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Chi sono i “fregati” dalla globalizzazione e dal lockdown?

Sabato 21 novembre la pagina Facebook di Eurostop Parma ha ospitato la conferenza online “I fregati: dalla globalizzazione al lockdown – partite IVA, collaboratori, lavoratori”, che ha visto la partecipazione della Piattaforma Eurostop, del collettivo di economisti Coniare Rivolta e di Massimiliano Gazzola di Spread It.

L’appuntamento ha avuto l’obiettivo di ampliare il punto di vista in termini sociali e “di classe” rispetto a quella che oggi possiamo chiamare “sinistra radicale”, o comunque rispetto a quel mondo che ancora si riconosce nei valori del marxismo e dell’antiliberismo al contrario della sinistra “ufficiale”. Questa è incarnata ovviamente dal Partito Democratico ma anche dalle sue propaggini variamente critiche “a sinistra”, quei “coraggiosi” (per usare un’espressione significativa nel contesto emiliano-romagnolo) che si ergono a guida morale e motore propulsivo di un’azione politica “progressista” nell’ambito di una collaborazione con il sistema di potere dominante.

Questi, grazie all’assimilazione ideologica di tutti i dogmi neoliberali ben rappresentati dall’Unione Europea, non possono che svolgere contemporaneamente il ruolo di stampella elettorale e di alibi per un partito che pochi decenni fa sarebbe stato definito “di destra” nel senso comune e che oggi, grazie al supporto delle componenti “critiche” e funzionali al discorso del fronte comune contro la deriva fascista degli avversari politici, può darsi una pennellata di verde sbiadito e di arcobaleno per presentarsi come autorevole erede della tradizione del PCI nelle regioni rosse.

Se quindi il matrimonio del Partito Democratico, nelle varie componenti di sistema, con il libero mercato e il suo abbandono dell’orizzonte socialista è ormai esplicito e, anzi, spesso motivo di vanto (basti pensare a Bersani e alla sua battaglia per le liberalizzazioni), desta spesso stupore la scarsa attenzione che l’area della sinistra alternativa rivolge a tutti quei soggetti che avevano goduto di palesi miglioramenti sociali ed economici nei celebri “trent’anni gloriosi” del dopoguerra, anche e soprattutto sulla spinta delle battaglie da questa condotte, e che a partire dalla riscossa neoliberale degli anni ’80 stanno scivolando con sempre maggiore velocità nel proletariato classicamente inteso.

La globalizzazione e le conseguenti politiche degli ultimi trent’anni hanno quindi lentamente sgretolato la classe media cresciuta nella fase precedente, in particolare nel suo strato più basso e in quella che in genere si tende a chiamare piccola borghesia.

Uno studio OCSE del 2019 dal titolo “Under pressure: the squeezed middle class” fotografa questa tendenza ed evidenzia il restringimento della fascia di reddito da 15 a 26mila euro, che diminuisce del 2,9% solo negli ultimi dieci anni, e il contemporaneo allargamento di quella che arriva fino a 55mila, andando a confermare ciò che molti liberali ci ripetono da tempo: è vero che la globalizzazione rende più ricchi, ma solo chi ricco in un qualche modo lo era già e può godere dei vantaggi della libera circolazione di capitali e merci investendo fruttuosamente il capitale già accumulato.

Le disuguaglianze quindi crescono e lo strato intermedio si assottiglia, insieme a quelle garanzie e a quelle sicurezze conquistate in decenni di lotte. Non è d’altronde più il tempo delle grandi masse, della comunità che cresce e avanza compatta, bensì dell’individuo di tatcheriana memoria, dell’imprenditore di sé stesso.

Nell’Italia globalizzata esplode il fenomeno delle partite IVA, sintomo di un mercato in crisi in cui vengono a mancare le possibilità di assunzione da parte del privato e, soprattutto, dallo Stato piuttosto che segnale di uno scenario frizzante e dinamico come vogliono farci credere. Come è stato ricordato nell’intervento di Coniare Rivolta, il nostro Paese vanta il 23% di lavoratori autonomi sul totale dei lavoratori, una percentuale altissima rispetto agli altri paesi europei e ancora più sorprendente se pensiamo che la maggioranza di essi, ovvero circa 3.400.000, sono lavoratori senza dipendenti.

Qui è necessario comunque fare una distinzione ai fini della nostra tesi: il fenomeno delle finte Partite IVA, ovvero tutti quei lavoratori di fatto subordinati ma inquadrati come lavoratori autonomi per convenienza del datore di lavoro, a nostro avviso non va nemmeno discusso in termini di appartenenza o meno alla classe cosiddetta lavoratrice. Essi ne fanno parte automaticamente, e qui il problema di natura ideologica si risolve una volta rivelata l’effettiva condizione di questi soggetti, a tutti gli effetti esterni al concetto classico di “padronato” e oggetto di reale sfruttamento capitalistico.

