In questo testo spiegheremo che cosa pensiamo del cosiddetto reddito di cittadinanza varato dal Governo gialloverde; prima di tutto analizzeremo il decreto, poi spiegheremo la nostra critica, infine articoleremo la nostra proposta e il nostro piano d’azione. In sintesi: il reddito, così com’è stato concepito, obbliga i disoccupati a spostarsi dappertutto per non perdere il diritto a percepirlo; in questo modo è una misura sbagliata, inefficace, dall’impianto punitivo, peggiore degli altri esempi europei. Per noi il Governo avrebbe fatto meglio a investire quei soldi – e molti altri – nel lavoro pubblico, dignitoso, per il potenziamento dei servizi, dal welfare ai trasporti, dalle case all’energia. Nonostante questo, dal momento che vogliamo che lo prenda il maggior numero di persone possibile, ci attiveremo su tutto il territorio per aiutare la gente a fare domanda e fornire assistenza in caso di problemi.
1. Come funzione il cosiddetto reddito di cittadinanza
Viene stabilita una somma di riferimento mensile di 780 euro, composta da 500 euro di reddito e 280 euro di contributo affitto: tale somma spetta ai single disoccupati che vivono in affitto, non possiedono un patrimonio immobiliare di valore superiore a 30.000 euro, non possiedono un patrimonio finanziario di valore superiore a 6000 euro. Se si vive in coppia, o con uno o due figli, o addirittura in tre o quattro adulti, la somma cresce per arrivare al massimo a 1330 euro (quattro adulti o tre adulti e due minori in affitto); se si vive in una casa di proprietà il contributo scende a 500 euro a persona, col mutuo a 650 (500 + 150). Diminuisce ancora se si percepisce un certo reddito, ma per decreto non può scendere al di sotto di 480 euro – annui, 40 euro al mese – per nessuno. Per accedere, bisogna avere un ISEE non superiore a 9360 euro annui, essere cittadino italiano, comunitario o di paesi terzi con permesso di soggiorno di lungo periodo e risiedere da almeno dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi, nel nostro Paese. I soldi vanno spesi entro il mese, altrimenti vanno persi, e saranno erogati su una sorta di carta Postepay. Chi accetta di trasferirsi, con tutta la famiglia, su tutto il territorio nazionale riceve 3 mensilità in più (12 se ha figli minori o se ci sono persone con disabilità).
Bisogna che tutti i membri maggiorenni del nucleo familiare siano disposti ad entrare in un programma di formazione e a lavorare gratis fino ad otto ore settimanali in lavori socialmente utili presso il Comune di residenza; si dovrebbero ricevere delle proposte di lavoro dai centri per l’impiego, con l’obbligo di accettare alla terza, pena la perdita del sussidio. Le proposte devono essere “congrue”, ma questo concetto cambia a seconda che arrivino nei primi dodici mesi o successivamente: entro l’anno la prima proposta non può essere oltre i 100 km o 100 minuti di viaggio; se si rifiuta la prima, la seconda non può essere a più di 250 km di distanza dalla residenza; la terza su tutto il territorio nazionale. Dopo i 12 mesi la prima proposta è direttamente entro i 250 km, la seconda anche, la terza su tutto il territorio nazionale; dopo 18 mesi sono considerate congrue proposte da ogni parte d’Italia. Le imprese che assumono percettori di reddito hanno diritto ad un numero di mensilità del sussidio variabile da 5 a 18, a seconda di quando avviene l’assunzione, sussidio che si cumula, al Sud, con lo sgravio contributivo fino a 8060 euro all’anno. Se il lavoro è stato trovato tramite un ente di formazione o un’agenzia privata, questi ultimi divideranno l’incentivo con l’impresa che assume. Anche per i disoccupati il reddito è cumulabile con la Naspi o con la Dis-coll, ma sempre nel limite massimo di 780 euro mensili. Per orientare i disoccupati al lavoro saranno assunti, entro Aprile, circa 10000 “navigator”, persone laureate che riceveranno un contratto di collaborazione biennale per “indirizzare” coloro che faranno domanda verso il lavoro “giusto”
2. Che cosa c’è che non va
