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Luglio 1960: la vittoria della democrazia

Sono passati cinquantacinque anni e non è possibile far trascorrere questa ricorrenza nel silenzio e nell’oblio.

Era l’Italia del 1960. Il Paese si trovava in pieno miracolo economico, ma il benessere nascondeva profonde lacerazioni politiche e sociali.

Si stava provando, con fatica, a uscire dagli anni’50 e a far nascere il centrosinistra.

Un giovane democristiano, Fernando Tambroni esponente della corrente del presidente della Repubblica Gronchi, assumeva la Presidenza del Consiglio sostenuto da una maggioranza comprendente il partito neofascista, l’MSI.

Quell’MSI che stava tornando alla ribalta con la sua ideologia e la sua iniziativa: quell’MSI che decise, alla fine del mese di Giugno, di tenere il suo congresso a Genova, Città medaglia d’oro della Resistenza.

L’antifascismo, vecchio e nuovo, disse di no.

Comparvero sulle piazze i giovani dalle magliette a strisce, i portuali, i partigiani.

La Resistenza riuscì a sconfiggere il rigurgito fascista.

Ma si trattò di una vittoria amara, a Reggio Emilia e in altre città la polizia sparò sulla folla causando numerose vittime.

Questi i fatti, accaduti in quell’intenso e drammatico inizio d’estate di cinquantacinque anni fa: è necessario, però, tornarvi sopra per riflettere, partendo da un dato.

Non si trattò semplicemente di un moto di piazza, di opposizione alla scelta provocatoria di una forza politica come quella compiuta dall’MSI di convocare il proprio congresso a Genova e di annunciare anche come quell’assise sarebbe stata presieduta da Basile, soltanto quindici anni prima, protagonista nella stessa Città di torture e massacri verso i partigiani e la popolazione.

Si trattò, invece, di un punto di vero e proprio snodo della storia sociale e politica d’Italia.

Erano ancora vivi e attivi quasi tutti i protagonisti della vicenda che era parsa chiudersi nel 1945, ed è sempre necessario considerare come quei fatti si inserissero dentro una crisi gravissima degli equilibri politici una crisi inserita anche in un mutamento profondo dello scenario internazionale, nel quale si muovevano i primi passi del processo di distensione ed era in atto il fenomeno della “decolonizzazione”, in particolare, in Africa, con la nascita del movimento dei”non allineati”.

Prima ancora, però, dovrebbe essere valutato un elemento, a nostro avviso, di fondamentale importanza: abbiamo già accennato all’entrata in scena di quella che fu definita la generazione “dalle magliette a strisce”, i giovani che per motivi d’età non avevano fatto la Resistenza, ma ne avevano respirato l’aria entrando in fabbrica o studiando all’Università accanto ai fratelli maggiori; giovani che avevano vissuto il passaggio dall’Italia arretrata degli anni’40-’50 all’Italia del boom, della modernizzazione, del consumismo, delle migrazioni bibliche dal Sud al Nord, di una difficile integrazione sociale e culturale.

Allora i moti del Luglio’60 non possono essere considerati semplicemente un punto di saldatura tra le generazioni, anzi rappresentavano un momento di conflitto, di richiesta di cambiamento profondo, non limitato agli equilibri politici.

Un punto di analisi, questo, non ricordato di frequente: al riguardo del quale abbiamo pensato di presentare un testo, a nostro giudizio illuminante, scritto da Raniero Panzieri e apparso, il 25 Luglio del 1960 proprio nel momento in cui i nuovi equilibri politici si andavano formando ( il governo Tambroni si era dimesso e Amintore Fanfani si apprestava a varare quel ministero che Aldo Moro avrebbe definito delle “convergenze parallele”: per la prima volta, infatti, il PSI si sarebbe astenuto, come i Monarchici, sull’altro versante. Si trattava del prodromo del governo organico di centrosinistra che poi lo stesso Moro avrebbe presieduto nel Dicembre del 1963).

