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La lezione della rivolta di classe negli USA contro lo stato razzista di polizia

Il mondo dopo il Covid-19 ha fatto la sua irruzione nella storia umana dodici giorni fa, facendo la sua prima apparizione a Minneapolis, Minnesota, U.S., e incendiando rapidamente tutti gli Stati Uniti d’America fino a riecheggiare in una mobilitazione solidale globale senza precedenti.

Come solo alcuni sguardi materialisti e non deterministi avevano intravisto, questo mondo reca le fattezze di quanto si era andato accumulando nel mondo di prima della pandemia, tanto nella latenza delle contraddizioni quanto nelle lotte e nelle rivolte che le avevano messe in luce in precedenza.

Altrettanto significativamente, questo mondo appare insistere sui tratti specifici dell’emergenza Covid-19: i tratti che l’hanno resa tanto più assolutizzante e così diversamente percepita da una Sars o da un Ebola quanto più il virus e la sua gestione hanno investito anzitutto i centri propulsivi del mondo capitalista, del suo comando, alle latitudini del privilegio che lo ordina.

Dodici giorni di rivolta nella maggiore potenza politica e militare del mondo capitalista, che concentra tutt’ora i due terzi del capitale finanziario, sono stati generati da quell’ordine, da quel privilegio, da quel comando, dallo stato di polizia al quale tendono globalmente e dal razzismo sistemico al quale dà corpo istituzionale fin dall’accumulazione originaria.

L’assassinio razzista di polizia di George Floyd, quel “non respiro” gridato nell’agonia esattamente come aveva già dovuto gridare Eric Garner, le hanno innescate. Una goccia che ha fatto traboccare un vaso resosi visibile da ben prima della pandemia appunto con un lungo ciclo di lotte e rivolte, da Ferguson in poi, dalla seconda presidenza Obama all’ascesa di Trump, entrando in risonanza con altre lotte e rivolte, come quella contro la pipeline in Dakota, il movimento degli studenti contro il sistema dei debiti, il lunghissimo sciopero degli insegnanti partito dalla West Virginia.

Senza considerare quel ciclo e le forme con le quali si è risposto dal basso negli scorsi tre mesi allo stesso governo della pandemia, non si coglie il significato dell’estensione virale della rivolta in atto.

Una rivolta che ha già attraversato fasi diverse, tutte ugualmente significative: dapprima un dilagare violentissimo, immediatamente tradottosi in un attacco generalizzato, oltre che ai commissariati di polizia, alla proprietà e alla sua gerarchia concreta, le grandi catene, la grande distribuzione, le banche d’affari e finanziatrici del complesso militare-industriale dello stato di polizia, i brand del lusso, i centri di potere e simbolici del capitalista collettivo – e nella redistribuzione delle risorse tra la popolazione colpita dalla gestione di classe dell’emergenza, che aveva sommato militarizzazione delle città contro le “classi pericolose” alla loro esclusione da un sistema sanitario privatistico; poi in una massiva, cosciente persistenza nell’assedio ai centri di decisione, dalla Casa Bianca stessa ai poteri locali, e in un’interruzione permanente della normalità produttiva, paralizzando ogni giorno i flussi delle metropoli nella rappresentazione quotidiana di un movimento popolare sempre più politico.

Lungo un asse centrale intorno al quale si è andata articolando anche la dialettica politica che attraversa il movimento: ossia l’ultimatum della fine dello stato di polizia, la rivendicazione di massa del definanziamento, del disarmo e dell’abolizione della polizia medesima.

Come si vede, in questi dodici giorni di rivolta si sono dispiegati accumuli di esperienze e di pratiche tanto quanto sono venuti al pettine nodi politici che debilitano un intero sistema di rappresentazione istituzionale.

La transizione dello stato di polizia ad uno stato d’eccezione formale, gestito militarmente con lo schieramento della Guardia Nazionale nelle strade e la minaccia presidenziale di ricorso all’intervento dell’esercito regolare stesso invocando per la prima volta l’Insurrection Act del 1807, si è rivelata non facile e non scontata: anzi finora sembra rivelarsi come una tigre di carta, con la Guardia Nazionale ritirata dalla capitale e dalle principali città e le obiezioni degli alti gradi del Pentagono ad un coinvolgimento nella repressione emerse pubblicamente.

La stessa rivendicazione abolizionista nei confronti della polizia è divenuta il centro della contesa politica: con Donald Trump costretto trincerarsi letteralmente nel bunker della dottrina del “Law and Order” mentre le sedi legislative locali, contro l’imbarazzo dei sindaci democratici, sotto la pressione delle strade occupate dalla rivolta discutono e deliberano smantellamenti delle strutture poliziesche, come a Minneapolis, e il loro definanziamento, come a New York (il budget del solo NYPD ammonta a sei miliardi di dollari e supera la somma delle voci delle politiche sociali, d’istruzione e infrastrutturali del bilancio della Grande Mela) e in California.

Tutti i limiti e le trappole dell’opzione politica liberale, del progressismo formale vincolato alla compatibilità sostanziale con la riproduzione delle strutture di potere, sono esplosi malgrado i tentativi di recupero del movimento portati sin dentro le sue piazze con la ricerca della divisione tra “buoni” non violenti e “cattivi” violenti: limiti e trappole emersi non solo grazie agli automatismi delle pratiche repressive, alle cariche e agli arresti di massa su cortei pacificati come a NYC e non solo nel fine settimana scorso, alla gasatura delle folle dopo che governatori e sindaci avevano appena proclamato sospensioni per 30 giorni dell’impiego dei lagrimogeni, al bilancio sempre crescente di una repressione arrivata a varcare la soglia di diecimila arresti e una dozzina di altre vittime in piazza; ma soprattutto al cospetto del proprio contenuto politico dell’adesione di massa al movimento, quel rifiuto, quell’ultimatum allo stato di polizia.

