In attesa di capire come evolverà la querelle (più mediatica che reale) tra istituzioni europee e governo gialloverde, una prima lettura del testo della legge di bilancio firmato ieri dal Presidente della Repubblica e del decreto fiscale collegato, suggerisce una riflessione: se una manovra con uno scostamento sul deficit minimo rispetto ai “desiderata” delle oligarchie finanziarie, con un progressivo decalage nel corso del triennio, con misure sociali o rappresentate tali (quota 100 per le pensioni e reddito di cittadinanza) talmente evanescenti da non comparire nemmeno nel testo, ha provocato la bagarre alla quale abbiamo assistito in queste settimane, vuol dire davvero che quella costruzione politica, ipocritamente chiamata Unione Europea, è immodificabile.
Lo è non solo perché per cambiare qualsiasi virgola dei trattati occorrerebbe l’unanimità dei Paesi aderenti – impossibile da raggiungersi in un dispositivo costruito appositamente per accentuare le differenze tra gli Stati e tra le classi sociali all’interno dei singoli Stati – ma anche, e soprattutto, perché la rigidità dei vincoli contabili non ammette deroghe di alcun tipo.
Non le ammette nemmeno rispetto ad una legge di bilancio che pure si colloca perfettamente nel solco del liberismo, figurarsi se fosse varata una manovra davvero espansiva che, per esempio, avviasse un serio piano occupazionale per la messa in sicurezza del territorio ed un percorso di ri-nazionalizzazione degli asset strategici per lo sviluppo sociale del paese.
Fatta questa doverosa premessa, ciò che balza agli occhi è l’asimmetria tra le previsioni (inesistenti) relative alle misure sociali (pensioni e reddito di cittadinanza che pure hanno costruito la fortuna elettorale della sempre più improbabile alleanza grillin-leghista) e gli interventi a favore delle imprese, specie in materia fiscale, invece ampiamente descritti nel testo della legge di bilancio.
Mentre le prime si limitano semplicemente a fissare un tetto di spesa (9 miliardi per le pensioni e 6,8 per il reddito di cittadinanza, con possibilità di compensazioni e dirottamento delle risorse per ridurre il deficit), e seguiranno un percorso parallelo con disegni di legge da emanare l’anno prossimo, le seconde sono ben dettagliate e vanno da un ricco menu di condoni (contenuto nel decreto fiscale) per soddisfare evasori di ogni tipo, a interventi che alleggeriscono la pressione fiscale nei confronti delle imprese e dei redditi più alti; tra flat tax per professionisti e società di persone, taglio di 9 punti percentuali dell’Ires per chi reinveste gli utili in assunzioni e beni strumentali, ed incentivi vari.
Articoli di giornale, interminabili talk show e polemiche infuocate, che ci hanno intrattenuto per mesi sulla sostenibilità della “quota 100” e sul reddito di cittadinanza, hanno prodotto una scatola vuota che lascia facilmente intuire due cose.
La prima è che la “quota 100” non scalfirà minimamente la famigerata legge Fornero, così come il reddito di cittadinanza appare sempre più come un dispositivo di controllo e di accompagnamento forzoso allo sfruttamento lavorativo, piuttosto che uno strumento di liberazione dalla povertà.
La seconda è che l’omissione dei contenuti di queste due misure, e il rinvio a “quando sarà tutto pronto”, conferma le voci insistentemente circolate in questi giorni su un “piano B” da parte del governo: ritardarne l’applicazione proprio per ridurne i costi e placare l’ira dei Moscovici di turno.
Certo non sarebbe esattamente una gran figura da parte degli intrepidi esponenti del governo giallo verde, ma in mancanza di una volontà di rottura vera, e non semplicemente sbandierata, i margini di manovra con la governance europeista sono stretti; o forse, più realisticamente, del tutto inesistenti.
Insomma, l’impianto e l’architettura della legge di bilancio così come del decreto fiscale collegato, i trucchi nella redazione del testo, i rinvii a successivi provvedimenti per le misure sociali, rendono sempre più evidente la natura di un governo che si configura come la versione nazionalista del liberismo di stampo europeista.
E d’altronde lasciare ai liberisti nazionalisti la bandiera della lotta ai diktat europei non poteva che produrre questo effetto.
Lo schematismo politico tra liberisti nazionalisti e liberisti europeisti è la gabbia che stanno costruendo intorno a noi per irretire il dibattito, confondere le idee, allontanare ed esorcizzare qualsiasi opzione che delinei una radicale alternativa di sistema.
Disarticolare questo schema è il presupposto per costruire uno spazio politico e un campo di gioco autonomo e indipendente.
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