I protagonisti del nostro discorso vogliono invece essere le “vere” partite IVA, quelle di dimensioni ridotte e composte da bottegai, piccoli artigiani, piccole imprese famigliari con uno o due dipendenti. Questo mondo estremamente vasto e caratteristico della tradizione lavorativa del nostro Paese, non solo non ha potuto godere dei presunti vantaggi della globalizzazione ma da essa è stata addirittura esclusa. La crescita delle grandi concentrazioni di capitale, italiano ma in particolare straniero, ha messo al margine questi soggetti, inermi di fronte a una concorrenza così spietata.

Gli attacchi non sono però soltanto di natura competitiva, bensì più strutturali, essendosi venuto a creare un contesto in cui ben pochi di loro possono ambire a sopravvivere – e poco più di questo –  mentre tutti gli altri devono necessariamente desistere o essere mangiati da pesci più grossi.

Il contesto è ovviamente la citata controffensiva neoliberale al modello economico del primo dopoguerra, quello che sulla spinta delle grandi lotte politiche e sindacali, sui movimenti di massa e sul contraltare di un modello alternativo “nemico” come quello dell’Unione Sovietica rispetto al quale il potere doveva comunque dipingersi come “umano” pur nelle proprie contraddizioni capitalistiche, ha portato avanti un’economia mista, in cui l’intervento dello Stato aveva un ruolo fondamentale e in cui l’iniziativa privata spesso dipendeva da quest’ultimo. Crollati questi pilastri per i motivi già ampiamente descritti, si è aperto un processo di privatizzazioni, liberalizzazioni e più in generale di progressiva perdita dei diritti faticosamente conquistati.

Questo vale per i lavoratori classicamente intesi, ma anche per i soggetti in questione: essi sono accerchiati da un lato dalle sempre più risicate tutele sociali (sanità, previdenza, agevolazioni) prodotte da uno stato “minimo” o comunque attivo solamente per sostenere il mercato e il capitale “che conta”, dall’altro proprio da quest’ultimo, al quale viene data la possibilità di, letteralmente, spadroneggiare e imporsi con la sua forza e le sue capacità economiche non paragonabili alla piccola imprenditoria locale. Le sbandierate liberalizzazioni delle licenze, degli orari, delle categorie merceologiche non hanno certo permesso a nuove generazioni di imprenditori di inserirsi in un mercato ingessato da eccessivo corporativismo, bensì hanno avvantaggiato i grandi conglomerati industriali, le catene internazionali, la grande distribuzione organizzata e in generale tutti quei soggetti che, grazie alla propria dimensione, possono permettersi di tenere aperto 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 e in generale di sottostare alle regole/non regole del gioco.

Ai piccoli imprenditori è lasciata la libertà di provare tenacemente a resistere a questo duello impari, magari adottando soluzione innovative e “smart” al vecchio e stantio modello di business, oppure di essere assorbiti dalle organizzazioni più grandi e diventare per essi dipendenti con turni massacranti e condizioni lavorative inferiori. Qualcuno lo chiamerebbe darwinismo sociale, a noi viene invece venduto come la naturale evoluzione del mondo, non certo prodotto di scelte politiche precise e ragionate bensì il fisiologico scorrere della Storia fino allo stato di cose migliore per il cittadino, ovvero il consumatore, di certo mai il lavoratore.

Le partite IVA e i piccoli imprenditori sono coloro che hanno riempito le piazze nelle scorse settimane, spaventati dalle nuove chiusure e dalle promesse di ristori economici che si sono rivelati insufficienti già nel corso della prima ondata del virus. Hanno aderito a piazze e parole d’ordine lanciate dalla destra come spesso hanno appoggiato elettoralmente partiti di destra quali Lega e Fratelli d’Italia. Questo non ci deve stupire: sono proprio queste formazioni politiche ad essere più vicini a quel mondo, a includerlo apertamente fra la propria rappresentanza e a proporre soluzioni per alleviare la loro condizione. L’appoggio è però solo apparente: a fronte di flat tax e altri interventi in teoria a favore di queste categorie, i partiti della destra italiana non escono dall’alveo dell’ideologia liberale e finiscono per appoggiare buona parte delle politiche di austerità dell’Unione Europea che sono alla base di questi sconvolgimenti sociali.

