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Privatizzare i trasporti pubblici? L’esempio dell’Atac di Roma

Il prefetto-commissario di Roma, Tronca, tra le altre cose ha messo sul piatto la “revisione delle società partecipate”, in piena sintonia con il governo centrale e con la scusa di dover mettere a posto i conti.

Le “partecipate” sono una galassia molto disomogenea di società a controllo pubblico e bisognerebbe trattarle col bisturi, non con l’ascia. Si va infatti da piccoli e grandi carrozzoni clientelari che non fanno assolutamente nulla, sono praticamente senza dipendenti e servono solo a distribuire gettoni di presenza o premi al consiglio di amministrazione; fino ai servizi pubblici veri e propri, a partire dal trasporto locale.

Il sospetto è in questo caso una certezza: più che disboscare la selva delle società fasulle ci sta cercando di privatizzare quelle che sono realmente utili solo se restano società pubbliche. Mantenendo l’esempio del trasporto locale, là dove privatizzazione c’è stata – a Roma gli autobus di periferia sono stati subappaltati alla Ronìma Tpl – i risultati sono stati tragici sia per gli utenti (meno lineee e meno corse, autobus senza manutenzione, sporchi, ecc) che per i lavoratori (stipendi bassissmi, pagati con mesi di ritardo, ecc). Le società private, ovunque nel mondo, quando si trovano a gestire il trasporto pubblico fanno la stesa cosa: alzano i prezzi, riducono i servizi, privilegiano il centro storico (per i turisti), tagliano diritti e salari.

È nella natura stessa del trasporto locale, che non può rispettare le regole del profitto, così come non può farlo un servizio sanitario o un sistema di istruzione universali, a meno di non praticare prezzi da “servizi privati”. Per definizione, si tratta di servizi “antieconomici” se considerati a se stanti, assolutamente “produttivi” in una logica di sistema (gente più in salute, meglio istruita, con facilità di circolazione a basso costo, produce più ricchezza). Logico dunque che sia parzialmente a carico della fiscalità generale per garantire contemporaneamente efficienza e basso costo dei biglietti.

Certo, bisogna nominare degli amministratori onesti, non banditi “amici di…”

Ma ci sono i maneggioni che si rubano, tutto, si dice infatti. Certo! E sono gli stessi nominati da quanti, sul piano nazionale o locale, spingono per la privatizzazione. Non a caso.

Un esempio di questi giorni, ancora da Roma. L’Atac, azienda di trasporto pubblico locale, ha accumulato debiti quasi quanto Banca Etruria, grazie a trio di amministratori che hanno programmaticamente saccheggiato le risorse aziendali per riempirsi le tasche.

Lo denunciavano da tempo i lavoratori e uno dei pochi sindacati non complici dell’azienda (l’Usb, naturalmente). Inascoltati. Poi un’inchiesta partita per tutt’altri motivi è arrivata ad accertare che tra il 2007 e il 2010, l’amministratore delegato, il direttore generale e il sindaco dei revisori dei conti dell’Atac si sono messi in tasca oltre un milione di euro. Negli stessi anni – ha scoperto un’altra inchiesta giudiziaria – altri dirigenti centrali “clonavano” i biglietti e li mettevano in vendita privatamente, producendo così un doppio danno: da un lato dimezzavano le entrate dell’Atac, che andava accumulando debiti, dall’altra dimezzavano anche le linee e le corse dei mezzi pubblici. Perché dalle “vendite dei biglietti ufficili” risultava naturalmente un drastic calo dei “clienti”. Che intanto viaggiavano su mezzi sovraffollati e indiminuzione.

Nell’inchiesta arrivata al termine in questi giorni, invece, i pm Laura Condemi e Alberto Pioletti hanno inchiodato l’ex ad. Gioacchino Gabbuti, l’ex direttore generale Antonio Cassano e il sindaco revisore Mauro Anselmi.

Secondo l’accusa i tre «si appropriavano della somma di 1.062.000 euro stipulando contratti di affidamento di consulenza e disponendo ordini di acquisto per attività di mera facciata», grazie ai «ruoli effettivi, i poteri e le cariche rispettivamente rivestite all’interno» dell’Atac.

Particolarmente interessante il caso dell’amministratore delegato, Gabbuti, storico esponente del centrosinistra romano ma “salvaguardato” da Alemanno una volta eletto sindaco. Lui, inparticolare, avrebbe affidato incarichi inventati, per oltre un milione e mezzo di euro, alla società Pragmata, ufficialmente basata a San Marino ma in realtà… di sua proprietà.

Tutto qui? Neanche per sogno. Siccome la società era basata all’estero, Gabbuti avrebbe trovato logico servirsi anche dello “scudo fiscale” per tornare legalmente in possesso, qui in Italia, delle somme illegalmente regalate a se stesso come “società” di comodo. E dire che il suo stipendio non era esattamente da povero travet: oltre 500mila euro l’anno, venticinque volte il salario di un autista immerso per 6 ore e 40 nel traffico di Roma, tra proteste dei passeggeri e litigi con gli automobilisti…

Quando vi dicono che “bisogna privatizzare i servizi pubblici, perché solo i privati li sanno rendere efficienti”, rispoendete pure che era già stato fatto. E questi sono i risultati…

 

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