È necessario che ribadiamo un concetto banale: noi siamo favorevoli al fatto che lo Stato si occupi delle persone in stato di povertà, dando loro casa, assistenza sanitaria, servizi gratuiti e un sostegno economico per uscire dalla condizione di bisogno. Ci tocca ripeterlo per evitare che le nostre critiche possano essere anche lontanamente assimilate a quelle dell’opposizione parlamentare, dal PD a Forza Italia, che sostengono che questa misura sia un regalo ai fannulloni. Del resto questa è l’unica critica che i grillini temono, dal momento che si affannano a sottolineare in ogni occasione che non si sta regalando niente a nessuno, che la gente dovrà “alzarsi dal divano” e che le false dichiarazioni saranno severamente punite. Come vediamo, tutte le forze parlamentari sono d’accordo nel ritenere che chi è disoccupato lo sia, in fondo, per colpa sua, perché non ha voglia di lavorare: l’unica differenza è che i 5Stelle pensano di poterlo controllare con le “norme anti-divano”, mentre il PD pensa che così si finanzi “una vita in vacanza”. Tutti dimostrano, comunque, di non avere nessuna idea di cosa significhi combattere davvero con la precarietà e la disoccupazione: tra raccomandati figli di papà e imboscati in politica, nessuno di loro, o quasi, ha dovuto davvero far quadrare i conti a fine mese.
A noi, quindi, questo reddito non piace perché è insufficiente e pericoloso, perché è troppo poco, perché i soldi stanziati – che sono soldi nostri, del popolo, non dei ricchi che evadono e pagano la flat tax – potevano essere utilizzati meglio. Ora spieghiamo perché.
Innanzitutto smontiamo alcune bugie clamorose.
La prima è che sia un reddito. Se lo fosse, darebbe diritto ai contributi pensionistici, cosa che questo sussidio non fa, essendo quindi più simile alla Carta del docente o al bonus giovani 18app.
La seconda è che andrà ai poveri. Non è così, o quantomeno non andrà ai senza fissa dimora, perché costoro solo raramente riescono ad avere la residenza cd. “fittizia” (nonostante una legge che lo prevede, proprio per garantire l’accesso ai diritti fondamentali), e quindi difficilmente potranno dimostrare di risiedere stabilmente in Italia da almeno dieci anni. Come loro, così tante e tanti immigrati, tante e tanti in situazione di precarietà abitativa, occupanti case etc.
La terza è che siano davvero 780 euro. Dato che i soldi sono pochi, se le domande – nonostante le condizioni imposte – saranno tante, la cifra mensile diminuirà.
Chiariti questi passaggi, già importanti, veniamo al merito.
Per come è concepito, il reddito gialloverde nasce da un presupposto totalmente sbagliato, per cui il problema della disoccupazione in Italia sia dovuto ad un “disallineamento” tra domanda e offerta di lavoro, al fatto cioè che troppa gente non si sposta di casa per lavorare, o che il lavoro c’è dove non c’è gente per farlo. Tutto questo è quasi completamente falso. Prima della crisi, la disoccupazione era scesa sotto il 6%. Riesplosa con la crisi è dal 2012 che è fissa oltre il 10%. Accontentare gli imprenditori in tutti i modi, con incentivi, con contratti sempre più flessibili, con il dilagare del lavoro nero in attesa di controlli seri, non è bastato a farla calare. I problemi sono strutturali, il mercato può essere “lubrificato”quanto si vuole, la domanda e l’offerta costrette a incontrarsi, ma questo non cambierà la situazione. È vero che le offerte di lavoro sono sempre più concentrate in quella parte d’Italia, settentrionale, che è riuscita ad agganciarsi alla pur debole ripresina europea; è vero anche, però, che ciò è accaduto per un disinvestimento ormai trentennale dello Stato nella produzione e nei servizi, che ha reso il gap tra Nord e Sud sempre più ampio. Il lavoro non c’è, insomma, perché la struttura produttiva del nostro paese si è paurosamente rimpicciolita; perché siamo rimasti impantanati peggio di altri nella crisi del 2008; perché hanno chiuso tutte o quasi le grandi realtà produttive e quelle che restano cercano di tagliare il più possibile i posti, senza investire, per mantenere i profitti.
