristico; e quando le vittime parlavano, in lacrime, con i propri parenti e amici dei loro debiti e delle minacce, si riferivano a Rocco Lo Presti come “lo stronzo di Bardonecchia”.
La scia di violenza e devastazione che, dagli abusi edilizi degli anni Sessanta, conduce al tentativo di costruire in Val Susa l’alta velocità, ha una continuità, un’origine e un riferimento proprio nell’organizzazione capeggiata da Rocco Lo Presti, nato a Marina di Gioiosa Jonica e arrivato a Bardonecchia, nell’alta valle, nel lontano 1963, dove fu mandato al confino come accadeva in quel periodo a molti altri “malavitosi” meridionali. Qui aveva trovato i fratelli Ciccio e Vincenzo Mazzaferro, elementi criminali di maggior peso emigrati a loro volta dalla Calabria, e vi si era imparentato, sposando la figlia di uno dei due. Insieme avevano intessuto un sistema di affari che aveva come sfondo il tipico ramo della modernizzazione mafiosa degli anni Sessanta, che dall’agricoltura compie il salto verso l’edilizia, e dai campi coltivati passa alla città. Anno dopo anno, lotto dopo lotto, uno dei luoghi più belli della valle fu quindi completamente cementificato dalle imprese riconducibili ai clan calabresi.
Le autorizzazioni arrivavano dal comune di Bardonecchia con le stesse modalità proprie di Reggio Calabria o Palermo: i sindaci Dc del paesino settentrionale non si chiamavano Vito Ciancimino, ma ad essere protagonista politico era sempre e comunque il cemento. In cambio soldi pubblici, nessuna conflittualità operaia, perché Lo Presti e i Mazzaferro non amavano le pretese degli operai, e tantomeno le organizzazioni operaie: nulla doveva sfuggire al loro controllo e i sindacati non erano ben visti nei cantieri edili dell’alta valle. Un imprenditore di Bardonecchia, Diano De Matteis, dichiarò che Lo Presti si era rifiutato di appoggiare un candidato sindaco, Mario Corino (che pure era della Dc) eccependo che gli aveva dato noie quando era sindacalista della Cisl. La commissione antimafia che visiterà il territorio nel 1974 stabilirà che l’80% della manodopera edile assunta in alta valle non aveva, guarda caso, alcuna tutela o garanzia giuridicamente riconosciuta.
Proprio quella commissione scrisse che esisteva una ‘ndrina a Bardonecchia (fatto che appare normale oggi, ma che per l’epoca sembrava molto strano) e d’altra parte a quell’epoca lo strapotere di Lo Presti in alta valle era già totale, se è vero che anche i carabinieri della zona (come testimonieranno successive indagini) accettavano di buon grado le sue regalie e gli mostravano reverenza e rispetto. Lo Presti e i Mazzaferro puntavano a un vero e proprio monopolio capitalistico sui cantieri valsusini: per non avere concorrenza con altri attori del territorio (spesso piccole ditte a conduzione familiare di lavoratori della valle, che cercavano commesse dai comuni) ricorrevano ai picchiatori. È in questo periodo che alcuni membri della famiglia Lazzaro da Bronte furono arrestati (1973) per aver aggredito due operai che rifiutavano di lavorare nei cantiere sotto l’egida della loro azienda. Poi, il 23 maggio 1976, Mario Ceretto, un imprenditore di Cuorgné, nel Canavese, che si rifiutava di sottomettersi, fu rapito e ucciso. Il tribunale condannò Lo Presti a 26 anni per il sequestro e l’omicidio, ma la cassazione annullò tutto.
Le cose, d’altra parte, stavano cambiando. Il giro degli affari stava diventando più grosso. Se i cugini meridionali venivano foraggiati dai lavori infiniti sulla Salerno-Reggio Calabria, i trapiantati in Val Susa poterono usufruire dei finanziamenti miliardari per la costruzione dell’A32: la Torino-Bardonecchia, detta anche autostrada del Frejus. Come tutte le faraoniche colate di cemento inventate nell’Italia repubblicana, l’opera è controversa e ne vengono messe in dubbio le finalità: in valle esistono già due statali quasi parallele (il raddoppio era avvenuto durante la guerra, per necessità militari) e una ferrovia. La costruzione dell’autostrada prevede un intervento molto invasivo sul territorio, con la costruzione di tunnel alpini in grado di provocare importanti dissesti ambientali e idrogeologici, che puntualmente si verificheranno. I valligiani vedono inoltre nel progetto un viatico allo spostamento indiscriminato del traffico su gomma sul versante valsusino e verso il Frejus, con effetti negativi sulla vita e sull’economia della valle.
Si creano i comitati contro la realizzazione dell’autostrada. La ferrovia è ancora sottoutilizzata, le merci potrebbero viaggiare tranquillamente su rotaia, magari promuovendo migliorie tecniche sulla tratta e sui mezzi che la percorrono, che sarebbero anche meno costosi per l’erario pubblico; ma, come denunciano i valligiani, l’obiettivo del governo non è il commercio: l’apertura dei cantieri è lo scopo in sé, i grandi costruttori pretendono il denaro pubblico, e l’impresa illegale è al comando nei flussi capitalistici del settore delle costruzioni. Il gioco non consisteva più, in quegli anni, soltanto nel farsi elargire somme astronomiche per la realizzazione di opere del tutto strumentali. Siamo ormai negli anni Settanta: si trattava di investire anche a scopo di riciclaggio, negli appalti pubblici, i capitali ricavati dal narcotraffico internazionale. Il clan Mazzaferro-Lo Presti ambiva agli appalti per l’A32 e, nel 1976, li ottenne.
I comitati si batterono con tenacia, ma ebbero contro la stampa e la politica al completo: gli anni dei lavori sono gli anni Ottanta, quelli delle tangenti torinesi che coinvolgono Dc, Psi e Pci. Il capo indiscusso del progetto autostrada era, in qualità di dirigente della Sitaf, Franco Froio, che proprio durante i lavori in val Susa conobbe Tonino Esposito e il suo collega, il mafioso catanese Pietro Dimo. Quando Adriano Zampini, arrestato, farà il nome di Froio nel giro di corruzione legato ai rapporti tra appalti e politica, quest’ultimo andrà a processo e, nel 1985, Dimo dichiarerà:
Fu […] Franco Froio a proporre di far uccidere Zampini in cambio di duecento milioni. A quell’epoca, nel 1983, io ero contitolare di un’impresa di pulizie, la Pultorino. Una mattina il mio socio, Antonio Esposito, venne e mi disse: “Franco è disposto a pagare cento, duecento milioni per far ammazzare Zampini”. […] Conobbi Froio nel 1982 quando entrai in società con Esposito. […] Avevamo un contratto da cinqucento milioni l’anno per la pulizia del tunnel dell’autostrada del Frejus […]. Froio era arrabbiato, diceva che Zampini era un delinquente, che bisognava farlo fuori […].
Il pm Vitari, tuttavia, che pure rappresentava la procura e quindi l’accusa nel processo, ipotizzò che le parole di Dimo potessero nascondere un complotto e mise subito in dubbio la sua testimonianza, che infine sarà ritenuta inattendibile, con grande e comprensibile sollievo di Tonino Esposito e del suo ipotetico mandante politico. In quel momento Rinaudo lavorava già per la procura di Torino con Vitari e, quale gregario di Gian Carlo Caselli e Maurizio Laudi, concentrava le attenzioni su tutt’altre vicende: quelle in cui, guarda caso, le deposizioni dei “pentiti” erano tenute in grande considerazione.
Lo Presti, nel frattempo, intesseva le manovre necessarie (1978-1986) per dare il sacco all’ultimo spazio non edificato del comune di Bardonecchia: Campo-Smith. Froio restò dominusincontrastato degli appalti per l’autostrada nell’interesse dei partiti e degli ambienti a lui vicini. Quando il procuratore capo dell’epoca, Bruno Caccia, fu ucciso dalla ‘Ndrangheta nel 1983 perché “con lui non si poteva parlare” (così dichiarò il boss Belfiore al processo), le indagini sull’omicidio lasciarono emergere “relazioni pericolose” con alcuni magistrati torinesi, che avevano con loro una “consuetudine di rapporti” (Rapporto Cnel 2010). “Il clan dei calabresi aveva purtroppo ottenuto in quegli anni a Torino la confidenza, la disponibilità o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati” (Ibidem).