L’articolo di Panzieri (che non aveva ancora aperto la serie dei “Quaderni Rossi”) uscì sulla rivista della federazione torinese del PSI, “La Città” e ne riportiamo di seguito uno stralcio particolarmente significativo:

” E’ dunque necessario conquistare, al livello delle forze politiche organizzate, una consapevolezza precisa e seria del movimento reale del Paese. E per questo occorre, innanzi tutto, riconoscere i tratti del processo democratico che da lungo tempo è andato maturando nella nostra società, al di fuori, in gran parte, dalle linee e dagli obiettivi perseguiti dai partiti di sinistra. Ciò che è caratteristico di questo processo è che, nonostante la sua estraneità ai partiti, non ha per nulla i connotati tipici della “spontaneità”: il suo grado di coscienza è fortemente sottolineato dalla capacità delle giovani leve operaie di “servirsi” del sindacato unitario (soprattutto) e anche dei partiti di classe, nella stretta misura in cui la partecipazione e il sostegno delle organizzazioni operaie esistenti è necessario all’affermazione di uno schieramento unitario di classe. perciò l’estraneità organizzativa ai partiti di decine di migliaia di giovani operai, che sono state la punta avanzata del movimento, deve essere valutata come un rapporto di spinta, di azione critica esercitata da forze consapevoli, ora in modo chiaro, ora in forme incerte e travagliate, di rappresentare esigenze e scopi di lotta più complessi e più avanzati di quelli offerti dalle organizzazioni e di dover esercitare con la loro autonomia una pressione perché queste si adeguino ai rapporti di classe…

…..Ma questi elementi possono prendere rilievo e consistenza durevole soltanto in una prospettiva politica generale. E proprio questa prospettiva è presente nell’azione dei partiti solo assai parzialmente e in modo deformato. Essa dovrebbe concretarsi nella rivendicazione di un mutamento profondo nelle strutture economiche e sociali, nella individuazione dei processi totalitari del potere, che dalla grande fabbrica si estendono a tutti i livelli del Paese, in un rifiuto del divario che l’azione capitalistica provoca e aggrava di continuo tra la realtà dei rapporti politici e le istituzioni…”

Fin qui lo stralcio dell’articolo di Raniero Panzieri: un Panzieri quasi profetico a indicare temi che poi sarebbero stati alla base delle lotte operaie del decennio, fino a sfociare nell’ “Autunno caldo” del 1969, nell’unità e nel sindacato dei “Consigli” (stava già, forse, nell’articolo citato quell’interrogativo suscitato da qualcuno, proprio a proposito del Luglio’60: ultimo episodio della Resistenza o primo vagito del ’68?).

E, ancora, quanto vale oggi il richiamo di Panzieri nella drammaticità del momento storico che stiamo vivendo?

Interrogativi che rimandiamo all’attualità: una complessa e difficile attualità.

In quel Luglio ’60, da non considerare – ripetiamo – soltanto per i fatti accaduti in quei giorni, ma nel complesso di una fase di cambiamento della società e della politica, si aprì, ancora, a sinistra, una discussione sulla natura della DC, fino a quel momento perno fondamentale del sistema politico italiano.

Molti si chiesero, a quel momento, se dentro la DC covasse il “vero fascismo” italiano: non quello rumoroso e un poco patetico del MSI, ma quello vero; quello che poteva considerarsi il vero referente dei ceti dominanti, capacedi portare al blocco sociale di potere l’apporto della piccola e media borghesia.

Il partito democristiano appariva, dunque, a una parte della sinistra, soprattutto nei giorni infuocati della repressione, come il partito che avrebbe potuto in qualunque momento rimettere in moto in Italia (ricordiamolo ancora una volta: eravamo a soli quindici anni dalla Liberazione) un meccanismo politico-sociale-repressivo-autoritario tale da dar vita a nuove esperienze di tipo fascista.

L’analisi sviluppata dal PCI togliattiano fu diversa.

Nonostante le asprezze della polemica quotidiana il PCI aveva assunto come stella polare di tutta la sua strategia l’intesa con le masse cattoliche, da sottrarre al predominio moderato prevalente dal ’47 in poi (grazie alla “guerra fredda”) al vertice della DC.

Ma la prospettiva non era così ingenua: essa comportava il proposito di far emergere le forze presenti all’interno della DC, anche al vertice del partito.

In quel Luglio ’60 il PCI cercò di operare in quella direzione, e il successo dello sciopero generale, pur macchiato di sangue, si rivelò efficace e significativo anche perché dall’interno della DC si aprì finalmente un varco a quella parte del gruppo dirigente che, sulle rovine dell’esperimento Tambroni, poté riproporre con maggiore efficacia e speranza di esito positivo una soluzione diversa: quella che abbiamo già richiamato delle “convergenze parallele” e, successivamente, delcentrosinistra “organico”.

