Brutto paese, l’Italia… Non è mai possibile fare un ragionamento serio, ogni volta che prendi un problema di dimensioni “sistemiche” – per esempio il funzionamento del sistema bancario – immediatamente tutti ti riportano di corsa alla commedia di quartiere. Quella in cui, appunto, i massimi sistemi vengono tradotti in maschere e saltimbanchi.
Brutto paese davvero, l’Italia… Perché non fai in tempo a lamentarti di questa generale mancanza di serietà nell’analisi dei problemi generali che immeditamente, e in effetti, alcune maschere stazzonate ti ricadono tra i piedi, impedendoti di andare avanti con il ragionamento.
Detto in altro modo, il problema è questo: abbiamo un sistema che non funziona nel suo insieme e che non può essere neanche analizzato seriamente se non facciamo astrazione dalle “facce” e dai nomi dei singoli protagonisti. Ma bisogna purtroppo ammettere che certe facce e certi nomi ricorrono come una giaculatoria da prefiche, disturbando l’analisi e rendendola cronaca giallo-rosa.
Il sistema bancario italiano, dicevamo, è marcio e non può reggere il nuovo ritmo della finanza globale. Troppi piccoli istituti, troppe poltrone, troppi piccoli affari e ben pochi grandi affari. Vero è che stanno cambiando anche le regole continentali, con l’invenzione del bail in (buona parte dei fallimenti vengono fatti pagare ad azionisti, obbligazionisti e correntisti al di sopra dei 100.000 euro), che sembra tanto virtuoso – in astratto – rispetto al consueto bail out (salvataggio con soldi pubblici, come fatto in tutto il mondo all’indomani del fallimento di Lehmann Brothers).
Bisognerebbe affrontare seriamente il problema, cercare soluzioni efficaci anche se certamente spiacevoli per la Troika (per esempio: la nazionalizzazione), astrarre dalle vicende di cronaca, sempre troppo infime per spiegare alcunché.
E invece, senza troppa sorpresa, eccoci qui davanti a una pochade degna di Totò, ma in dialetto toscano, in cui i vizi privati sono diventati virtù pubbliche e un ristretto clan di massoni locali si ritrova con i figli ai massimi posti di responsabilità istituzionale, pronti naturalmente a qualsiasi audace operazione (chessò, un “decreto salvabanche”) per alleviare le mbasce familiari. Di colpo, sui quotidiani di questo paese, un problema enorme viene riguardato e sezionato tenendo di mira alcune figurine piazzate lì quasi per caso, con un’inversione totale tra capacità delinquenziali e statura politica.
Il bello è che questo svilimento può comunque avere grosse conseguenze politiche, perché il presidente del consiglio appare così pesantemente coinvolto nella vicenda di Banca Etruria da lasciare l’impressione che questa buccia di banana possa rappresentare quasi un precoce inizio della fine.
Andiamo con ordine. I quotidiani che hanno portato Renzi a Palazzo Chigi quasi in trionfo, in questi giorni traboccano di notizie – più o meno evidenziate – che in qualsiasi altro paese decreterebnero la morte politica istantanea del premier “ggiòvane”. Altri quotidiani, apertamente all’opposizione, come Il Fatto, hanno aperto una campagna altrettanto impietosa di quelle che avevano condotto – insieme a molti altri – contro Berlusconi. E per intrecci straordinariamente simili, solo su scala molto più miserevole, provinciale, quasi bottegaia (nel caso di Renzi e Boschi). In fondo Berlusconi era un manager miliardario in proprio, un fondatore di imperi mediatici (con soldi fatti in modo alquanto fumoso), mentre qui stanno sulla scena degli absolute beginners che stanno già dando fondo a tutto il frasario consunto dai predecessori (“non ci faremo processare nelle piazze”, gridato ieri alla Leopolda, era slogan democristiano anni ’70, incautamente gridato allora da Aldo Moro).
Le ultime novità riguardano il consolidato rapporto d’affari tra il padre di Renzi e il padre di Maria Elena Boschi – fin qui ignoto alle cronache e anche all’Agenzia delle entrate, visto che non era stato inserito nella denuncia dei redditi – in una società che solo per caso comprendeva anche l’ex presidente di Banca Etruria, Lorenzo Rosi.
L’unico precedente noto, per cui aveva subito anche un’indagine, riguardava invece un antico rapporto d’affari tra Tiziano Renzi e Denis Verdini, con il primo a fare il distributore del giornale di prorietà del secondo (al tempo che Matteo era ancora un dipendente del padre).
Coincidenze, si dirà, in fondo in provincia tutti si conoscono… E sia… Ma se poi vien fuori che il povero Tiziano era riuscito a ottenere un prestito che a nessun altro, nelle stesse condizioni, sarebbe stato concesso solo perché a decidere in marito sarebbe stato un altro funzionario di banca, casualmente padre del sottosegretario alla vicepresidenza del Consiglio, al secolo Flavio Lotti, ecco che la catena di coincidenze diventa un quadro probatorio che dovrebbe far la felicità di qualsiasi giudice istruttore…
Giustamente molti ironizzano su questo “patto generazionale” decisamente meno austero di quello che si vorrebbe far ingurgitare – dalle stesse persone – all’intero paese, con i padri esodati o con pensioni da fame e figli precari che la pensione non la vedranno mai.
Certo, come “rottamazione” non sembra un granché… In fondo si faceva così anche 50 anni fa (c’è chi ricorda i casi di Piccioni, De Mita, Leone, Donat Cattin – vecchi leoni democristiani – costretti ad attivarsi per savare i figli finiti nei guai, e pesanti). L’unica differenza è che qui gli impicci li hanno fatti – per anni – i padri, mentre i figli sono stati collocato al posto giusto appena in tempo per provare a salvarli dall’assaltodei magistrati.
Capite perché discutere di problemi sistemici delle banche italiane, in questo clima, diventa quasi un parlare da soli?
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