All’assalto di Venaus
Le amicizie che Antonio Rinaudo ha coltivato in ambienti connessi ai futuri cantieri del Tav, tuttavia, non si limitano soltanto agli ambienti criminali, ma investono anche a quelli politici. Quando sedeva al Concord con Moggi, ad esempio, si trovava in compagnia anche di un altro personaggio, che il rapporto del nucleo investigativo dei carabinieri di Roma definisce, al pari di Esposito, “comune amico” tra Moggi e il magistrato. Il dg Juve lo ha citato in una telefonata con Rinaudo: “Ci sono anche Tonino e Andrea Galasso…”. Andrea Galasso, classe 1932, deputato Msi negli anni Settanta, è il capostipite di una famiglia di avvocati molto nota negli ambienti dell’estrema destra torinese. Il fratello Ennio era stato al centro di una polemica giornalistica nel 2002 per aver partecipato, da consigliere regionale, a una commemorazione durante la quale era stato fotografato all’atto di salutare romanamente la sepoltura di un camerata. Nulla di strano: gli anni della cena al Concord sono gli anni in cui Alleanza Nazionale spadroneggia nelle istituzioni a ruota del consenso elettorale berlusconiano.
Se Galasso ha in comune con Rinaudo il rapporto con il malavitoso Tonino Esposito, Esposito deve molto, dal canto suo, all’avvocato amico di Rinaudo: fu proprio Galasso infatti – guarda caso – a difendere negli anni Ottanta il manager dell’autostrada del Frejus Franco Froio dalle accuse riguardanti il progetto di omicidio di Adriano Zampini, che aveva parlato ai magistrati delle tangenti negli appalti; secondo le testimonianze del “pentito” Dimo, Froio avrebbe commissionato proprio a Esposito l’assassinio: l’attività professionale dell’amico “politico” di Rinaudo, l’ex deputato neofascista Galasso, aveva salvato da una possibile condanna per omicidio l’amico “criminale” del pubblico ministero (sempre e rigorosamente per vicende legate ad appalti miliardari e alle grandi opere in Val Susa). Questo, tuttavia, è anche per Andrea Galasso il passato: nel presente è l’avvocato di Ugo Martinat, viceministro dei lavori pubblici in carica nel governo Berlusconi, che sarà di lì a poco indagato per compravendite di appalti in tutta la provincia di Torino e, in particolare, per la spartizione dei soldi del programmato cantiere Tav di Venaus.
Se i rapporti di Galasso con Moggi e la Juventus sono giustificati dal suo ruolo di difensore di Antonio Giraudo, numero due della società (nei giorni dell’incontro con Rinaudo impegnato con il suo capo a truccare il campionato di serie A grazie ad arbitri come De Santis) il rapporto di Galasso con Martinat va molto al di là del mero ruolo di difesa legale: il legame che li unisce è tutto politico e, anche stavolta, affonda le sue radici negli anni Settanta, quando Galasso era deputato del Msi e Martinat era picchiatore di riferimento dei missini torinesi. Il 16 febbraio 1975, per fare solo un esempio, Martinat si imbatté, in via Cernaia (accompagnato da altri tre camerati: Roggero, Kristen e Massano), in quattro operai e aprì il fuoco contro di loro. Per fortuna non aveva una gran mira e le conseguenze non furono irreparabili.
Vent’anni dopo, nel 1994, quando diventò deputato di Alleanza Nazionale, fu nominato questore alla camera dei deputati e i suoi primi atti istituzionali furono volti a imporre uomini-chiavi ai vertici delle società che hanno in gestione la Torino-Bardonecchia, e non a caso a capo di una di queste, la Stef, arriverà ben presto Vincenzo Procopio, suo uomo di fiducia. I fili della tavolata cui siede Rinaudo, come tutti i fili di potere, conducono sempre gli uni agli altri, e – in questo caso – sempre alla Val di Susa. I suoi amici sanno che per fare denaro ci vogliono capitali, e l’unico ente che può fornire capitali con un pezzo di carta è lo stato: le grandi opere lanciate da Berlusconi nel 2001 sono questo tipo di risposta ai vecchi-nuovi appetiti delle mafie imprenditoriali e dei partiti (Pd incluso, come vedremo). Nel 2001 Martinat aveva presentato le liste di AN per le elezioni regionali; vi aveva inserito Ennio Galasso, fratello di Andrea, che sarebbe diventato consigliere regionale. Martinat, invece, nuovamente eletto alle politiche, sarà appunto nominato viceministro ai lavori pubblici da Berlusconi sotto il ministro Pietro Lunardi, di Forza Italia, che controllava attraverso una prestanome (sua figlia) la Rocksoil, azienda in lizza per gli appalti Tav in Val Susa.
Se Lunardi lavorava per sé stesso, tuttavia (è un imprenditore), il suo vice Martinat (che era un “politico”) non lavorava meno alacremente per il suo partito. Vincenzo Procopio (definito nelle intercettazioni il “cassiere” del viceministro), fondò infatti una nuova società di progettazione, la Sti, attraverso cui riceveva denaro in cambio di appalti per lavori pubblici a Torino, in cintura e in Val Susa, e lo girava al viceministro, che a sua volta girava tutto alle casse di Alleanza Nazionale. Tutto questo avveniva negli stessi anni (2001-2003) in cui Tonino Esposito metteva in piedi il giro torinese dell’usura per conto di Rocco Lo Presti e Rinaudo veniva intercettato per la prima volta al telefono con il mafioso. Quando, successivamente, nel 2005, Rinaudo andrà a cena con Esposito e Galasso su invito di Moggi, la direzione investigativa antimafia avrà già pubblicato un rapporto (16 luglio 2004) in cui veniva segnalata l’acquisizione del lotto 1 per il tunnel di Venaus da parte della Rocksoil, riconducibile a Lunardi. Lo stesso rapporto segnalava le telefonate che proprio Vincenzo Procopio stava effettuando, su interesse di Martinat e di Alleanza Nazionale, per organizzare il sistema di turbativa d’asta generalizzata verso chiunque volesse ottenere appalti per quella e altre opere pubbliche.
Due mesi dopo la cena tra Rinaudo e Galasso, infatti, quest’ultimo assumerà le difese di Martinat (9 maggio 2005) nel procedimento – intentato dalla stessa procura dove Rinaudo è pm! – per abuso d’ufficio e turbativa d’asta in tutta la provincia di Torino e in Val Susa. L’emergere di interessi sporchi in relazione al promesso disastro ambientale di Venaus e della Val Cenischia (diversi scienziati hanno sottolineato l’alta presenza di amianto nella montagna che Lunardi e Martinat vogliono perforare) non fermerà tuttavia la lobby del Tav. Il 31 ottobre 2005 i tecnici della Cmc, la cooperativa in quota Pd che ebbe ed ha tuttore la fetta maggiore di appalti, tentarono di raggiungere un sito nei pressi di Monpantero (Val Cenischia) per installare un cantiere geognostico. Accadde però l’imprevisto: centinaia tra abitanti della Val Susa e ragazzi arrivati da Torino bloccarono la polizia al ponte del Seghino. Già da alcuni mesi in Val Susa stava accadendo qualcosa di strano: migliaia di persone scendevano in strada al grido “No Tav No Mafia” e promettevano che, dopo la sconfitta sull’A32, la valle non avrebbe permesso un ulteriore scempio interessato sul suo territorio.
A fine novembre migliaia di persone si alternarono nella Libera Repubblica di Venaus, un presidio permanente contro l’inizio dei lavori, che venne sgomberato con particolare violenza dalla polizia agli ordini del vicequestore Salvatore Sanna nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2005. Il 7 dicembre, però, i valsusini bloccarono la ferrovia, tutte le statali e l’autostrada. Il confine internazionale con la Francia restò chiuso per la mobilitazione della valle, e l’8 dicembre migliaia di persone forzarono o aggirarono i blocchi delle forze dell’ordine, riconquistando gli spazi destinati al cantiere. All’interno del governo Gianni Letta intervenne per bloccare la linea dura di Lunardi, anteponendo agli interessi del ministro e del suo vice l’esigenza di non provocare turbamenti dell’ordine pubblico a ridosso della campagna elettorale del 2006. Il progetto Tav Torino-Lione venne temporaneamente sospeso. Il 17 dicembre migliaia di persone sancirono con una manifestazione a Torino l’inedita e sia pur parziale vittoria di una popolazione locale contro uno scempio ambientale voluto dalle casse dei partiti e dalle imprenditorie criminali.
“… so’ tutti la stessa pasta, so’, ‘sti magistrati!”
