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Sul Recovery fund si gioca la gerarchia nell’Ue post-pandemia

La maggioranza di governo alla fine ha trovato un canale di dialogo sulla task force per il Recovery fund. Tra il premier Conte e i ministri di Italia Viva guidata da Matteo Renzi la tregua di Natale prende forma nelle parole del premier. Riconosco che sul Recovery fund e sulla struttura di governance l’approfondimento politico è stato messo in ombra dal lavoro dei tecnici, c’è stato un deficit di coinvolgimento […]. Nei prossimi giorni troveremo la formula migliore, un punto di equilibrio fra le esigenze di collegialità e la necessitò di efficienza dei progetti”, ha detto Conte.

La squadra inizialmente composta dal triumvirato Conte-Gualtieri-Patuanelli con l’ausilio di una fronda di tecnici verrà probabilmente ripensata in favore delle forze attuali (proprio come persone fisiche) che compongono il governo.

Come ben evidenziato da Coniare rivolta, in ballo in realtà non ci sono una montagna di soldi in più rispetto a quanto già normalmente il paese si è trovato a gestire durante l’ultimo settennato.

Il “valore” del Recovery fund è piuttosto di natura “politica”, e si gioca su due aspetti: la direzione degli investimenti e i livelli di governance per la gestione dei fondi, aspetti che devono essere adeguati a far sì che l’Unione europea non perda altro terreno nella costituzione di un blocco politico-economico omogeneo (e imperialista) nel confronto con gli altri competitor, soprattutto Usa e Cina.

Sul primo aspetto, parole come digitalizzazione, innovazione, transizione ecologica, infrastrutture, formazione ecc., sono all’ordine del giorno e indicano settori di investimento determinanti per un modello di sviluppo – tutto interno al Modo di produzione capitalistico – che renda più autonoma l’Unione europea dagli altri blocchi, soprattutto in termini di tecnologia (nei suoi più svariati usi, dall’automazione alla sicurezza digitale ecc.), approvvigionamento energetico e alimentare.

Sul secondo invece la partita è più sottile, ma non per questo meno decisiva. Come ha scritto martedì sulle pagine de il Sole 24 Ore Andrea Filippetti, le politiche di coesione sociale sono fondate su un modello bottom-up in cui le Regioni svolgono un ruolo importante su programma, indirizzo e controllo di spesa.

Viceversa, nel caso dei fondi provenienti dal Recovery, si va delineando un approccio di tipo top-down […], lo scarso coinvolgimento delle regioni, almeno di fino a ora, lascia presagire una piena regia del governo centrale […]. L’articolazione territoriale degli interventi avrà una regia centrale, più simile a una logica di politica industriale che alla logica della politica europea di coesione”, scrive Filippetti.

Il punto è evidentemente della massima importanza. Se l’Ue vuole diventare un “sistema-mondo” in grado di competere ai massimi livelli, deve dotarsi anche a livello di Stati membri delle strutture politiche in grado di governare il processo.

Per far questo, lo sviluppo interno dei paesi deve ritrovare una centralità di direzione che eviti le baruffe inscenate dai vari presidenti regionali, impegnati più al consolidamento del consenso locale che non alla coesione, sia produttiva che sociale, col resto del territorio nazionale.

È in questo quadro che la gerarchia dei livelli di governance dell’Ue all’interno degli Stati membri tendono alla perdita di peso per un livello fino a oggi assoluto protagonista della gestione dei fondi Ue, ossia le Regioni.

Da un triplice livello di governance – Ue, Stato, Regioni –, si va allora verso un doppio livello – Ue e Stato – guidato dalla ricentralizzazione dei processi di scelta direttamente nelle mani degli organismi statali. Non a caso, la bagarre Renzi-Conte si è svolta tutta all’interno di questo perimetro, dove semmai la discussione è sull’esternalizzazione della gestione dei soldi a organismi tecnici fuori dall’area della maggioranza, e non sul coinvolgimento degli enti locali.

Nota a margine, l’operazione è inoltre rilevante per la sottrazione di margini di manovra al centrodestra, alla guida in tre-quarti delle Regioni del paese. Per la Lega, è l’ennesimo rinculo dovuto alla sparata salviniana dell’estate 2018 che staccò la spina al primo governo Conte.

Rientrando in focus, sul tema è intervenuto Romano Prodi in un’intervista rilasciate al Corriere di ieri, indicando la via per la riorganizzazione dei processi decisionali.

Riferendosi ai documenti prodotti dal governo fino a oggi, Prodi afferma che “non si affrontano due problemi: quali debbono essere le autorità chiamate a decidere e quali le procedure e gli atti necessari per arrivare alle decisioni […]. Il coordinamento delle decisioni deve fare capo ad una struttura finalizzata allo scopo.

Noi ne abbiamo una, il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), che esiste ancora anche se depotenziato. Va rafforzato, anche inserendo consulenti esterni. Ma dico ‘consulenti’ non a caso. Dev’essere lo Stato a tenere le fila […]. Le grandi decisioni politiche, come il collegamento con regioni e Parlamento, non possono non essere in mano al governo”.

Chiusura del cerchio. Non il Parlamento, né gli enti locali (che siano Regioni, Città metropolitane ecc.), ma che sia l’esecutivo nella struttura del Cipe – che nel 2021 diventerà Cipess, Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile – a gestire i soldi provenienti da Bruxelles.

Tuttavia, in questo non c’è nessuna buona notizia per il popolo fatto di lavoratori, studenti, pensionati, migranti, lo scontro infatti è tutto sul livello di competizione necessario a rendere la borghesia nazionale conforme a quella transnazionale nello scontro contro gli altri blocchi.

Nessun dossier sulla redistribuzione della ricchezza o sulla riduzione delle diseguaglianze campeggia ancora, se non formalmente, sui tavoli del governo, a Roma come a Bruxelles.

L’obiettivo, in fin dei conti, è di rendere lo sfruttamento sostenibile, non certo di mettervi fine.

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