Non è vero che la gente non si sposta per cercare lavoro: da anni sono riprese le migrazioni interne e quelle verso l’estero, in grossa crescita, specialmente se si considera che molti non cancellano subito la residenza dal luogo di partenza, almeno finché non si sono stabilizzati. È forte anche il fenomeno del pendolarismo, non solo su distanze brevi ma anche su distanze medie (un caso emblematico è il pendolarismo dalla Campania a Roma del personale insegnante dell’infanzia e della primaria, ma in generale proprio il personale insegnante è stato protagonista di un enorme flusso verso Nord, nemmeno del tutto censito). Il reddito a cinque stelle vorrebbe smuovere ancora di più le persone, aumentando l’esodo interno già consistente, ma quanti si muoveranno per lavori precari e pagati poco e male? Quanti invece sceglieranno di tenersi il sussidio fino al terzo rifiuto, perché impossibilitati a trasferirsi?
Non è neanche vero che il problema è dei centri per l’impiego che non funzionano, o meglio: è vero che i centri non funzionano ma non è questa la causa della disoccupazione. Da anni prosperano, sulla miseria della gente, innumerevoli agenzie di collocamento private – presuntamente efficienti – ma la disoccupazione non è diminuita, anzi.
Insomma: il lavoro non c’è perché si insegue il profitto invece dell’interesse generale, non perché la gente non lo cerca o perché c’è ma nei posti sbagliati. C’è, lo abbiamo detto, una differenza tra Nord e Sud, ma le persone non avevano bisogno di quest’obbligo per partire per cercare un lavoro, infatti partono già. Oltretutto, se il lavoro c’è, è pagato malissimo, con contratti pessimi, tutto il contrario di un lavoro dignitoso che permetta di vivere.
Il lavoro pessimo, comunque, non sembra essere un problema del governo: dopo il cosiddetto Decreto Dignità, che nella fretta di far vedere di voler combattere il precariato ha creato più pasticci che altro (lo dimostra il caso della Abramo di Crotone), al Governo non sembra interessare rimettere mano al Jobs Act, ripristinare l’articolo 18, combattere davvero le forme atipiche di lavoro, il grigio, il nero, i contratti di merda. Tutto ciò scompare dalla loro agenda, tant’è che le uniche condizioni poste come “congrue” per accettare un’offerta di lavoro sono relative alla distanza. Quale? 100 km o 100 min la prima (Napoli-Roma col TAV rientrerebbe nel parametro); 250 km la seconda (da Firenze a Milano sono 250 km esatti in linea d’aria); per la terza nessun limite, e dopo un anno la situazione peggiora. Per comprendere quanto siano punitive le condizioni, si può tornare indietro con la memoria a quando, con la mobilità, il raggio entro cui ci si poteva spostare era di 50 km, e a salario equivalente…ma se facciamo un confronto con gli altri paesi capiamo ancora meglio.