La vittoria del movimento No Tav, nel 2005, sembrò essere un brutto presagio per Rinaudo: il 2 maggio 2006, un anno dopo la cena al Concord, si chiusero le indagini di Calciopoli e l’oggetto dell’ammirazione e della riconoscenza del magistrato, Luciano Moggi, finì sulle prime pagine di tutti i giornali, simbolo della corruzione sportiva e dell’immane presa in giro di tutti gli appassionati di calcio. Ma andò anche peggio: il grande potere calcistico, impersonato da Moggi ma non solo, mostrò all’Italia i suoi addentellati nella politica, nei ministeri, nelle questure e nelle procure, e sui giornali finì lo stesso Rinaudo. Il 18 maggio La Repubblica dedicò un’intera pagina alle telefonate tra Rinaudo, Laudi e Moggi, anche se evitò accuratamente di approfondire i legami tra il pm ed Esposito “O’ Americano”, e non riferì i legami dell’avvocato Galasso con la lobby del Tav. Il 6 novembre, infine, Antonio Malagnino chiuse le indagini sul giro torinese dell’usura. L’amico di lunga data di Rinaudo, Esposito, finì in prigione: prima a Fossano, poi a Verbania. Anche l’amico del suo amico, il boss Lo Presti, finì dietro le sbarre.
Anche in questo caso, la procura di Torino non ritenne fosse necessario sollevare Rinaudo dal suo incarico di pubblico ministero: la sua frequentazione di un mafioso già accusato di omicidio, coinvolto negli appalti di Torino 2006 e a capo del sistema torinese dell’usura, non provocò, a quanto pare, grandi turbamenti. Nonostante i favori chiesti e ottenuti da Moggi e le sue relazioni pericolose con la società bianconera (all’apice delle corruzioni sportive) e nonostante il legame personale con un emissario della ‘Ndrangheta, accertato in due diverse inchieste (usura 2003 e calciopoli 2005) Rinaudo continuerà a sedere sullo scranno di magistrato negli anni che seguiranno. Anche i media non si accaniscono, del resto, insistendo maggiormente sui legami tra Moggi e l’allora più noto giudice Laudi. Una lontananza dalle cronache che Rinaudo manterrà fino al 2011 quando, su incarico di Caselli, diventerà uomo di punta della battaglia giudiziaria contro gli oppositori all’alta velocità in Val Susa.
Nel frattempo sia il boss dell’amico Esposito, Lo Presti, sia l’assistito dell’amico Galasso, Martinat, sono morti. Quando Rinaudo presidierà il cantiere Tav di Chiomonte assieme alla polizia, nella notte di violenze del 19 luglio 2013, gli appalti della Maddalena erano già stati affidati al portaborse di Martinat, Vincenzo Procopio (pur fresco di condanna in primo grado per gli appalti all’epoca di Venaus) e alla famiglia siciliana che era stata indicata dall’ex sindaco di Bardonecchia Mario Corino come prestanome del clan Lo Presti per l’A32, i Lazzaro. Ai vecchi maneggioni si sono sostituiti i vecchi portaborse, nuovi accaparratori. Nove giorni dopo le accuse di terrorismo, il 9 agosto 2013, Rinaudo si dedica invece a un fascicolo che ha lasciato riposare per tanto tempo: quello sul giro d’affari legato alla ‘Ndrangheta che gli era stato affidato nel 2001 e per cui aveva chiuso le indagini nel 2003. Quel giro di denaro illegale tra la Germania, l’Italia e il Marocco in cui compariva, tra gli altri, il nome di Rocco Varacalli, affiliato alla ‘Ndrangheta e all’epoca non ancora “pentito”.
Quello tra la firma della conclusione indagini e quella del rinvio a giudizio è l’unico momento dell’iter processuale in cui soltanto il pm può accelerare o rallentare i tempi: sua deve essere la firma di conclusione indagini, sua la firma di richiesta di rinvio a giudizio. Il tempo medio è alcuni mesi, anche se, come vedremo, i tempi di Rinaudo, per i No Tav, si accorceranno ulteriormente; ma il procedimento 19468/01 R.G.N.R., 6616/02 R.G. G.I.P. sulla ‘Ndrangheta, affidato a Rinaudo, giace inerte per dieci lunghissimi anni, rendendo certa la prescrizione per i sessantacinque indagati. Ci associamo alla loro gioia di quegli indagati per aver avuto un pm così; del resto è giusto, perché anche lui, che pure era amico di Tonino Esposito “O’Americano”, l’uomo di Lo Presti a Torino, non ne ha mai avuto conseguenze, se non apparire in verità (tanto al mafioso quanto al comune amico Luciano Moggi) un gran rompicoglioni. Lo si evince da un’intercettazione del 26 febbraio 2005, in cui Antonio Rinaudo chiamò Tonino per essere scarrozzato da Lucianone, contrariamente a quanto aveva annunciato: il malavitoso non si tenne e, al telefono con quest’ultimo, disse un’involontaria parola di verità:
Moggi: Stasera ci vediamo!
Tonino: Sì, ma mi ha telefonato Rinaudo… dice che viene anche lui… gli hai detto…?
Moggi: Eh, no! Io glielo avevo detto!
Tonino: Ah!
Moggi: Mi disse che non poteva venì!
Tonino: Eh!
Moggi: Poi ha lasciato detto alla segretaria mia, contrariamente a quello che mi aveva detto, può venire!
Tonino: Ah! Perché mi ha telefonato e mi ha detto se lo… “Vienimi a prendere”, “Fammi ‘sta cortesia”… Gli ho detto: “Va beh, non c’è problema!”.
Moggi: È ‘na rottura di palle!
Tonino: Ehh, va beh… No, ma non fa niente! Tanto questi qua so’ tutti la stessa pasta, so’, ‘sti magistrati!
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Nota
Le prime telefonate intercettate tra Rinaudo e Tonino Esposito hanno trovato eco giornalistica inParte dalle pallottole al Toroc la pista che porta alla banda, La Repubblica, 7 novembre 2006. Il ruolo di Esposito quale emissario di Lo Presti e il suo coinvolgimento nell’inchiesta sulla pianificazione dell’omicidio Zampini è descritto in La ‘cupola’ degli usurai, La Repubblica, 7 novembre 2006, Usura, Lo Presti patteggia tre anni e non va in carcere, La Repubblica, 4 maggio 2007 e nella Relazione del commissario straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, 15 novembre 2007; i rapporti tra Rinaudo, Moggi, Esposito e Galasso, e i favori di Moggi a Laudi, in Intercettazioni, anche i giudici nelle telefonate di Moggi, la Repubblica, 18 maggio 2006. Il testo integrale della Relazione alla procura di Napoli sul sodalizio criminale facente capo a Moggi Luciano, redatto dal nucleo investigativo dei carabinieri di Roma, in cui sono contenute le intercettazioni riportate tra Moggi ed Esposito, Moggi e Rinaudo, la segretaria di Moggi e Laudi, ed altre, è consultabile al sito rubentus.it.
La vicenda del tentato assassinio Zampini nel cui processo furono accusati Froio ed Esposito è sommariamente narrata in Sì, avevo l’ordine di uccidere Zampini. Compenso: 500 milioni, in La Repubblica, 20 febbraio 1985, Un ex deputato socialista voleva far uccidere Zampini?, La Provincia, 20 febbraio 1985, Ci disse: uccidete Zampini, L’Unità, 20 febbraio 1985. Cfr. ancheL’autostrada del Frejus è merito mio, Luna Nuova, 24 dicembre 2002 e Supermazzetta, in cella Froio (autostrada del Frejus), Corriere della Sera, 29 giugno 1993. Il rapporto tra Martinat e Galasso nel procedimento per gli appalti di Venaus è documentato tra l’altro in Martinat, indaghiamo su di lei, La Repubblica, 3 maggio 2005; gli appalti illegali per il Tav e la turbativa d’asta da opera di Procopio e Martinat in Un ministro, il suo vice e quei microfoni indiscreti, La Repubblica, 16 dicembre 2004, Tangenti ad alta velocità, Diario, 16 dicembre 2005; la Sentenza della terza sezione penale del tribunale ordinario di Torino nei confronti di Procopio Vincenzoper le sue attività in favore di Martinat, deceduto all’epoca del pronunciamento (procedimento 2198/09 R.G. Tribunale), è consultabile al sito lyonturin.eu.
