L’ora delle chiacchiere sta per scadere, lasciando il posto al testo nero su bianco. Entro mezzanotte il governo renzi deve inviare a Bruxelles la “legge di stabilità” (la ex “finanziaria”) contenente la manovra di bilancio per il prossimo anno.
Da palazzo Chigi esce un fuoco di fila di promesse, tale da impedire qualsiasi seria valutazione di merito che possa durare più di qualche ora. Ad esempio, l’abolizione dela Tasi sulle prime case comporta un buco nel bilancio dei Comuni (che incassano questa imposta) per almeno 4,6 miliardi. Se il governo copre – com’è costretto a fare – questa voragine il rapporto deficit-Pil sale automaticamente dello 0,3%. L’analisi tecnica è già stata fatta qui, per cui non ci dilunghiamo. Persino la promessa paracula di “innalzare la no tax area” per i pensionati, portandola dagli attuali 7.700 a 8.100 euro circa, ha un costo (minoti entrate) per il fisco di un miliardo, a fronte di un beneficio impercettibile per quei pensionati 155 euro l’anno, 12,5 al mese…). E così via anche la la diminuzione dell’Ires alle imprese, ecc.
La domanda è sempre la stessa: dove trovi i soldi? Sembra ovvio infatti che una legge di stabilità spendacciona e senza coperture potrebbe ricevere un durissimo stop dalla Commissione Europea, incaricata – secondo i trattati – di sorvegliare e correggere le decisioni “sbarazzine” dei singoli governi. Ieri, per dirne una, è stata bacchettata la Spagna di Rajoy, che si era mossa con certo anticipo.
Secondo le regole del Fiscal Compact per il 2016 il deficit dovrebbe essere portato al 1,4% del Pil. Ma la Ue sa essere comprensiva con chi obbedisce ciecamente ai suoi diktat (mica come quegli estremisti dei greci di Syriza prima versione…) e quindi già in primavera era stata concessa una deroga dello 0,4% come premio per aver varato il jobs act e qualche altra “riforma strutturale” minore. Un mese fa era stato guadagnata un’altra deroga, doppia, dello 0,3 per gli investimenti indispensabili nei settori che la Ue riconosce di competenza dello Stato, e dello 0,1 per altre riformette varie.
La legge di stabilità, insomma, può allargare il deficit fino al 2,2% con la certezza di muoversi nel già stabilità. L’ulteriore strappetto di Renzi punta sulla scommessa che la Commisione concederà davvero un altro 0,2% come “sconto migranti”, promesso qualche settimana fa come contributo ai paesi in prima linea – geograficamente parlando – di fronte alla pressione migratoria. In tal modo si arriverebbe al 2,4% del Pil, un punto in più, ovvero 15 miliardi di margine di manovra in più.
Ne mancano però altrettanti, e due delle poste principali per garantire le coperture – spending review, parziale privatizzazione di Poste Italiane, frutti del condono sui capitali detenuti all’estero, ecc – non sembrano sufficienti a compensare. Anche perché nel conto finisce anche un’altra promessa: quella di non attivare l’aumento dell’Iva e delle accise (a partire da quelle sui carburanti), che avrebbe certamente un effetto recessivo, deprimendo la domanda, ma che era previsto dalle “clausole di salvaguardia” nel caso non fossero stati raggiunti gli obiettivi fissati dalla precedente legge di stabilità.
Vedremo nelle prossime ore se questa forzatura sarà avallata. Il precedente spagnolo non fa probabilmente dormire sonni tranquilli a Renzi e Padoan, ma il margine preteso è in fondo abbastanza ristretto, al contrario di quello spagnolo. Ed anche nell’Unione Europea, orami, sembra essersi fatta strada l’idea che conviene concedere un briciolo di margine in più ai governo “obbedienti”, di estrema destra economica (come Renzi e i portoghesi, oltre a Rajoy), per limitare il più possibile la montante marea “antieuropeista” (in questo momento a prevalenza di movimenti di sinistra, al contrario di quanto raccontano i media mainstream italiani) stimolata da anni di austerità e sofferenze sociali.
È la vecchia logica del comprare consenso a breve termine (ci sono elezioni politiche in Spagna, già premono quelle amministrative in Italia, con città-chiave in ballo, come Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli, ecc; per non dire dell’Irlanda e del possibile referendum inglese sull’uscita dalla Ue), contando sul fatto che governi “obbedienti” e saldi in sella potranno poi recuperare il terrno perduto nei tagli di spesa.
Nella logica del consenso senza spese va anche la voce circolante a proposito del “parti time per gli over 63”. È evidente anche ciechi che l’innalzamento a 66 anni e sette mesi stabilito dalla Fornero è una follia sul piano produttivo (sono le aziende a premere per mandar via i lavoratori più anziani, che sono anche i più costosi) e del mercato del lavoro, perché fa da tappo al ricambio generazionale, contribuendo a tenere molto alta la disoccupazione giovanile. Ma il governo non ha nessuna intenzione di anticipare la possibilità di andare in pensione (smentendo se stesso e le chiacchiere che va facendo da circa un anno), perché questo avrebbe comunque un certo costo – non altissimo – nel breve periodo.
Quindi la soluzione è il ripiego sul “part time” per i lavoratori prossimi alla pensione. Per loro non c’è un gran sollievo (devono comunque continuare a lavorare ancora per quasi quattro anni) ed emergono preoccupazioni serie sul livello del salario (lo stato promette di far versare dalle imprese direttamente in busta paga i contributi che andrebbero girati all’Inps, provvedendo poi a coprire il buco con la contribuzione figurativa; tra parentesi, con una diminuzione del montante contributivo finale e dunque anche dell’assegno pensionistico futuro). Ma anche così, per un part time al 50%, retribuzione netta non supererebbe il 65% di quella attuale. Per gente con quell’età, alle prese con mutui e figi che non lavorano, sarebbe una mazzata feroce. Prevedibile dunque che, trattandosi di una scelta lasciata alla libertà del singolo, ben pochi potranno “beneficiare” di questo presunto beneficio.
Per le aziende, invece, c’è l’indubbio vantaggio di poter sfuttare energie fresche a prezzi stracciati, conservando le “strane coppie” giovani-anziani fin quando le esprienze dei secondi non saranno trasmesse ai “nuovi”.
In ogni caso, resta il problema degli esodati e dei disoccupati anziani (over 50, già diventa una tragedia), che non possono accedere ai trattamenti pensionistici ma che nessuna impresa privata assumerà mai (se non in nero).
Vedremo stasera, o più probabilmente domani. Ma è chiaro che questo modo di assemblare una legge di stabilità tutto è meno che un modo professionale. E non a caso già oggi il giornale di Confindustria avverte: “Servono coperture certe proiettate su tre anni”. Che non ci sono…
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