Se la fotografia della condizione politica del trumpismo è stata la navicella spaziale privata dell’alleato miliardario cibernetico Musk messa in orbita mentre sulla Terra ardeva l’incendio della rivolta contro l’oppressione sistemica, l’immagine della condizione politica liberaldemocratica si è fissata nel battibecco pubblico di due giorni fa tra l’icona progressista del partito democratico Ilhan Omar, giunta in sostegno alla maggioranza formatasi nel consiglio comunale per lo scioglimento del dipartimento di polizia, e il sindaco democratico di Minneapolis, sul luogo stesso del delitto, davanti allo straordinario memorial spontaneo di George Floyd.

Una rivolta è una rivolta è una rivolta. E una rivolta sociale contro la stato di polizia e il suo razzismo sistemico è una rivolta sociale contro lo stato di polizia e il suo razzismo sistemico è una rivolta sociale contro lo stato di polizia e il suo razzismo sistemico.

Una rivolta che ha raggiunto la forza di imporsi all’urgenza della decisione politica: che giunge a toccare i suoi limiti appunto sistemici. Il suo esito è impregiudicabile quanto un suo sbocco definitivo: esito e sbocco certamente difficili nella misura dell’altezza e dell’intensità del conflitto che si è imposto.

Ma non dev’essere un caso se l’ulteriore mobilitazione di solidarietà diffusasi globalmente raggiunge livelli di sollevazione, quando non proprio di rivolta, là dove il portato razzista sistemico del capitalismo avanzato è custodito dall’esperienza coloniale e dei ghetti post-coloniali e dove, insieme, lo stato di polizia si è più integrato a una società di controllo maggiormente sviluppata: dai numeri enormi delle piazze di giovani in Australia e Nuova Zelanda, dove erompe la questione del genocidio culturale sul quale si è fondato lo sviluppo medesimo, ai riot e alle storiche dissacrazioni del retaggio schiavista nel Regno Unito, in Francia, in Belgio.

Una nuova generazione, cresciuta nell’economia della promessa del capitalismo digitale e nella precarietà costitutiva della stessa vita metropolitana, sta esibendo in generale la sua secessione dalle strutture di potere che stanno portando il pianeta al disastro – e infatti si era già rivelata nelle piazze sul cambiamento climatico.

E simultaneamente indica una fragilità del tentativo più minaccioso di recupero delle contraddizioni, l’opzione reazionaria, autoritaria, xenofoba, patriarcale che aveva eroso in questi anni la governance liberale.

Che cosa significa questa esplosione di conflitto sociale e di classe su un terreno tanto radicale come la natura socialmente e razzialmente criminale dell’istituzione della polizia, dovrebbe interrogare i limiti del dibattito politico sullo stato di eccezione articolatosi sotto il regime del lockdown pandemico.

Occorrerebbe riconoscere che i fatti si sono incaricati di falsificare entrambi i poli principali di una dialettica dimostratasi piuttosto sterile quanto alla produzione di qualsiasi forma di manifestazione di autonomia dal governo dell’emergenza: per un verso l’assolutizzazione dell’eccezione stessa, la visione di un dispositivo di comando totalitario e totalizzante che si sarebbe imposto definitivamente con quel governo emergenziale si è dimostrata strabica, incapace di vedere di contro ai dispositivi le proprie forme di vita che vi resistono, i corpi viventi e sociali in conflitto coi quali si ordina e si misura il potere; simmetricamente, la minimizzazione della questione dello stato di polizia e l’economicismo che guardava all’emergenza come a un’occasione di espansione negoziale di rivendicazioni sociali si mostrano completamente distonici rispetto alla materialità dei conflitti e del potere medesimo.

Fare i conti con questa verifica dei fatti non è un mero esercizio teorico: è una necessità politica, sempre che si voglia arrivare a sciogliere i nodi dello stato di minorità politica dell’opposizione e dell’antagonismo al comando capitalista e alle sue forme liberali e reazionarie. In ogni caso, questa verifica è essenziale a qualsiasi discorso di resistenza reale alle misure repressive, al legalitarismo sicuritario, al panpenalismo giuridico, alla deriva carceraria.

Ogni situazione ha le sue specificità determinate ma è un ottimo segnale che, sia pure nella distanza, come negli Stati Uniti le reti di solidarietà sociale autorganizzata fiorite sotto la cappa del contraddittorio governo del lockdown si sono riarticolate nella viralità della rivolta, in Italia la faticosa manifestazione di una solidarietà alle piazze statunitensi ha visto finalmente nello scorso fine settimana le prime rotture di massa di quella stessa cappa: la tracimazione generazionale delle piazze che i centri di potere mediatico avevano già destinato a un certo recupero liberale e compatibilista (e bene ha fatto chi ha scelto di misurarsi nelle piazze stesse perché quel recupero non si batte certo perimetrandosi nell’autorappresentazione) si è tradotta sabato a Torino e domenica a Milano in spontanei cortei di massa, che hanno travolto le ingiunzioni dei decreti sicurezza e della loro cristallizzazione giustificata con la pandemia. E non si è fatta attendere la minaccia di ritorsioni repressive.

Ogni situazione ha le sue specificità determinate e quali saranno le forme con le quali prenderà corpo in Italia una nuova fase di resa dei conti sociale con la verità che i governi non contano più che sulla loro polizia, come è stato detto nella Francia dell’altro grande ciclo di lotte che ha segnato questi ultimi anni, ce lo diranno i fatti: i quali intanto ci dicono che questa nuova fase è aperta.

* da Osservatorio contro la Repressione

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