I furbetti del cantierino
Partiti, mafie e appalti da Venaus a Chiomonte
(2006-2011)
Lazzaro prestanome di Lo Presti? – I Lazzaro nel Canavese – Ferdinando Lazzaro in carcere – Osvaldo Napoli e la “talpa” in procura – Tonino Esposito minaccia Procopio – Rinaudo al telefono con Esposito – Procopio e Lunardi – I Lazzaro e Bruno Iaria – Giovanni Iaria nel Canavese – Iaria e il procuratore di Ivrea – Claudio Martina a casa di Iaria – Bertot e Porchietto al bar della ‘Ndrangheta – Bertot e Iaria – Il patto politica-‘Ndrangheta su Tav e cantieri – Il boss De Masi appoggia Fassino – Scontri in valle per i sondaggi – Ltf e Procopio condannati in primo grado – Ltf firma il contratto Tav con Lazzaro e Martina – I No Tav respingono Lazzaro e la polizia – Rinaudo indaga i No Tav – Nasce la Libera Repubblica della Maddalena.
L’ascesa dei Lazzaro
Quando Rocco Lo Presti, storico boss della Val Susa, venne arrestato il 6 novembre 2006, era passato un anno e mezzo dalla cena che Luciano Moggi aveva organizzato alla presenza del suo emissario a Torino, Tonino Esposito, e il futuro pm d’assalto contro il movimento No Tav, Antonio Rinaudo. L’arresto di Lo Presti segnò la fine di un’epoca nella storia della ‘Ndrangheta valsusina e torinese. Tale trasformazione era già iniziata molto prima, il 3 giugno 1993, quando il sindaco di Bardonecchia, Alessandro Gibello (Dc), aveva firmato l’ultima autorizzazione a edificare per il clan di Lo Presti, al fine lasciargli deturpare l’ultimo territorio rimasto verde sul demanio comunale, nell’area denominata Campo-Smith. Le ditte facenti capo al boss furono beneficiarie degli appalti attraverso prestanome, com’era già avvenuto con l’autostrada del Frejus, conclusa nel 1990.
Un anno dopo l’investitura istituzionale per l’edificazione di Campo-Smith, tuttavia, la procura di Torino indagò il sindaco, alcuni funzionari del comune e i carabinieri di Bardonecchia (si era in pieno clima Tangentopoli) per favoreggiamento e collusioni decennali con il padrino dell’ormai famosa “mafia della Val Susa”. Lo Presti sarà condannato a sei anni per associazione mafiosa nel 2002, ma l’istanza d’appello giacerà dimenticata nei cassetti della procura, permettendogli quella libertà che utilizzerà per mettere in piedi il giro d’usura a Torino grazie a Tonino Esposito. Il vecchio boss sperava così di non attirare le attenzioni della procura, spostando i propri interessi a Torino. Si sarebbe servito, come luogotenente, dell’amico del pm Rinaudo.
Nel 2006, conclusa la grande spartizione per i giochi olimpici, Lo Presti finì però, nuovamente, sotto i riflettori della stampa, con le manette ai polsi proprio per il giro di usura, che fu scoperto dal pm Malagnino (che proprio durante quella indagine, per primo, scoprì il legame tra Esposito e Rinaudo. Lo Presti, vecchio e malato, uscì allora definitivamente di scena. I suoi alleati storici, i Mazzaferro, erano a loro volta, da tempo, fuori gioco: Vincenzo è in carcere per narcotraffico e Ciccio è stato assassinato in una faida nel 1993. Quando la magistratura indaga su Campo-Smith, tuttavia, l’ex sindaco di Bardonecchia Mario Corino rivela alla stampa (è il 6 ottobre 1994) che i prestanome per i Mazzaferro-Lo Presti per l’A32 furono i Lazzaro, la famiglia di Bronte (un piccolo centro della provincia di Catania) emigrata a Susa, che già negli anni Settanta era stata al centro di violenze occorse in valle nei confronti di operai e aziende rivali. Il rapporto Cnel del 2010 ricostruisce così la situazione nel torinese prima degli anni Novanta: “Prima che intervenissero i magistrati c’era stata un’alleanza tra famiglie legate alla ‘ndrangheta calabrese e famiglie legate alla mafia siciliana, in particolare a quelle del catanese, che era riuscita a monopolizzare il traffico di sostanze stupefacenti e le attività estorsive in danno di commercianti ed operatori economici”.
Nel 1992 Benedetto Lazzaro – il capostipite della famiglia – fu arrestato per reati contabili; poi, nel 1993, finì sotto inchiesta proprio per i 13 miliardi di lire ricevuti per i lavori dell’autostrada Torino-Bardonecchia. Sono gli anni in cui, dopo quarant’anni di devastazione ambientale da parte dei boss, e nell’ambito dell’esigenza dello stato di rifarsi un’immagine dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, il presidente Scalfaro impone lo scioglimento per mafia del comune di Bardonecchia, primo caso in assoluto nel nord Italia (1995). Ma già alla fine degli anni Novanta, non risultando coinvolti direttamente, per ciò che appurò la magistratura, nelle faide e nel narcotraffico, i Lazzaro gestivano il loro piccolo impero nei cantieri della valle pressoché indisturbati. Il padre Benedetto lasciò allora il posto al figlio Ferdinando, secondo un tipico avvicendamento da anni Novanta in cui in primo piano emerge una generazione dall’aspetto più rispettabile, da “colletto bianco”. Ferdinando arriva ad allargare il giro d’affari della famiglia anche al Canavese, l’area settentrionale della provincia di Torino, a nord della Val Susa: nel 1999 la Regione Piemonte offre ai Lazzaro ben 1.5 mld di lire per la ristrutturazione di alcuni immobili nel comune di Agliè.
Anche Lo Presti e i Mazzaferro avevano avuto a che fare con quest’area, se è vero che l’imprenditore Mario Ceretto, del cui omicidio era stato accusato proprio Lo Presti, proveniva da Cuorgné. Ma soprattutto, a Cuorgné era presente da tempo un altro affiliato alla ‘Ndrangheta, Giovanni Iaria, naturalmente imprenditore edile e stretto amico di Ciccio Mazzaferro. L’attività di Iaria traduce al meglio il carattere squisitamente di classe dell’attivita dell’organizzazione: tutti gli imprenditori del Canavese di rivolgevano a lui per ottenere mano d’opera a basso costo, poiché la violenza di cui poteva disporre l’organizzazione era anzitutto una minaccia persistente contro qualsiasi rivendicazione operaia. Una forma di violenza cui non erano certo estranei i Lazzaro, inquisiti più volte negli anni Settanta per strane “risse” e “pestaggi” contro valligiani e operai, e il cui capofamiglia, Benedetto, finì proprio in un’inchiesta sul caporalato. L’attività di Iaria nel Canavese per conto della ‘Ndrangheta era pervasiva: coltivò rapporti così stretti con il procuratore di Ivrea che quest’ultimo, una volta scoperto, fu costretto a dimettersi dalla magistratura.
I Lazzaro, dopo l’appalto nel Canavese, creano un cartello illegale che copre tutta l’area di Torino e la Val Susa: da Torino ad Avigliana, passando per Rosta e Sant’Ambrogio, un paesino che subirà una speculazione edilizia vergognosa, con annesse truffe alle famiglie che acquisteranno le case, e che sarà perciò segnato, nella diceria popolare, dalla triste e non meritata fama di paese “della mafia valsusina”. Le commesse pubbliche che i Lazzaro e i loro soci riescono ad ottenere grazie al cartello-ombra hanno il valore di decine di miliardi di euro. Le riunioni si tengono a Buttigliera Alta, nella bassa Val Susa, più precisamente nella sede della Escavazioni Valsusa. Il 31 maggio 2002, però, Ferdinando Lazzaro viene arrestato assieme a undici imprenditori coinvolti nel cartello.
Interessante è che i magistrati che hanno ordinato gli arresti siano costretti anche ad aprire uno scomodo fascicolo “giudiziario-politico” della vicenda.