In Francia fino al 2018 la prima e la seconda offerta dovevano essere nella zona scelta dal beneficiario, a salario pari, superiore o al massimo al 95% dell’ultimo percepito, mentre la terza, dopo sei mesi, a meno di 30 km dal luogo d’abitazione e all’85% del salario. Dal 2019 non ci sono indicazioni chilometriche e tutto è contrattato col proprio consigliere, ma si ha sempre il diritto di rifiutare offerte non congrue col proprio curriculum, col proprio profilo professionale e con i livelli salariali precedenti. In Germania, il paese col modello peggiore che non a caso ha ispirato i nostri governanti, dove si è costretti ad accettare qualunque lavoro, anche pagato 1 euro all’ora, stanno discutendo se ripensare il sistema perché, secondo autorevoli esperti, non ha contribuito a diminuire la disoccupazione ma a creare più lavori sottopagati e più nuovi poveri, cioè una vera e propria fetta di classe lavoratrice obbligata a lavorare con salari da fame perché appesa al filo della perdita del sussidio.
Le condizioni “chilometriche” imposte, inoltre, senza nessuna attenzione per i livelli salariali e le tipologie contrattuali, non tengono conto delle difficoltà legate al trasporto se non proprio al trasferimento in un’altra città, i cui costi rischiano di essere talmente elevati da rendere impossibile prendere in considerazione un’eventuale offerta di lavoro, tanto più se precaria o a un salario ridicolo. Si tratta, né più né meno, di un ricatto, simile a quello cui sono state sottoposte, ad esempio, le lavoratrici e i lavoratori di Almaviva Roma, a cui era stato proposto di continuare a lavorare a Catania, o, più di recente, le lavoratrici Ottimax di Napoli, a cui è stato “proposto” – pena il licenziamento – un trasferimento, sempre a Catania. Insomma, se sei disoccupato al sud, ti offrono un lavoro a Pordenone e non puoi andarci – perché hai famiglia, o perché il salario che ti offrono è troppo basso – perdi il sussidio, e ti daranno anche del fannullone!
Ciò dimostra, ulteriormente, che una misura di sostegno al reddito è importante, ma è destinata al fallimento se non si affrontano prima le questioni legate ai livelli salariali, alle tipologie contrattuali, al welfare e ai servizi. Senza parlare di questo, il reddito diventa una costosa e inutile misura di propaganda.
3. Che cosa si sarebbe dovuto e potuto fare, a parità di spesa?
Non vogliamo entrare nel merito del taglio dei fondi previsti per reddito e “quota 100”, quasi dimezzati rispetto alle già magre previsioni, ma preferiamo fare un ragionamento generale.
In un contesto, come quello dei paesi a capitalismo avanzato come il nostro, la crescita è ormai da anni asfittica. Le grandi realtà produttive appartengono al passato, e la necessità del capitale di fare profitti su tutto ha portato, negli anni, a sempre maggiori tagli e privatizzazioni: scuola, trasporti, sanità, alloggi, energia, assistenza, tutto ciò che serve al popolo per una vita dignitosa. La contrazione del settore privato e i tagli al settore pubblico hanno significato meno lavoro in generale e meno lavoro dignitoso in particolare, nel quadro di un peggioramento generale della qualità della vita: si lavora di più, per meno (l’Italia è uno dei paesi con il più alto numero di ore lavorate, alla faccia dei fannulloni).
Nessuno investe più: il privato, non lo fa più perché non ne ricava nulla in termini di guadagno; lo Stato non investe perché deve lasciare mano libera ai privati, o meglio “investe” regalando soldi ai privati che non lo fanno; la conseguenza è che, oltre a contrarsi, la produzione nei paesi a capitalismo avanzato – come negli altri – è vecchia, indietro con la ricerca, non adatta ad affrontare la più grave catastrofe che l’umanità rischia di correre, quella ecologica.
