Mentre i media e i governi occidentali scoprono ipocritamente solo dopo l’attacco a una sinagoga che l’occupazione israeliana del territorio palestinese genera rabbia e reazione da parte della popolazione colonizzata e martoriata – di nuovo messa sul banco degli imputati dalla cosiddetta comunità internazionale – da Torino arrivano in queste ore notizie che denunciano una grave e indebita ingerenza degli ambienti sionisti sulla vita civile di questa città su cui da tempo pesa una pesante cappa di censura e condizionamento. D’altronde Torino, che è gemellata con la città israeliana di Haifa, è anche la capitale della associazione “Sinistra per Israele” fondata alcuni anni fa da alcuni importanti esponenti del Pd e dell’amministrazione locale di centrosinistra.
La prima vicenda riguarda le minacce e le pressioni esercitate in questi giorni dalla cosiddetta ‘Comunità Ebraica di Torino’ – una istituzione politica e poco culturale che al di là della denominazione non riunisce e non rappresenta i cittadini torinesi di religione e cultura ebraica – nei confronti dei curatori della mostra “Lungo viaggio della popolazione palestinese rifugiata”, ospitata al Museo della Resistenza del capoluogo piemontese.
La ‘Comunità Ebraica’ ha messo nel mirino l’iniziativa perché a suo dire costituirebbe un esempio di “propaganda politica ostile a Israele” (!). A parte che semmai dovrebbe essere la rappresentanza diplomatica del cosiddetto ‘Stato Ebraico’ ad avere la titolarità e la legittimità di protestare contro eventuali posizioni ostili contro Tel Aviv e non certo una istituzione di tipo teoricamente culturale come quella in questione. E comunque da quando in qua è proibito criticare Israele?
Ma i dirigenti sionisti torinesi sono così infastiditi dal fatto che qualcuno critichi e accusi Israele da arrivare addirittura a prefigurare una richiesta di chiusura della mostra, patrocinata dalla Regione e dal Comune di Torino che finora si sono ben guardati dal difendere l’esposizione e dall’esprimere il proprio punto di vista sulla questione. Anzi, a dir la verità Guido Vaglio, direttore del Museo ci ha tenuto a dire che “né il Museo che dirigo né Comune, né Regione hanno partecipato alla copertura dei costi della mostra. Come compare anche sul materiale della mostra i finanziamenti vengono dalla Compagnia di San Paolo mentre noi avevamo specificato subito che non avremmo messo a disposizione alcun fondo”.
Quale scandaloso messaggio manderebbe questa mostra curata dall’Unrwa, l’organizzazione dell’Onu che si occupa di rifugiati palestinesi? Denunciare con foto e didascalie la terribile condizione in cui milioni di rifugiati palestinesi e loro discendendi sono costretti a sopravvivere, stipati nei campi profughi e dispersi in diversi paesi del Medio Oriente; oppure mostrare le terre e le città palestinesi divise dal muro dell’apartheid fatto costruire manu militari dal governo israeliano, che “danneggia gli ecosistemi, interrompe la continuità territoriale, distrugge l’economia”, anche attraverso fotomontaggi che mostrano quale impatto avrebbe il muro se fosse stato eretto in alcune capitali europee; mostrare i carri armati e le ruspe israeliane che distruggono le case palestinesi; oppure ricordare il ruolo dell’esercito israeliano nel massacro di migliaia di abitanti dei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, in Libano, massacrati dai falangisti maroniti protetti dai militari di Ariel Sharon. Ruolo che è già stato rimosso dopo una prima veemente protesta da parte dei dirigenti sionisti torinesi.
Ma la parziale censura non è bastata alla Comunità Ebraica che, tra i soci del Museo della Resistenza – che a dir la verità si chiama Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà – pretende la censura totale, la rimozione della mostra, dimostrando di temere la verità oltre che gli effetti sull’opinione pubblica delle conseguenze delle politiche guerrafondaie, colonialiste e razziste dello Stato di Israele.
Che, a quanto pare, non solo non possono essere mostrate ai partecipanti ad una mostra, ma non si possono descrivere e commentare neanche all’interno della locale università. A scrivere della seconda notizia è il quotidiano La Stampa secondo il quale martedì scorso una docente si sarebbe rifiutata di far laureare due studentesse colpevoli di trattare la questione palestinese presso il Dipartimento di Lingue. «Oggi, per la prima volta in 25 anni di carriera, mi sono rifiutata di presiedere alla laurea di due studentesse che hanno presentato un lavoro sulle “città palestinesi”» si è vantata sul suo profilo Facebook – anche se poi il post è stato rimosso – la professoressa Daniela Santus. «Ho espresso la mia riprovazione alla commissione che intendeva laurearle e, dopo che il Direttore ha proposto di sostituirmi, me ne sono andata». La docente di Geografia – nel 2005 duramente contestata per le sue lodi a Israele durante le lezioni e per aver invitato nell’Ateneo il viceambasciatore israeliano, Elazar Cohen – si era trovata a sostituire una collega assente e a ricoprire quindi la carica di presidente di commissione degli esami di laurea. Ma quando ha sfogliato la tesi dal titolo «Percorsi classici e letterari di città palestinesi», una ricerca a quattro mani di Enrica Mazzei e Atif Kaoutar, ha letto cose che non le piacevano e in barba ad ogni principio di pluralismo culturale e democratico ha pensato di contestare la tesi prima di essere sostituita. Nel frattempo le due studentesse hanno atteso fuori dalla porta per circa due ore che la questione fosse risolta, prima di potersi finalmente laureare.
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Orfeo
…ma che vadano a quel paese !
Leggete e fate pubblicita’ col libro
di Norman Finkelstein
“Antisemitismo come arma politica”