Le indagini, infatti, erano state chiuse in fretta e furia a causa di una fuga di notizie. In una conversazione registrata dalle microspie collocate alla Escavazioni Valsusa, l’imprenditore Beppe Magrita di Giaveno (paese della Val Sangone, situata immediatamente a sud della Val Susa) aveva detto ai sodali di non parlare più al telefono dei loro affari, perché gli apparecchi erano tutti sotto controllo. Qualcuno, disse, aveva fatto trapelare la notizia dalla procura. “Non fate mai il suo nome” disse Magrita intercettato; ma un altro degli imprenditori arrestati, Francesco Butano, parlò in carcere con i magistrati e rivelò che la talpa in procura aveva riferito dell’indagine in corso a Osvaldo Napoli, parlamentare di Forza Italia e sindaco di Valgioie, che è proprio nella Val Sangone: il ben noto affiatamento tra “politica” e “impresa”, condito dalle soliteliason all’interno della magistratura…
Lo stesso Ferdinando Lazzaro, in carcere, dopo neanche due mesi dall’arresto, cominciò a parlare ai magistrati per migliorare la propria posizione processuale. Confidò di aver corrotto un funzionario, Adriano De Falco, inviato da Napoli a Torino dopo la terribile alluvione del 2000, in veste di Magistrato del Po: era lì per mettere in sicurezza gli argini e impedire altre morti o altri disastri per le famiglie e gli abitanti del torinese, ma affidava i lavori a chi gli girava il 5% della commissione pubblica che lui stesso firmava. Lazzaro disse di aver ottenuto così, ad esempio, l’appalto per mettere in sicurezza (si fa per dire, visto lo scenario) le sponde fluviali della Dora a Susa con la sua ditta Italcoge: aveva versato 40 mln di lire a De Falco, consegnandoglieli di persona in un ristorante di Meana di Susa. Lo stesso aveva fatto la famiglia Lucco Castello, titolare della Escavazioni Valsusa, che aveva ottenuto l’appalto per i lavori all’ospedale di Susa.
Tonino Esposito e Vincenzo Procopio
Mentre Lazzaro era in prigione e si confessava ai pm, nel 2002, Lo Presti era vivo e vegeto e ancora libero in attesa dell’appello per la condanna del 2002 per associazione mafiosa (Campo-Smith). In quei mesi Tonino Esposito raccoglieva per lui, a suon di ricatti e minacce, i soldi degli indebitati torinesi, e Lo Presti tentava l’ultima avventura in grande stile: dalla sua dimora di Bardonecchia adocchiò gli appalti faraonici previsti per Torino 2006. Sono gli stessi mesi in cui Ugo Martinat era viceministro e Vincenzo Procopio, che gli imprenditori milanesi definivano il “cassiere” dei versamenti per Alleanza Nazionale attraverso la Sti, faceva parte del comitato direttivo delle Olimpiadi. A settembre del 2003 Procopio iniziò a ricevere strane telefonate di minaccia. Poco dopo fu avvicinato da Tonino Esposito, che gli disse: “So che hai dei problemi. Conosco persone che ti possono aiutare”. Poche settimane più tardi tutti i membri del consiglio ricevettero una busta contenente un proiettile Smith&Wesson calibro 10.
Il messaggio era chiaro; ma soprattutto, con queste modalità, avvenne l’incontro tra due diversi e specifici ambienti criminali: quello di Alleanza Nazionale, facente capo a Martinat e Procopio (istituzioni), e il settore della ‘Ndrangheta valsusina di Esposito e Lo Presti (capitali illegali). È in questo momento che il pm Antonio Malagnino, ordinando ai carabinieri di intercettare il telefono di Esposito, si accorge che quest’ultimo si intrattiene al telefono con il pm e suo collega Antonio Rinaudo. Dai colloqui di Procopio e Giovanni Desiderio (membro del comitato direttivo di Torino 2006) emergeranno le manovre di Lunardi, d’accordo con il colosso imprenditoriale che fa capo al costruttore Marcellino Gavio, per dare a sé stesso il denaro che il suo ministero intendeva versare per il cantiere Tav di Venaus: attraverso società-paravento come l’Alpina di Milano (che copriva la sua Stone) o la Eiffage (che copriva la Rocksoil, intestata alla figlia, già impiegata per il TGV Lione-Marsiglia).
I legami tra Vincenzo Procopio e la Val Susa non si fermarono qui: nello stesso periodo curò anche interessi privati per gli appalti relativi alla variante di Avigliana, in bassa valle, appaltata dall’agenzia Torino 2006 di cui era consigliere; tre anni più tardi, quando tanto lui quanto Gavio e Martinat saranno indagati in seguito alle intercettazioni di Malagnino, Procopio eleggerà domicilio legale in uno studio dei fratelli Galasso; un nome che riporta ancora ad Antonio Rinaudo e Tonino Esposito, se è vero che entrambi, soltanto un anno prima, sedevano con lui in un Hotel di lusso alle cene con Moggi. Nella cena con Moggi al Concord del 26 febbraio 2005 Rinaudo aveva tra i suoi amici, in altre parole, tanto chi era andato a minacciare Procopio per conto di Lo Presti riguardo a Torino 2006, quanto chi offrirà proprio a Procopio domicilio legale per le accuse di turbativa d’asta circa il cunicolo di Venaus.
Ferdinando Lazzaro e Bruno Iaria
Le pressioni di Esposito su Procopio furono, nel 2003, la punta dell’Iceberg dell’inserimento della ‘Ndrangheta negli appalti per le Olimpiadi. Molta luce su questi legami sarà fatta dalle dichiarazioni di un affiliato dell’organizzazione, Rocco Varacalli, che – poco dopo la conclusione dei Giochi e quasi in contemporanea con l’arresto di Lo Presti ed Esposito – iniziò a parlare con i magistrati. Dichiarò che tutti i cantieri di Torino 2006 erano stati subappaltati a ditte facenti capo alla ‘Ndrangheta, che aveva avuto così modo di ripulire miliardi di capitali accumulati con il narcotraffico. Molti altri cantieri edili torinesi, ed anche varianti urbanistiche centrali dell’era Chiamparino (all’epoca delle rivelazioni di Varacalli in pieno corso), erano state realizzate dalle ditte dell’organizzazione (ad esempio la Spina 3). Le dichiarazioni-fiume testimonieranno anche che i lavori per la costruzione del Tav Torino-Milano erano stati realizzati da ditte di copertura per il riciclaggio dei capitali del narcotraffico, e pure con costi gonfiati, grazie ai subappalti forniti dal Gruppo Gavio alle ditte dell’organizzazione (la procura di Milano indagherà solo nel 2008, a lavori finiti, le ditte controllate dalla ‘Ndrangheta che hanno lavorato al Tav Torino-Milano anche per aver usato i cantieri lungo la linea per interrare tonnellate e tonnellate di rifiuti tossici).
Già a inizio anni Novanta, del resto, mentre Lo Presti iniziava a indebolirsi in seguito alle inchieste su Campo-Smith a Bardonecchia, gli appalti per la costruzione del più grande e famoso centro commerciale dell’area torinese, Le Gru di Grugliasco (progettato da Berlusconi in società con un’azienda francese, condannata per 2 mld in tangenti agli amministratori locali), erano stati distribuiti alle famiglie ‘Ndranghetiste radicate in pianura, nella cintura cittadina. Fu proprio alla conferenza stampa per l’inaugurazione delle Gru, il 9 dicembre 1993, che Berlusconi annunciò la sua “discesa in politica” ai giornalisti, alla presenza delle famiglie Belfiore, Pelle e De Masi (come raccontò Varacalli alla procura dopo le Olimpiadi).
Varacalli non si limitò al passato e descrisse l’intera struttura dell’imprenditoria ‘Ndranghetista nella provincia di Torino, attraverso l’enumerazione delle “locali”, le cellule territoriali dell’organizzazione. Nel capoluogo Giovanni Catalano teneva nel 2006 le relazioni tra i centri della Calabria e quelli del Piemonte, dal centro operativo dell’organizzazione, il Bar Italia di via Veglia 59, in Borgata Lesna: nell’esercizio si tenevano le riunioni dei boss di tutta la provincia di Torino. Salvatore De Masi detto Giorgio, invece, la cui famiglia era stata coinvolta nella costruzione delle Gru, è capolocale a Rivoli dopo una complessa vicenda di sangue; e Giovanni Iaria, con il figlio Bruno, gestisce come sempre la “locale” di Cuorgné, nel Canavese, dove, come abbiamo visto, la famiglia Lazzaro di Susa ha interessi fin dagli anni Novanta. Il legame Lazzaro-Iaria, tuttavia, sembra essere molto più sostanziale di una semplice comunanza di influenze territoriali: il suo meccanismo è occultato da manovre contabili e dall’utilizzo di prestanome.