Un governo capace di visione non avrebbe, quindi, tagliato 5 miliardi agli investimenti, ma avrebbe raddoppiato i fondi; sarebbe intervenuto in tutte le situazioni di crisi aziendale – dalla Bekaert alla Treofan, dall’Ilva ai call-center – non lasciando chiudere tutto o consentendo alle grandi multinazionali di comprare senza garanzie e tutele per lavoratori, ma diventando direttamente responsabile delle imprese produttive a rischio, nazionalizzandole; avrebbe rilanciato su trasporti, scuola, sanità, alloggi popolari, per dare lavoro utile e una risposta ai bisogni delle persone. Un governo che ha vinto anche grazie alle lotte ambientali avrebbe fatto della trasformazione ecologica il centro del suo ragionamento. Invece tutto ciò che è riuscito a partorire è una mancetta repressiva, un reddito di sudditanza.
Secondo noi il ruolo dello Stato dovrebbe essere diverso: dovrebbe creare nuovi lavori estendendo i servizi offerti e nazionalizzando le imprese sane che rischiano la chiusura, o quelle dove ci sono state, da parte dei padroni privati, delle malversazioni; dovrebbe controllare ogni abuso nella committenza pubblica e togliere l’affidamento dei servizi alle aziende che commettono abusi, nazionalizzandole o assumendone in house i lavoratori per lo stesso servizio. Dovrebbe controllare, infine, che la sicurezza sul lavoro sia un dogma e che il valore del lavoro sia riconosciuto molto di più. Altro che 250 km, se devo spostarmi per un contratto precario e una paga da fame ho il dovere di restare a casa!
È anche giunto il momento di elaborare un ragionamento strategico sull’automazione e sulle sue conseguenze nei processi produttivi. Se è vero, come è sempre stato, che le nuove tecnologie riducono fortemente – ma non annullano – la necessità di manodopera, è l’ora che a beneficiarne non siano solo i padroni, anche perché sono le lavoratrici e i lavoratori che rendono concreto e materiale il progresso tecnologico. Un governo che dice di essere “del popolo”, dovrebbe avviare un ragionamento serio e approfondito sulla riduzione dell’orario di lavoro, a salario intero, studiando le sperimentazioni già attive in diversi paesi e conducendo una vera battaglia politica sull’argomento. È singolare che il Movimento di Grillo – che è passato dal luddismo all’esaltazione acritica delle nuove tecnologie – non si ponga minimamente il problema che l’Italia è uno dei paesi col maggior numero di ore lavorate in Europa (nel 2014 erano 1752 all’anno, contro 1393 della Germania).
4. Che cosa faremo?
Potere al Popolo si metterà concretamente a disposizione per aiutare chi ne ha diritto a percepire quanto gli spetta; vigilerà per far sì che questo non sia l’anticamera per cancellare, domani, altri sussidi come la Naspi; combatterà le agenzie e i padroni che prenderanno una parte dei soldi per l’attività di “collocamento” o “formazione”, o semplicemente perché assumono un percettore di reddito, che quindi lo porta “in dote” all’impresa. Lotteremo per allargare la platea, smascherando contemporaneamente la truffa che abbiamo evidenziato, e cioè che non si possono lasciar morire posti di lavoro per migliaia di persone senza muovere un dito e poi pretendere di aiutare quei futuri poveri con poche centinaia di euro mensili.
Ci stiamo organizzando per creare sportelli sul reddito presso ogni sede di Potere al Popolo!, dove oltre a dare un supporto tecnico lavoreremo per organizzare i percettori di reddito perché possano lottare contro le storture del provvedimento.
Ad ogni modo non staremo con le mani in mano: non le abbiamo battute per celebrare un finto reddito, non staremo fermi ad aspettare che fallisca, ma apriremo quotidiane contraddizioni e battaglie contro questa colossale presa in giro fatta con i soldi di tutti.
Non vogliamo mancette, ma lavori stabili e dignitosi!
Nazionalizziamo le imprese sane minacciate di chiusura!
Internalizziamo tutti i servizi pubblici, Poste, Ferrovie e gli altri settori strategici!
Lottiamo per trasporti, case, scuole, ospedali, mense per tutte e tutti!
Costruiamo un fronte contro il Governo che odia i poveri!
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