Oggi, a cinquantacinque anni di distanza, possiamo meglio valutare l’esito di quei fatti: le contraddizioni che ne seguirono, il rattrappirsi progressivo della realtà riformatrice( a partire dal “tintinnar di sciabole” dell’estate 1964, fino alla disgraziata stagione del terrorismo, aperta nel 1969 dalle bombe di Piazza della Fontana), l’assunzione, in particolare da parte del PSI ,via, via, di una vocazione “governista” sfociata nel decisionismo craxiano, i limiti di puro politicismo insiti nella strategia berlingueriana del “compromesso storico”, nello sviluppo abnorme di quella che già dagli anni’50 Maranini aveva definito come partitocrazia (con il contributo di un complessivo “consociativismo” allargato all’intero arco parlamentare) e, infine, nella “questione morale” che segnò, all’inizio degli anni’90, lo sconquasso definitivo del quadro di governo in coincidenza con la caduta del muro di Berlino (sulla quale furono commessi errori di valutazione enormi) e con l’avvio, con il trattato di Maastricht, della logica monetarista anti-democratica di gestione dell’Unione Europea sul modello reaganian-tachteriano della crescita delle diseguaglianze economiche e sociali.

Ebbene, proprio in quella situazione, all’inizio degli anni ’90, complice anche il cedimento alla logica della “governabilità” in luogo del tipo di rappresentanza politica insito nella Costituzione Repubblicana avvenuto attraverso l’adozione del sistema maggioritario, l’implosione della DC consentì di verificare la giustezza di certe analisi: le masse DC, la gran parte dell’elettorato democristiano, in quel momento di trasformazione del sistema politico trovarono, infatti, sede politica e dirigenti in cui affidarsi in Alleanza Nazionale (l’ex-MSI diventato ormai vero e proprio soggetto di massa) e in Forza Italia (diventato subito il maggior partito italiano, dal punto di vista dei risultati elettorali).

Il che induce a pensare, anche oggi, come una analisi della DC di tipo “azionista” non risultasse del tutto errata: certo era schematica perché leggeva il presente di allora, quello degli anni’60, con le categorie del passato conosciuto negli anni’30 – ’40 (il fascismo).

Però introduceva un elemento che non andrebbe mai trascurato e che ci riporta all’attualità: la sinistra non ha saputo rimanere tale, almeno nelle sue connotazioni di fondo, ed ha via via introiettato elementi importanti dell’identità della desta.

Forse luglio’60 rappresentò uno degli ultimi passaggi utili per contrastare radicalmente questo processo di involuzione e riproporre alcune radici di fondo della prospettiva resistenziale.

Non è questa la sede per una analisi approfondita, ma non crediamo di errare dicendo che quel “vero fascismo” che aveva tentato di emergere nel luglio ’60 rappresentava un agglomerato di interessi-pregiudizi-istinti che continuaad esistere e che, al dissolversi del “grande ombrello” DC dopo aver trovato albergo anche in una destra populista e razzista tenuta assieme da un personalismo di infima categoria come quello berlusconiano oggi trova oggettivamente spazio nella logica, retta anch’essa da una forte spinta di carattere personalistico e gerarchico, del “potere per il potere” che caratterizza parte preponderante del PD.

Una situazione ormai non più fronteggiata da una sinistra coerente con i suoi principi fondativi, disorientata e smarrita, incapace di affrontare fino in fondo il tema dell’organizzazione politica.

Una sinistra che lascia anch’essa spazio all’improvvisazione contestatrice di soggetti che presentano caratteristiche del tutto interne al sistema sostanzialmente ossequiandolo, con una idea confusa delle “masse” come soggetto indistinto di una “moltitudine” il cui fine dovrebbe essere quella del “movimento per il movimento” agito abilmente dall’alto per preservare “l’autonomia del politico” dalla confusa “autonomia delle masse”.

Sono cambiate troppe cose dacinquantacinque anni a questa parte, mentre si presenta durissimo e in forme inedite l’attacco capitalistico alla pace, al sistema di relazioni internazionali, alle condizioni di vita materiali dei ceti subalterni, al lavoro, allo stato sociale, alla democrazia rappresentativa.

Resta l’interrogativo di fondo lanciato allora: nel Luglio ’60 vinse la democrazia.

E adesso?

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