I Lazzaro, ad esempio, ottengono appalti per lotti della Salerno-Reggio Calabria e per alcuni acquedotti calabresi, sempre in società con Foglia Costruzioni srl, ditta che fallisce poco dopo e viene fagocitata dalla Finteco; quest’ultima fa capo, attraverso prestanome, proprio a Giovanni Iaria. Tuttavia Ferdinando Lazzaro, nel 2006, inserisce direttamente Bruno Iaria nella sua ditta, la Italcoge di Susa, con la qualifica di “dipendente” (ovviamente Bruno Iaria non è un operaio); una qualifica che Iaria manterrà fino al 2007, per poi sparire dai registri contabili della ditta. Un piccolo errore che comunque, come vedremo, non costerà nulla ai Lazzaro. Le connessioni che gli Iaria, dal Canavese, hanno con la Val Susa, non finiscono qui: nel 2007 un altro imprenditore valsusino entra direttamente in contatto con Bruno e Giovanni Iaria, entrando nella loro casa a Cuorgné per un incontro (non sa che il luogo è videosorvegliato dai carabinieri, che indagano in seguito alle deposizioni di Varacalli): è Claudio Pasquale Martina, la cui famiglia possiede la Martina Srl, anch’essa di Susa e anch’essa specializzata, come la Italcoge dei Lazzaro, nel movimento terra.
Il legame Iaria-Lazzaro prosegue il 23 ottobre 2008, quando la Italcoge (Lazzaro) ottiene appalti per i sovrappassi e sottopassi valsusini di Vaie, Chiusa san Michele e Sant’Antonino in società con la Foglia Costruzioni che, secondo un copione già noto, “fallisce” e viene sostituita da Finteco (Iaria). Negli stessi mesi la commissione parlamentare antimafia indica “Val d’Aosta, Val Susa e Torino come zone di particolare criticità riguardo alla ‘Ndrangheta”. Chiamparino si indigna e Maurizio Laudi (che nel 2008, dopo lo scandalo delle regalie di Moggi, è stato premiato con la direzione della divisione distrettuale antimafia) gli va in soccorso: “La reazione di Chiamparino – dice – è giustificata. Per Torino non c’è mai stata alcuna vicenda o episodio che potesse essere sintomatico di infiltrazione” (Il Sole24Ore, 8 marzo 2008). Caselli gli fa da sponda: “Se ci fossero infiltrazioni nel comune di Torino, pensa che non me ne sarei accorto?”.
I giornalisti se la ridacchiano: al procuratore, è ovvio, non sfugge mai niente. È vero che non si accorse (a suo dire) della Trattativa stato-mafia a Palermo, nel periodo 1993-1996 quando a Palermo proprio lui dirigeva la procura della repubblica; ed è vero che non si accorse che gli uomini che la conducevano erano i vertici della sua polizia giudiziaria (in alcuni casi, come quello del gen. Mori, da lui stesso coinvolti in operazioni delicatissime, che non a caso condussero a palesi depistaggi). Ora Caselli (siamo nel 2008) non si è accorto che l’Agenzia Torino 2006, nel cui scenario avvennero i contatti Procopio-Esposito (e sulle cui vicende il pm Malagnino aveva indagato già nel 2003) è un’emanazione istituzionale del comune di Torino; né che lo stesso consigliere dell’agenzia Procopio ha mestato a lungo per coinvolgere il Gruppo Gavio nel cantiere previsto a Venaus, proprio nei mesi in cui esso subappaltava alla ‘Ndrangheta i lavori per il Tav Torino-Milano. E in effetti, oltre a lasciare indenni i politici coinvolti nelle indagini (con una sola eccezione su cui torneremo) l’operazione Minotauro del 2011, coordinata da Caselli, lascerà completamente indenne il comune di Torino (inteso come istituzione).
“… pensiamo all’alta velocità…”, “… sosteniamo Fassino…”
Pochi mesi più tardi le dichiarazioni di Laudi e Caselli, Rocco Lo Presti è raggiunto, a tre anni dall’arresto che lo colpì assieme a Tonino Esposito, dalla prima condanna definitiva della sua vita: cinque anni in cassazione, da scontarsi ai domiciliari. È il 15 gennaio 2009; viene arrestato il 21 gennaio; il 24 gennaio (tre giorni dopo) muore. La sentenza contiene una rivelazione agghiacciante: “Esiste un’emanazione della ‘Ndrangheta nel territorio della Val Susa e nel comune di Bardonecchia”. È passato mezzo secolo dall’arrivo di Lo Presti in Val Susa e dalla sua cementificazione dell’alta valle, trent’anni dai suoi appalti per l’autostrada, sedici dall’affare per Campo-Smith. Ma il potere giudiziario di una società divisa in classi, come una nottola tutt’altro che stupida, arriva sempre a sanzionare dopo i delitti commessi da chi detiene i capitali, quando gli affari (sulla nostra pelle) sono già stati fatti.
Le elezioni europee sono previste sei mesi dopo la morte del vecchio boss; e il 23 maggio, a due settimane dal voto, Claudia Porchietto, assessore regionale al lavoro (Pdl), si reca al Bar Italia di via Veglia 59 per fare una visita a Giuseppe Catalano, accompagnata dal nipote del boss, Luca Catalano. I carabinieri la filmano, ma i suoi dialoghi con il boss non vengono trasmessi alla procura. È poi la volta del sindaco di Rivarolo Canavese, Fabrizio Bertot (Pdl), che entra al Bar Italia dopo quattro giorni (dieci giorni prima del voto). Il trattamento dei carabinieri è per lui difforme: il suo dialogo con i boss viene registrato e inviato alla procura. Catalano ha contattato, per l’occasione, Salvatore De Masi di Rivoli, Giovanni Iaria di Cuorgné (la zona in cui Bertot è sindaco) e un’altra decina di boss, affinché presenzino alla riunione con il candidato alle europee.
Alle ore 12.15 il boss Catalano presenta il candidato ai suoi sodali:
Catalano: … un attimo di attenzione.. che… devo esprimere due parole sole e poi… (inc.)… prima di tutto… (inc.) … esprimo… un vero piacere che oggi abbiamo accanto il signor sindaco… il suo segretario… e per noi è un grande orgoglio… poi vi tengo presente che il sindaco è candidato alle europee… e quindi possiamo votarlo sia il Piemonte che Lombardia…
Iaria: pure in Liguria…
Catalano: pure in Liguria… e già sappiamo che…
Iaria: … e Valle d’Aosta…
Catalano: … abbiamo tanti amici… quindi vi chiedo cortesemente… chi c’ha un parente… chi c’ha un amico… di passare questa parola… che avendo… una persona che noi conosciamo… ci porta al bene… sempre… io non ho altro da dirvi…(incomprensibile)… mi fa piacere che fate questo…(inc.)… che ehh…
Iaria… (inc.)…
Catalano: oltre quarant’anni… quindi… vi ringrazio della vostra attenzione… (inc.)
Come si evince dalla successive parole del candidato Bertot, a questo punto interviene il segretario del sindaco, il cui intervento non viene trasmesso dai carabinieri alla procura. Si conosce invece l’intervento di Bertot alla riunione, che inizia dopo le 14.00:
Bertot: … chiedo scusa per l’italiano … (risate) […] no, io vi ringrazio di tutto un po’… di tutto quello che state facendo… ma soprattutto … (rumore di sedia)… per quello che farete! […]. Io che sono un po’ appassionato di urbanistiche… di opere pubbliche … di lavori… e sono convinto che il Piemonte abbia bisogno come terra… di tutta una serie di opere… grosse… importanti… pensiamo al collegamento con Genova per il porto… (rumore) … pensiamo all’Alta Velocità… tutte cose che comunque passano dal Parlamento Europeo… non passano da … (inc.)… […] perché quel terzo valico con Genova… invece di usarlo… usarlo qui… decidessero di usare il porto di Marsiglia… per noi sarebbe devastante… ma permettere che significa… (inc.)… lavoro per miliardi i euro… quindi io sono un grande sostenitore dei grandi cantieri, perché la pubblica amministrazione può solo … (rumore)… (qualcuno interviene brevemente ed in modo incomprensibile)… grandi cantieri… grandi opere… e tutte queste cose passano dal Parlamento Europeo… quindi vado per ammesso a fare … (inc.)… di territorio là! Poi un’altra cosa che non ha detto il mio segretario che mi conosce da tanti anni… io …voglio… sto facendo questa cosa… ma continuerò a fare il sindaco di Rivarolo… (interviene un presente dicendo: “Lo faccio io il sindaco…”) … quindi…ecco… anche magari per interposta persona, continuerò a fare il sindaco di Rivarolo… […] si ma questo significa che comunque sono contattabile… qui… a parte i due Giovanni [Giovanni Iaria, capolocale nel Canavese, dove Bertot è sindaco, ndr] … e Nino [Domenico Catalano, fratello di Giuseppe, capolocale di Torino, ndr] che… sanno bene come rintracciarmi… ma il fatto che io rimanga a fare il sindaco di Rivarolo significa che io voglio andare là… per avere un ufficio là… avere i contatti che servono là… per avere anche tutte quelle cose comunque si vogliono e si possono fare eh… […] quindi mi affido veramente a voi… tutti quelli che sto contattando in questo momento… perché l’obiettivo non é tanto che io vado in Europa… ma che voi possiate avere … (inc.)…
I “grandi cantieri” e le “grandi opere” (Alta velocità in Val Susa e Terzo Valico in primis) fanno parte del patto che la politica sancisce con l’organizzazione criminale più potente e ramificata della provincia di Torino. Nel maggio del 2009, forze dell’ordine e procura ne sono al corrente. Giovanni Iaria si attiva per far confluire voti sul sindaco canavesano e Fabrizio Bertot vince: va a Strasburgo, al parlamento europeo.
