Nella prima parte, pubblicata il 12 ottobre abbiamo ricordato l’avvio della grande stagione delle privatizzazioni degli anni 92/93, che fruttarono allo Stato oltre 110 miliardi di euro – non di lire! – destinati a ridurre il debito pubblico, con il risultato che quest’ultimo ha raggiunto vette stratosferiche e continua ad aumentare in modo esponenziale.
Sarà forse a causa di un’evasione fiscale e contributiva mastodontica, favorita dal ricorso a continui condoni cui non si è sottratto neanche questo governo, da un sistema corruttivo mai perseguito e debellato? O delle altrettanto continue misure volte a ridurre la pressione fiscale e contributiva alle imprese senza peraltro alcun beneficio apprezzabile sul fronte dell’occupazione, che continua a rimanere una chimera specie nel Sud e tra le fasce giovanili?
Là dove la privatizzazione ha dato il peggio di sé è stato senz’altro nei casi di Alitalia e Telecom, tanto per citarne solo due.
Ritroviamo in entrambi i casi i famosi “capitani coraggiosi” di berlusconiana memoria: Roberto Colaninno, i Benetton, Tronchetti Provera, come pure alcune banche come Banca Intesa e Unicredit.
Già dal 2001, dopo lo scioglimento dell’IRI e il passaggio al Ministero del Tesoro, Alitalia assistette al depauperamento delle competenze manageriali e professionali, accentuato dalle condizioni poste (e accettate dal governo italiano) dall’alleato francese che portarono al ridimensionamento dell’azienda con il taglio delle rotte intercontinentali a favore di Air France.
Scelte che portarono Alitalia al disastro nell’arco di 7 anni, 2002/2009. Nel momento in cui Air France era pronta a chiudere il cerchio, Berlusconi optò per la “privatizzazione nazionale” regalando ai capitani e scaricando 6 miliardi di euro di costi sui conti pubblici, salvando al contempo i crediti esigiti da Banca Intesa nei confronti di AIR ONE, e producendo in 4 anni una voragine finanziaria enorme per Alitalia.
La conseguenza “naturale” di questi piani furono 7.000 licenziamenti e un taglio ai salari dei superstiti del 10%. Da lì in poi l’azienda non si è più ripresa, fino a ripetere nel 2014 lo stesso identico copione con il governo Renzi, regalando Alitalia a Etihad, la compagnia degli Emirati Arabi Uniti, con altri 2.000 licenziamenti e ulteriori tagli ai salari, fino ad arrivare al commissariamento dopo che i lavoratori rifiutarono il ricatto di un altro piano lacrime e sangue, fotocopia dei due precedenti, voluto dalle banche e da Etihad, appoggiato dal governo Gentiloni e presentato con l’ennesimo ricatto ‘prendere o morire’ .
Un anno dopo l’azienda ha recuperato sul fronte dei costi, del carburante e di altro, sta meglio e soprattutto ha evitato lo spezzatino tanto caro al mai rimpianto Calenda.
Ora sembra si provi a parlare di un futuro per Alitalia, Di Maio parla di investimenti pubblici e rilancio, anche con la partecipazione di un partner privato non ancora indicato.
In ogni caso la linea del Piave per noi si ferma davanti anche a un solo esubero e continuiamo a pensare che la nazionalizzazione sia l’unica strada certa per evitare altri disastri.
Anche per Telecom i cosiddetti capitani coraggiosi hanno spolpato l’azienda a più non posso. Come la famiglia Agnelli che si è sbrigata a far cassa appena ha potuto, vendendo le sue quote di capitale, anche tutti gli altri hanno evitato di operare investimenti nell’innovazione tecnologica per essere all’altezza della concorrenza che, nell’ultimo decennio del secolo scorso, ha visto l’emergere di nuovi competitori che nel frattempo si sono affacciati sul mercato delle TLC. Hanno tagliato sul costo del lavoro con migliaia di esuberi con costi sociali altissimi, hanno esternalizzato servizi e lavoratori concorrendo ad aumentare il precariato, pensando solo al proprio interesse privato nel più spudorato dei modi.
Due aziende, già all’avanguardia nel servizio e nella tecnologia distrutte dalla privatizzazione.
Sfidiamo chi ha ancora il coraggio di dire che privato è meglio!
Nazionalizzare qui ed ora, anche in barba ai dettami dell’Unione Europea è l’unica soluzione, per questo invitiamo tutti a partecipare alla
Manifestazione del 20 Ottobre a Roma
Piazza della Repubblica h.14.00
Unione Sindacale di Base
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NoProfit
Una cattiva gestione della governance aziendale non è sinonimo che la privatizzazione sia sbagliata. Sono state sbagliate le scelte gestionali, e quindi dei board delle due imprese.
Perchè non analizzate cosa comporterebbe la nazionalizzazione in materia di costi, efficienza, reclutamento dei lavoratori ? Perchè lasciare allo stato un’impresa ridotta all’osso da un board di privati? La citata IRI prima di essere sciolta era in continua perdita.. lo stato finanziava con soldi pubblici quindi della collettivitá imprese che agivano senza nessun criterio economico di gestione delle spese… per loro lo stato era un pozzo senza fondo, una nonna col portafoglio sempre aperto..
La privatizzazione comporta minori costi finali al consumatore, più efficienza e miglior allocazione delle risorse.
Un caso sbagliato che condanna una categoria è una valutazione irresponsabile.
Redazione Contropiano
Questa è ideologia allo stato puro, senza alcun riscontro nella realtà. Le virtù del “privato è meglio” sono fuffa per fessi, e ponte Morandi sta lì a dimostrarlo.
Ti rispondiamo invece con l’articolo pubblicato stamattina:
“Sui siti finanziari c’è da mesi un flusso di notizie che racconta i successi industriali delle industrie pubbliche rimaste, mentre a Genova si celebrava la tragedia delle privatizzazioni. Un giorno si farà un bilancio di quella stagione, ma di certo già oggi è chiaro che aver smantellato l’Iri ha significato la fine dell’industria italiana.”
https://contropiano.org/news/news-economia/2018/10/19/lindustria-pubblica-fa-incette-di-commesse-0108643