Il laboratorio degli orrori chiamato italia ha ricominciato a produrre mostri. Mettendo in fila solo alcune delle “perle” inanellate negli ultimi anni da una classe politica di “nominati”, nonché da soggetti istituzionali che avrebbero dovuto svolgere una funzione diametralmente opposta, se ne ricava una conclusione certa. Per quanto sgradevole e preoccupante: siamo un paese senza più una Costituzione.
La Carta nata dalla Resistenza, che si appresta a celebrare il settantesimo anno di vita, esiste ormai solo come “pezzo di carta”, che le classi dominanti pretendono di stracciare al più presto mentre nella pratica quotidiana se ne prescinde allegramente. Il governo Renzi è stato messo lì appositamente e svolge anche questo lavoro con entusiasmo degno di ben altra causa.
In pochi giorni abbiamo avuto una sentenza della Corte Costiituzionale che per la prima volta è stata disattesa quasi completamente. Quella sull’indicizzazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo resterà nella storia soltanto per questa ragione, probabilmente, come precedente.
Intorno a questa vicenda si sono esplicitati, con grande chiarezza, i contorni ideologici e programmatici di una svolta che è ancora in corso. I “diritti sociali”, è stato scritto nero su bianco, vanno aboliti anche come categoria, sostituendoli col concetto di “prestazioni”; se ci sono i soldi si erogano, altrimenti no. Quindi la Corte Costituzionale dovrebbe d’ora in poi valutare ogni sentenza anche sul piano contabile, mettendo l’art. 81 (quello sul pareggio di bilancio obbligatorio, come imposto dalla Troika) davanti a tutti gli altri.
Con le riflessioni sull’astensionismo elettorale, esploso in occasione delle ultime regionali, è stato fatto un altro piccolo o enorme passo avanti, qualificando la democrazia in genere – anche quella “solo formale”, ridotta a puro esercizio del diritto di voto – come una perdita di tempo.
Un’analisi di tal Alberto Mingardi, sulla marchionnesca La Stampa, celebra con gelida nonchalance il funerale della partecipazione popolare alle scelte sulla vita pubblica.
Già il titolo indica la strada (L’astensionismo? Non è sempre un cattivo segno), ma si può essere anche più direttti: “il fatto che al seggio vadano in tanti non garantisce di per sé scelte particolarmente lungimiranti. Altrimenti avremmo ereditato un Paese un poco più in ordine”. Il rovesciamento di valore è totale: l’opinione della maggioranza della popolazione vale meno dell’”ordine” che deve vigere in un paese. Oltre due secoli di pensiero liberal-democratico vengono sbrigativamente cestinati dall’enfant prodige del pensiero reazionario italico, eliminando il principio per cui l’”ordine” di una nazione può essere determinato solo dalla composizione mediatoria di molti interessi (e quindi anche opinioni) diverse. Se “l’ordine” ottimale è invece un equilibrio sistemico determinato da poche volontà egemoni si entra già nel campo delle oligarchie e/o delle dittature.
Potrebbe già bastare, ma si può andare anche oltre. Scrive il Mingardi: “il voto è uno sforzo non remunerato […] fa la differenza solo in rarissime occasioni; per esempio se abitiamo in un paese di poche anime e si sono candidati a sindaco due signori popolarissimi”. In effetti, in alcune regioni italiane il voto viene retribuito da associazioni criminali, oppure viene richiesto “in cambio” di decisioni pubbliche che possono comportare ricadute di spesa clientelare. Non sorprende che un giovane liberista possa accettare di fare un qualsiasi sforzo solo in cambio di una retribuzione, ma sollevare questo argomento nel caso del voto significa eliminare le opinioni, i valori, le idee e i princìpi come molle sufficienti a smuovere gli individui dal proprio torpore solitario. Eppure legioni di cittadini o anche solo sudditi sono stati spediti a farsi ammazzare in guerre proclamate per ragioni “ideali” (per “diffondere la democrazia”, soprattutto, nell’ultimo secolo).
Ma l’argomento decisivo è il secondo: il vostro voto non conta niente. Sia chiaro: il voto di chi non ha interessi strutturati e/o legittimati, di chi non ha grandi proprietà o attività. Insomma, non conta (non dovrà più contare) il voto dei “subordinati” di ogni ordine e grado (lavoratori, pensionati, precari, studenti, disoccupati, ecc).
Spiega infatti: “se non siamo in lizza per una nomina o un appalto, ha senso studiare a fondo un candidato, i suoi trascorsi, le sue idee per come le ha tradotte in pratica e non per come le dichiara?”. Ma è ovvio, solo chi ha un interesse concreto – monetario e/ carrieristico – può “investire” parte del proprio tempo nel formarsi un’opinione… Gli altri rimangano pure a casa, evitino di “sottrarre tempo agli affetti o al lavoro”. Perché tanto la loro opinione può produrre solo decisioni incoerenti, sbagliate, “caotiche”. Lasciate fare a noi, membri delle classi proprietarie e funzionari da queste scelti, che sappiamo come funzionano le macchine decisionali e quali sono gli obiettivi che garantiscono “l’ordine”.
E qui la giovane “testa fina” messa alla guida dell’Istituto Bruno Leoni finisce per somigliare al miglior Razzi in versione Crozza: “fatti li cazzi tua”, tu che non conti niente.
Bene. Visto che ce lo dicono con tanta chiarezza, non vi sembra il caso di darsi un po’ da fare per ribaltare una situazione che può solo peggiorare?
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