Non si pensi, però, che i legami e le connessioni riguardino soltanto il Pdl: analogo successo avrà la campagna per Fassino sindaco sostenuta dal parigrado di Iaria a Rivoli, altro comune interessato dal progetto della Torino-Lione. A richiedere il sostegno del padrino della cintura sud-est De Masi è addirittura un deputato del Pd, Mimmo Lucà (anch’egli di Rivoli) che gli telefona il 21 febbraio 2011:
De masi: pronto…
Lucà: … ciao Giorgio…
De masi: … ciao Mimmo… come stai?
Lucà: … eh bene, abbastanza, tutto tranquillo.
De masi: … sì…
Lucà: … ascolta…ti volevo chiedere questo… tu sai che a Torino abbiamo le primarie…
De masi: … certo!… tu dimmi qualcosa che io mi interesso…
Lucà: …ecco… che io sto sostenendo Fassino…
De masi: …eh beh… anch’io avrei fatto la stessa cosa…
Lucà: … perché obbiettivamente mi pare la persona più seria in questo momento…
De masi: … si… si…
Lucà: …a dare continuità… a dare continuità alla giunta di Chiamparino…
De masi: … si… si…
Lucà: …infatti anche Chiamparino ovviamente sostiene…
De Masi: …sostiene Fassino…
Lucà: …Piero…quindi… […]
De Masi: …si…si…eh una mano…
Lucà: …se magari hai qualche…un qualche amico a Torino…
De Masi: …certo!… certo che ne ho!…
Lucà: … a cui passare la voce…
De Masi: …senz’altro…si… […]
Lucà: …eh… quindi insomma… se qualcuno riesce… se hai qualche amico da consigliar…
De Masi: … come non ne ho… ne ho!… ne ho più di uno… grazie a Dio… ne ho più di uno… quindi… quindi…
Lucà: …prova… prova a sentire che area tira…
De Masi: …si…si… e facciamo… facciamo… diciamo questi che conosciamo facciamo votare Fassino…
Lucà: … poi appena vengo a Torino noi due magari ci andiamo a prendere un caffè…
De Masi: come no… come no… quando vuoi, Mimmo…
Il 27 febbraio 2011, proprio durante lo svolgimento delle primarie, alle ore 17.21, De Masi telefona al deputato Pd per comunicargli di aver provveduto a sostenere Fassino sindaco, e si mostra fiducioso sulla possibilità di vittoria:
De Masi: ciao Mimmo…
Lucà: …ciao Giorgio…ho visto che mi hai chiamato…ciao…
De Masi: …si…si…ti avevo chiamato… io ero appena arrivato… che avevo fatto ancora qualche commissione tutta la mattinata in Torino…
Lucà: …ah…ah…
De Masi: …si…per il nostro amico… comunque…io dico che dovrebbe andare bene…
Lucà: …si…si…
De Masi: …anche se è una battaglia abbastanza…
Lucà: …complicata…
De Masi: …eh…eh… perchè… insomma… l’altro si è dato… si è dato molto da fare anche!
Lucà: …si… mi hanno detto che l’altro anche ha lavorato anche molto sui… sui Calabresi!
De Masi: …si…si…ho riscontrato questo… comunque…
Lucà: …perchè c’era Mangone che ha lavorato sui…
De Masi: …esatto…esatto…esatto…si…si…si…io comunque fino alle dodici ed un quarto… insomma quindi… ho fatto il mio dovere va!
All’assalto di Chiomonte
Anche Gaetano Porcino (Idv) e Antonino Boeti (Pd) (quest’ultimo, oltre ad essere consigliere regionale in carica, è stato per molti anni sindaco di Rivoli) sono intercettati al telefono con Salvatore De Masi. Il colore politico degli interlocutori dei boss cambia senza scossoni a seconda del partito che governa il territorio. De Masi comanda la ‘Ndrangheta a Rivoli, comune tradizionalmente governato dal centrosinistra, e si impegna per Fassino alle primarie Pd, su diretta richiesta di parlamentari del partito; Giovanni Iaria, che comanda l’organizzazione nel Canavese, si attiva per far confluire i voti delle europee su Bertot, amministratore sul suo territorio per il Pdl. Proprio l’Unione Europea, poco dopo le elezioni, dà un ultimatum all’Italia per ciò che concerne la Torino-Lione, per cui il governo ha chiesto un cofinanziamento europeo. L’UE non ha mai affermato che finanzierà il progetto ma, per poter prendere in considerazione la richiesta (senza dubbio su sollecitazione dei delegati italiani), chiede, a ormai cinque anni dai fatti del 2005, la dimostrazione che il governo è in grado di superare le resistenze.
Il ministro dei trasporti e delle infrastrutture Matteoli (Pdl, ex Alleanza Nazionale) annuncia allora che Ltf, la società italo-francese incaricata di realizzare il progetto, eseguirà, entro la fine del 2009, 91 sondaggi geognostici in Val di Susa. La mobilitazione dei No Tav fa slittare l’iniziativa all’inizio del 2010, a ridosso della scadenza indicata dall’Unione Europea. Il 10 gennaio, di fronte alla presenza di centinaia di oppositori su uno dei siti destinati ai sondaggi, le forze dell’ordine rinunciano. Come risposta, il 16 gennaio qualcuno incendia, di notte, il presidio No Tav di Bruzolo. Il movimento accusa “la mafia Sì Tav” di essere dietro l’attentato. Il governo, dopo esser riuscito a impiantare tre trivelle, decide di ripiegare, per gli altri sondaggi, nella cintura di Torino, cercando di imbonire l’Unione Europea circa la validità delle perforazioni fuori dalla valle. Il 24 gennaio va in fiamme il presidio No Tav di Borgone, il secondo in otto giorni. Il 31 gennaio è nuovamente la volta del presidio di Bruzolo. Gli animatori del presidio, completamente distrutto, espongono uno striscione con scritto: “Brucia più a voi che a noi”.
Il 17 febbraio una quarta trivella viene impiantata, nella notte, in località Coldimosso (tra Bussoleno e Susa). Il movimento si dà appuntamento all’autoporto e scende sull’area per opporsi all’operazione. Le forze dell’ordine che proteggono la trivella si abbandonano a violenze sui manifestanti su ordine di Spartaco Mortola, già protagonista della mattanza della Diaz al G8 di Genova nel 2001. Un ragazzo, Simone, va in coma (ma si salverà) e una signora di Villafocchiardo, Marinella, patisce una frattura scomposta maxillo-facciale. La reazione dei No Tav è durissima. La polizia è costretta a fuggire aprendosi un varco con i mezzi della ditta Geomont di Giuseppe Benente, che realizza le trivellazioni: un escavatore distrugge un brandello di guard-rail e permette ai mezzi della polizia di fuggire sull’A32. Il governo cessa l’operazione sondaggi: rispetto ai 91 annunciati in Val Susa, ne sono stati realizzati quattro. Poche settimane dopo Giuseppe Catalano, organizzatore dell’incontro con l’europarlamentare Bertot dove si trattò dei cantieri dell’alta velocità, viene arrestato su ordine della procura di Reggio Calabria per un’operazione nazionale contro la ‘Ndrangheta (13 luglio).
