Non è facile, andando a memoria, trovare una “legge di stabilità” (la ex “finanziaria”) con così tanti critici. Non che siano mai andate lisce, ma insomma l’elenco è davvero molto lungo, stavolta.
Mettiamo subito una cosa in chiaro: le nostre critiche non hanno molte parentele con quelle espresse da vari soggetti istituzionali, perché noi guardiamo a criteri come la giustizia sociale (da questo punto di vista la legge in discussione con la Troika è un’azione di killeraggio contro lavoratori, pensionati e fruitori dei servizi pubblici).
Ma anche tra quanti condividono l’obiettivo dichiarato – ridure il debito pubblico e stimolare la crescita economica – non se ne trovano che condividano anche l’impianto. Sotto accusa è insomma la sua “efficacia” rispetto agli obiettivi. Oppure, nel caso degli enti locali residui (comuni e regioni), il suo far cassa a scapito della loro sopravvivenza.
Questi ultimi si erano già fatti sentire nei giorni scorsi tramite il presidente della Conferenza Stato-Regioni, il renziano Chiamparino, presidente anche della regione Piemonte, che aveva sinteticamente riassunto così: “e allora la sanità se la gestiscano a livello centrale”. A costituzione vigente, infatti, è affidata alle regioni; ma se “il centro” taglia i fondi con una mano e con l’altra blocca la possibilità di trovare risorse compensative con il solito aumento delle tasse locali, allora non ci sono più soluzioni. “Chiederemo un tavolo per affrontare il taglio da 2,2 miliardi solo per le Regioni a statuto ordinario”. Ma “il problema è sul pluriennale, perché i tagli dal 2017 al 2019 configurano una situazione che nei fatti mette a rischio la sopravvivenza del Sistema Regioni“.
Più in dettaglio: “Se non cambiano questi dati vorrà dire che sui farmaci innovativi ci sarà qualcuno a cui bisognerà dire di no. Potremmo poter arrivare a un livello tale che, ad esempio, la centesima persona che arriva e ha bisogno di un farmaco salvavita si sente dire di no perché le Regioni non hanno i soldi per acquistarlo”
La sortita, peraltro con toni estremamente moderati, pare abbia fatto saltare i nervi al guitto di Pontassieve, che ha immantinente convocato i presidenti regionali per dar loro una memorabile strigliata. “Adesso con le Regioni ci divertiamo, ma sul serio”, sembra abbia promesso al suo cerchio magico.
Il suo schema di “comunicazione”, infatti, è fondato sul taglio delle tasse. Dunque, pur sapendo benissimo di aver fatto il furbo eliminando la Tasi per quasi tutti, e quindi di star creando un buco colossale nelle finanze locali, in ogni caso non ci deve essere compensazione; altrimenti tutti possono dire che il governo taglia le tasse con una mano e le aumenta con l’altra (a livello locale).
Vedremo come andrà la partita, che dovrebbe aver luogo domani. Più interessante è la critica “giudiziaria”, per così dire, avanzata dai magistrati della Corte dei Conti, in audizione davanti al Senato. Altro potere sgraditissimo a palazzo Chigi, visto quel che la Corte ha scritto sui quattro anni di Renzi come sindaco: “Inosservanza dei principi contabili di attendibilità, veridicità e integrità del bilancio, anche violazioni in merito alla gestione dei flussi di cassa e alla loro verificabilità”. Insomma: carte false o poco più.
Il presidente della Corte, Raffaele Squitieri, ha comunque sottolineato con molte riserve il fatto che il governo usa il massimo della flessibilità consentita dalla Troika (Bce, Ue, Fmi), «riducendo esplicitamente i margini di protezione dei conti pubblici». Ma non può evitare di segnalare che in questo modo il governo «lascia sullo sfondo nodi irrisolti (clausole, contratti pubblici, pensioni) e questioni importanti quali il definitivo riassetto del sistema di finanziamento delle autonomie territoriali». E ignorare “i nodi” non sembra un gran modo di governare, anche – bisogna ammettere – in perfetta continuità con i peggiori esempi della storia recente (Andreotti, Craxi, Berlusconi, ecc).
Ma un magistrato contabile deve segnalare con la pennna rossa i numerosissimi provvedimenti “una tantum”, dal gettito incerto nell’immediato e irripetibile nel futuro (o, perlomeno, non si può dire oggi che si farà lo stesso trucco tra due o tre anni): la manovra insomma «sconta il carattere temporaneo di alcune coperture e il permanere di clausole di salvaguardia rinviate al futuro».
E nel vicinissimo futuro ci sono le tagliole già pronte a scattare, ossia le clausole di salvaguardia – come l’aumento automatico dell’Iva, fino al 25,5% – se i conti si riveleranno da qui a pochi mesi completamente sballati e “ottimistici”.
Per impedire che scattino, insomma, occorrerebbe individuare «consistenti tagli di bilancio o aumenti di entrate sia pur resi meno onerosi dai benefici di una maggiore crescita». Ma non ce n’è traccia, perché “maggiori entrate” significa più tasse, e dunque…
Critiche più tecniche anche sul regime delle aliquote Iva (di fatto congelato, non riformato), a conferma che questo governo gioca con le chiacchiere e sui rinvii delle questioni più complicate.
Ma l’attacco definitivo avviene sulla logica complessiva della manovra, che sembra prescindere «dal quadro di incertezza che caratterizza l’economia internazionale», «destinato a riverberarsi su un’economia italiana la cui ripresa, dopo una lunga fase recessiva, è per ora basata su dati incoraggianti ma non univoci». Uno dei principali mercati di sbocco, infatti, restano i paesi “emergenti”, che stanno attraversando un momento molto difficile e potrebbe andare in grave crisi se, o quando, la Federal Reserve Usa darà il via effettivo al rialzo dei tassi di interesse.
Non vi sembra curioso un governo che vuole “far ripartire l’Italia” nel consesso mondiale e finge di ignorare quel che sta scritto su ogni quotidiano, anche non specializzato?
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