In tutto questo la destra non si distingue dalla sinistra neoliberale, essendo entrambi concentrati nel mettere in evidenza soltanto le periferie e i “ghetti”, le condizioni sociali più estreme e legate in genere soprattutto al fenomeno migratorio: la prima in un’operazione di critica e di messa al bando (pensiamo ad esempio alla battaglia per la chiusura dei porti), la seconda invece in un acritico movimento di appoggio e integrazione. In tutto questo a rimanere escluso dal quadro è proprio il mondo di cui abbiamo parlato, quello formato da chi nella miseria ci sta scivolando e che, insieme ai lavoratori dipendenti sfruttati, è maggioranza e rappresenta il vero bacino di scontento del Paese.

Ignorati quindi dalla sinistra liberale del PD che vince nei quartieri ricchi dei centri urbani e ingannati da una destra che propone correttivi ma avalla un sistema a loro nemico, ci si chiede allora perché le piccole partite IVA non rientrino tra gli interlocutori della sinistra radicale.

Perché il punto è soprattutto questo: la “classe” di riferimento di una sinistra classicamente intesa non può oggi essere la stessa degli anni ’70, non può rifarsi sempre alla classe concepita ancora in senso operaista mentre il nostro mondo ha subito sconvolgimenti sociali di portata epocale. In questo periodo storico la classe di riferimento deve includere l’operaio, deve sicuramente includere l’immigrato, ma non può ignorare la piccola borghesia oggetto di sfruttamento e di progressivo depauperamento da parte del sistema neoliberale.

Parliamo di vittime della globalizzazione alla pari degli altri proletari, non certo padroni o borghesi come la parte più ricca della classe che, come abbiamo visto, da queste dinamiche ci sta in gran parte guadagnando. Intercettare questi ceti e le loro esigenze è una sfida non semplice, ma sicuramente necessaria se si ha intenzione di rappresentare pienamente gli sfruttati dal sistema capitalistico nel nostro contesto storico.

Ci troveremo di fronte sicuramente a sensibilità e parole d’ordine differenti rispetto a quelle a cui siamo abituati nei tradizionali campi di lotta, ma non facciamoci illusioni: l’individualismo e la logica di sopraffazione dell’ideologia neoliberale è introiettata nel bottegaio o nel piccolo imprenditore tanto quanto nell’operaio o nel lavoratore dipendente. Di più: la storica lontananza dal messaggio marxista di questi settori non può essere un alibi per lasciare scoperto questo campo o, peggio, consegnarlo alla destra con le sue false promesse. Il campo è il nostro, perché è il campo degli sfruttati dal capitale.

Questo ci obbliga a ragionare su questi soggetti e anche a inquadrare correttamente lo scontento che da essi deriva: in che modo il blocco delle vetture Euro 4 e l’aumento delle accise sul diesel non dovrebbe interessarci se quella che vogliono venderci come transizione ecologica, non accompagnata da veri investimenti sul trasporto pubblico o dalla sostituzione delle vetture private inquinanti, va a colpire tutte quelle persone che sono costrette a spostarsi ogni giorno? Non parliamo di privilegiati, ma molto spesso di veri e propri proletari che hanno investito ingenti somme dei loro poco lauti stipendi per poter raggiungere l’attività lavorativa che permette loro di mettere la cena in tavola.

Può sembrare un esempio bizzarro, ma è in realtà significativo di politiche che colpiscono la maggioranza della popolazione (il ricco borghese non avrà mai questo problema, potendo permettersi vetture elettriche o poco inquinanti) ma che vengono ignorate dalla nostra area politica perché assimilate a rivendicazioni “di destra”, di ceti produttivi afferenti all’altro campo.
Da questo punto di vista hanno effettivamente ragione, perché sempre alla destra si rivolgeranno se solo loro si dimostreranno ricettivi verso le loro istanze. È tempo quindi a nostro avviso di cambiare atteggiamento e di comprendere la classe per quella che realmente si presenta nel 2020, ovvero un gruppo estremamente variegato di soggetti sociali accomunati dalla condizione di sfruttamento e subalternità al sistema neoliberale, senza pregiudizi legati a vecchie categorie non più valide.

A conclusione dell’iniziativa, abbiamo deciso di utilizzare un passaggio di Marx preso dal Manifesto del Partito Comunista:

Quelli che furono finora i piccoli ceti intermedi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all’esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto coi nuovi modi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.

L’iniziativa è visibile integralmente sulla pagina Facebook di Eurostop Parma o sul canale YouTube al seguente indirizzo:

https://www.youtube.com/watch?v=xFrBiVs3O9w&t=4472s&ab_channel=EurostopParma

 

*Piattaforma Eurostop Parma

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