Il 30 dicembre Ferdinando Lazzaro presenta istanza di ristrutturazione del debito della sua azienda al tribunale di Torino, e il suo legale dà per certo, a garanzia dell’operazione, l’ottenimento dell’appalto per un cantiere Tav alla Maddalena, nel comune di Chiomonte (quando Lazzaro parla al tribunale non è stata indetta alcuna gara d’appalto per il futuro cantiere). Due mesi dopo, l’8 febbraio 2011, è invece Vincenzo Procopio a varcare la soglia del Tribunale, ma per essere condannato in primo grado, assieme al direttore generale di Ltf (Tav Torino-Lione) Paolo Comastri e al direttore generale della Sitaf (autostrada Torino-Bardonecchia) Giuseppe Cerutti, per abuso d’ufficio e turbativa d’asta. I fatti sono quelli relativi al cantiere Tav di Venaus e agli appalti di Torino 2006. Soltanto il già avvenuto decesso ha salvato dalla condanna l’ex viceministro Ugo Martinat e il costruttore Marcellino Gavio, il cui gruppo imprenditoriale è ormai in mano ai suoi successori.
Tre mesi dopo, il 5 maggio, l’appena condannata Ltf stipula un contratto per i lavori di messa in sicurezza del cantiere previsto a Chiomonte. Il governo Berlusconi ha infatti dato assicurazioni, attraverso il ministro dell’Interno Maroni, che presto ogni resistenza al progetto verrà debellata. Contraenti del contratto per il previsto cantiere sono due sole aziende, riunite in una ati (assiociazione temporanea d’imprese): Italcoge, l’azienda dei Lazzaro, e Martina Srl, quella dei Martina (l’imprenditore che fu filmato mentre entrava in casa di Giovanni Iaria a Cuorgné). È il contratto C 11070, con oggetto: preparazione del cantiere e realizzazione di una barriera anti-intrusione sul sito del tunnel esplorativo della Maddalena. Curiosamente lo stesso giorno la Italferr (Rfi), che detiene il 50% di Ltf, segnala a quest’ultima che l’azienda dei Lazzaro, Italcoge, è insolvente per ciò che concerne la costruzione dei sovrappassi e dei sottopassi ferroviari di Chiusa San Michele, Vaie e sant’Antonino, in bassa Val Susa. È l’operazione che Italcoge gestì in società con Foglia Costruzioni, poi fallita e sostituita da Finteco controllata dagli Iaria, come era avvenuto sulla Salerno-Reggio Calabria. Nonostante la segnalazione, quello stesso 5 maggio Ltf chiude il contratto con Italcoge.
Entrambe le ditte cui Ltf concede l’appalto, quindi, hanno legami con gli Iaria, capilocale nel Canavese dove si è candidato Fabrizio Bertot, che proprio agli Iaria (e a Catalano) aveva parlato con entusiasmo dei “cantieri del Tav” al bar di via Veglia, prima delle elezioni europee in cui sarebbe stato eletto. Non basta: undici giorni dopo Italcoge forma un’ati più grande denominata Consorzio Valsusa, in cui si associa alla Escavazioni Valsusa e alla Geomont di Giuseppe Benente, che ha fatto i sondaggi fino alle violenze di Coldimosso. I giornali riferiscono che al Consorzio Valsusa è stato “promesso” l’appalto per i successivi lavori alla Maddalena, anche se non specificano di che tipo di “promessa” si tratti. Il movimento No Tav si mobilita: viene istituito un presidio permanente sulle vie d’accesso a Chiomonte e a Giaglione. Il 23 maggio i mezzi della Italcoge giungono, scortati da decine di poliziotti e carabinieri, alle porte del pianoro della Maddalena, ma i No Tav li respingono colpendo con pietre i mezzi dei Lazzaro e i poliziotti che li scortano. Il convoglio si ritira.
Il 24 maggio gli operai della Italcoge scioperano, denunciando di non essere pagati da mesi. Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni definisce i No Tav “fascisti” e li accusa di aver “aggredito gli operai”. Il 26 giugno il movimento si riunisce in assemblea e invita i lavoratori “a valutare chi veramente difende i loro interessi e ad unirsi alla lotta del Movimento No Tav contro le lobbies politico/sindacali/affaristiche che stanno affossando il nostro Paese”. All’assemblea un No Tav, Claudio Cancelli, dichiara: “Siamo in presenza di una struttura di potere che vive di furto del denaro pubblico… un sistema che mantiene una pletora di altre strutture parassitarie e vi piazza i propri uomini, non importa se pregiudicati, vedi la Sitaf, Trenitalia e le tante municipalizzate e consorziate, vedi gli stessi sindacati come la Cisl, governati da congreghe mantenute con i soldi pubblici. Ecco perché sono favorevoli alle grandi opere. Non per il lavoro ma per difendere se stessi: un’economia di rapina ai danni del cittadino e dei suoi bisogni”.
Sandro Plano, presidente della Comunità Montana Val Susa e Val Sangone, protesta per la prova di forza tentata dai Lazzaro e dalla polizia il 23 maggio e chiede che i soldi vengano investiti nelle piccole opere utili per i comuni della valle e non gettati nel buco nero del Tav. Gli risponde con un’Ansa Claudia Porchietto, l’assessore regionale che fece visita a Giuseppe Catalano in via Veglia pochi giorni prima di Bertot, accompagnata dal nipote del boss: “Plano forse non si rende conto che a sostenere le posizioni grottesche, violente e incivili dei No Tav le vallate rischiano non solo di perdere il treno con l’Europa ma anche quello dello sviluppo socio-economico che opere come la Tav portano come conseguenza”. Il movimento crea un sistema di fortificazioni per difendere l’area, costituito da barricate in tutti gli accessi principali alla Val Clarea: è l’inizio della Libera della Maddalena.
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Nota
Il movimento No Tav ha raccolto e pubblicato una rassegna di articoli apparsi sui quotidiani, riguardanti i fatti qui narrati, nel dossier C’è lavoro e lavoro, consultabile sul sito notav.info. Un separato dossier relativo alla campagna C’è lavoro e lavoro, consultabile sullo stesso sito, contiene l’analisi dettagliata delle visure camerali delle ditte impegnate nel cantiere, tra cui quelle riconducibili alle famiglie Lazzaro e Martina e alla Sti di Vincenzo Procopio. Per ciò che concerne gli Iaria, numerosi sono i procedimenti, ma le notizie qui riportate sono documentate, dal punto di vista giudiziario, in alcuni faldoni dell’inchiesta Minotauro e, in particolare, nella Relazione dei carabinieri alla procura di Torino del dicembre 2011 riguardante i rapporti tra Italcoge, Foglia Costruzioni e Finteco (Lazzaro-Iaria) e i rapporti Martina-Iaria. Cfr. anche Minotauri per i recinti di Chiomonte?, La Stampa, 25 febbraio 2012 e Tav: qualche domanda sulla gestione degli appalti di Chiomonte, Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2012.
Una sintetica ricostruzione giornalistica di alcune vicende relative al radicamento imprenditoriale del capitalismo ‘Ndranghetista in provincia di Torino, e sui contatti tra i boss e i politici bertot e Porchietto, è contenuta in La mafia al nord, puntata del programma Presa Diretta, trasmessa su Rai3 il 15 gennaio 2012 e consultabile su Youtube o sul sito rai.presadiretta.it. Contiene tra l’altro parte dei dialoghi in viva voce tratti dalle intercettazioni tra Bertot, Catalano, Iaria ed altri, tra Lucà e De Masi, le immagini della visita dell’ex assessore Porchietto al bar di via Veglia di Catalano e un’intervista al “pentito” Varacalli.
Un’analoga e parziale sintesi di parte isttuzionale è rinvenibile nel Rapporto sull’infiltrazione della criminalità organizzata nell’economia di alcune regioni del nord Italia, a cura del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, 23 febbraio 2010, in cui sono ricostruite alcune delle attività degli Iaria tra anni Ottanta e anni Duemila e alcuni rapporti tra la magistratura di Torino e Ivrea e la ‘Ndrangheta torinese e del Canavese. Le dichiarazioni di Laudi e Caselli a seguito della reazione di Chiamparino alle osservazioni della commissione antimafia sono riportate in Più ‘Ndrangheta in Piemonte, Il Sole24Ore, 26 marzo 2008. I rapporti tra Pd e ‘Ndrangheta in rapporto all’elezione di Fassino sono riassunti, tra l’altro, in Il parlamentare del Pd Mimmo Lucà chiese alla ‘ndrangheta i voti per Fassino, Il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2011 e “Aiutiamo Fassino alle primarie”, La Repubblica, 9 giugno 2011.
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