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Si fa presto a dire “State a casa”…

A fronte di quella che è stata da poco definita “pandemia”, certo è il consiglio più sensato.

Non fosse per “il problema” secolare che accompagna generalmente ogni “pandemia” o calamità, la terribile ricaduta sulle fasce sociali più deboli e meno tutelate.

E’ qui che si inserisce “IL” tema. La violenza. Violenza di Stato, violenza privata. Violenza che non conosce paura, violenza che non arretra e non si arresta di fronte a nulla. Neanche alle “pandemie”. Gli ultimi terribili fatti di cronaca parlano chiaro.

Sono questi infatti i momenti in cui lo Stato sociale viene alla “resa dei conti” e onestamente il risultato è abbastanza sconfortante: tutele della classe lavoratrice ormai inesistenti, previdenza sociale ridotta all’osso e sfratti di povera gente. Per non parlare delle condizioni allucinanti dei “senza voce”, carcerati e creature istituzionalizzate in maniera coatta (l’ultimo bambino, tolto alla mamma e rinchiuso in struttura, pochi giorni fa a Latina), terreno già fertile alla cronaca per “business” e abusi.

Esseri umani già costretti ad isolamento sociale forzato quando, per pochi giorni noi, ci sentiamo già male. Persone rinchiuse a cui centellinavano contatti col mondo e un po’ di umanità, morta anche quella col Coronavirus. I carcerati hanno avuto la forza per ribellarsi, pagando conti salatissimi… Le creature non hanno neanche questa forza e dal “mondo fuori” tutto tace.

Ci ritroviamo con un Sistema Sanitario Nazionale depauperato ed estremamente zoppicante, reso tale da 30 anni di scelte governative che definire scellerate è voler esser gentili.

E’ facile immaginare, dunque, quanto in questo frangente emergenziale possa essere difficile attuare il protocollo “Codice Rosso” (presa in carico delle vittime di violenza tramite accesso da Pronto Soccorso).

Spesso i muri di casa non sono affatto un “porto sicuro” per chi vive la violenza intrafamiliare e la scelta di denunciare o no, specie laddove vi sono minori, non sembra certo determinata o “influenzata” dal Coronavirus.

Le denunce sembrano essere disincentivate, paradossalmente, dalle istituzioni stesse, le quali ancora spesso fanno ritrovare la “sopravvissuta che ha osato” sul banco degli imputati, oppure sembra si “divertano” da tanti anni a togliere i figli alle madri che denunciano la violenza.

Come una cinquantina di anni fa, torneremo a “sperare” che i violenti vadano via di casa di loro sponte. Tantissimi i casi di cronaca e le testimonianze sulle pagine social del “Comitato Madri unite contro la violenza istituzionale”, della “Rete giù le mani dai bambini e dalle donne” e dell’Associazione “Maison Antigone”.

Oltre al danno, la beffa non poteva mancare. All’attuale “stato dell’arte” del nostro impoverito benessere sociale, si aggiunge la maledetta precarietà lavorativa; un’ulteriore spada di Damocle per le donne che decidono di denunciare la violenza, che spesso sono costrette a lasciare casa e lavoro e dover ricominciare tutto da capo.

Donne e madri sole e disoccupate o assunte con contratti inumani; è un fatto che con questa emergenza sanitaria diverse aziende hanno approfittato per tagli del personale “ad hoc”, dettati dalla poraccitudine etica valoriale di chi le dirige e questo certamente non giova neanche a chi da anni sostiene queste lotte di Liberazione.

Un’attivista Presidente di un’associazione di Milano impegnata quotidianamente su campo, dopo il licenziamento di 4 madri con minori a seguito, scrive «Prendendo un po’ troppo alla lettera il concetto di “state a casa”, i datori di lavoro di alcune delle donne sostenute hanno pensato bene di lasciarcele proprio, a casa, attingendo a piene mani dagli strumenti che il diritto offre: mancati rinnovi che fino a ieri parevano cosa fatta, sospensione dal servizio e dallo stipendio, ecc».

Ovviamente, come dice l’attivista, non è certo il momento di “girare per uffici” per improntare ricorsi e cercare ammortizzatori sociali. Unica via che resta sono le richieste via internet e non sono certo rasserenanti le risposte ricevute dall’attivista…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutto questo è estremamente avvilente. I protocolli antiviolenza delle Regioni prevederebbero inserimenti lavorativi agevolati e diritto all’abitazione, proprio in virtù della costrizione a dover stravolgere la propria esistenza a cui queste donne vanno incontro. Poco o niente è stato fatto a riguardo e fino ad ora.

Non vi sono ancora notizie o dati ufficiali riguardo la recrudescenza che in situazioni di “isolamento forzato” con persone violente può emergere, con ancor più probabilità.

I Centri Antiviolenza, i presidi sanitari e la Linea telefonica nazionale contro la violenza domestica su donne e minori (Telefono Rosa – 1522), dovrebbero comunque essere attivi. Non c’è notizia di alcun tavolo istituzionale straordinario e finalizzato allo scopo e non vi è stato ancora alcun comunicato regionale o metropolitano.

Non sorprendono i dati arrivati per ora solo dall’estero, che narrano di una recrudescenza delle violenze in casa come ovvio effetto collaterale dell’essere costretti a condividere la propria abitazione con uomini violenti e abusanti che non possono uscire.

State a casa” non dovrebbe essere solo mera campagna di profilassi o divenire motivo per invocare militarizzazioni feroci su territorio nazionale. “State a casa” dovrebbe portare al riconoscimento delle tutele fondamentali e ad una profonda riflessione sulla condizione di vita nostra e delle altre persone, della povertà e dell’inferno che è obbligato a vivere chi una casa non ce l’ha o dell’isolamento e la violenza, quella sì pestilenziale e irrisolta, che donne e minori vivono quotidianamente nell’indifferenza generale. In questi frangenti, c’è bisogno di tutta la nostra solidarietà.

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