Come abbiamo visto nelle puntate precedenti, una parte delle famiglie di Cosa Nostra decide di rompere gli indugi. Nel 1992 suoi interlocutori politici di sempre si stanno disgregando, le garanzie dentro la magistratura si affievoliscono e la struttura del business viene “sollecitata” dai nuovi processi che avvengono nell’economia del paese, dell’Europa e del mondo.
Una parte delle famiglie mafiose – i corleonesi e qualche altro – pensano che occorra intervenire per far sì che tutto resti come prima, altre intuiscono che i suggerimenti che gli arrivano dai colletti bianchi e dai nuovi interlocutori politici chiedono un cambio di passo e di metodo.
In questa prima fase del 1992 prevalgono i vecchi metodi e i vecchi interessi delle organizzazioni mafiosi e dei loro interlocutori. I rapporti costruiti negli anni d’oro consentono di mettere in campo una operazione in grande stile: l’attentato al giudice Falcone del 23 maggio 1992.
Ci avevano provato anche tre anni prima alla villa dell’Addaura, ma qualcosa era andato storto. Due agenti di polizia vicini ai servizi – Nino D’Agostino ed Emanuele Piazza – che sapevano troppo su quell’attentato fallito del 20 giugno 1989 alla villa di Falcone, morirono in tempi brevissimi.
Il primo ucciso nella sua casa il 5 agosto del 1989, il secondo è scomparso il 30 maggio del 1990 e non è più stato trovato. Prima di Falcone vengono mandati altri due segnali pesanti alle autorità politiche e statuali: l’omicidio del dirigente democristiano Salvo Lima il 12 marzo 1992 e l’omicidio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli il 4 aprile 1992.
Per uccidere clamorosamente Falcone si mette in moto una operazione complessa dal punto di vista militare che produrrà l’attentato e la strage di Capaci nel maggio del 1992. “Non penserà mica che fu opera soltanto di quattro mafiosi?”, dice un ex membro di Gladio a Stefania Limiti, autrice del libro “Doppio livello”. Le informazioni di cui dispongono gli attentatori, la logistica e il materiale esplosivo effettivamente sembrano andare piuttosto al di là dei killer di mafia.
Ad esempio, secondo il giudice Tescaroli, l’artificiere dell’attentato di Capaci sarebbe un esperto di esplosivi: Piero Rampulla. Si tratta di un fascista che ha militato in Ordine Nuovo. Di lui come possibile artificiere di Cosa Nostra parla anche il pentito/collaboratore dei carabinieri Luigi Ilardo (la fonte Oriente del capitano dei carabinieri Riccio), ucciso senza alcuna protezione nel 1996. Rampulla non è un fascista qualsiasi, ha rapporto con i servizi e con gli emissari mafiosi “saliti al Nord”.
E’ dopo questo attentato che si mette in moto il processo che porterà alla prima parte della trattativa Stato-mafia. Dalle risultanze processuali, emerge che i primi contatti tra il capitano dei carabinieri Di Donno e Vito Ciancimino vengano avviati ai primi di giugno 1992, due settimane dopo l’attentato a Falcone.
Il generale dei Carabinieri, Mori, è informato di questo ed è informato anche dei contatti avviati da un altro ufficiale dei carabinieri, Roberto Tempesta, con il boss di Altofonte Antonino Gioè (trovato morto impiccato nel carcere di Rebbibia il 29 luglio 1993).
Ma mentre qualcuno tratta, altri spingono per una linea dura contro la mafia: il Consiglio dei Ministri, l’8 giugno 1992, approva il decreto Scotti-Martelli che introduce il 41bis nelle carceri. Il giudice Borsellino sostiene questa posizione e si configura come un ostacolo alla trattativa.
Sembra che Riina disse a Brusca che la trattativa si era improvvisamente interrotta e c’era “un muro da superare”. Questo muro, questo “ostacolo” venne rimosso con l’attentato mortale del 19 luglio 1992 in via D’Amelio e l’uccisione di Borsellino.
La trattativa, o meglio la prima fase della trattativa, adesso può cominciare e viene affidata sul campo ad un gruppo di ufficiali del Ros dei carabinieri con forti legami con e nei servizi segreti. La politica ovviamente “finge” di non sapere, ma in realtà anela di sapere come stanno andando le cose e se la prima offensiva delle stragi contro uomini dello Stato si fermerà o meno.
Il processo di Palermo, ha cercato di chiarire sostanzialmente questa prima fase della trattativa. L’indagine della procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia è durata quattro anni e ha preso il via dalle dichiarazioni e dalle produzioni documentali di Massimo Ciancimino, figlio del più noto Vito.
Gli indagati dalla procura di Palermo sono in tutto dodici. Ci sono i padrini di Cosa Nostra Totò Riina, Giovanni Brusca, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà che avrebbero condotto la trattativa per conto di Cosa Nostra.
Poi ci sono ben tre alti ufficiali dei carabinieri come Antonio Subranni (processato come autore del depistaggio sull’assassinio di Peppino Impastato, ma salvato dalla prescrizione), Mario Mori e Giuseppe De Donno, personaggi di vertice del ROS dei Carabinieri, protagonisti secondo la ricostruzione dei pm per aver agevolato “un canale di comunicazione finalizzato a sollecitare eventuali richieste di Cosa Nostra”, così come il “protrarsi della latitanza di Provenzano, principale referente mafioso della trattativa”.
Nel processo che ha coinvolto per questo specifico caso, il gen. Mario Mori è stato assolto in primo grado. Ma nuove prove contro il generale Mario Mori sono state presentate dal pg di Palermo, Roberto Scarpinato all’apertura del processo d’appello per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano.
Scarpinato ha chiesto la riapertura dell’istruzione dibattimentale e l’acquisizione di numerosi documenti, tra cui atti «classificati» dei servizi segreti, sulla carriera di Mori e su vari episodi dai quali emergerebbero pratiche investigative «opache».
Tra i nuovi episodi contestati dall’accusa anche una condotta depistante che nel 1993 impedì la cattura a Terme Vigliatore, nel Messinese, del boss catanese Nitto Santapaola. Il criterio ispiratore dell’acquisizione delle «nuove prove», fa riferimento al fatto che, secondo Scarpinato, Mori avrebbe operato per «finalità occulte», per «disattendere doveri istituzionali» come ufficiale di polizia giudiziaria e venendo meno «all’obbligo di lealtà» nei confronti dell’autorità giudiziaria.
Nel processo di primo grado il generale Mori e il suo braccio destro Mauro Obinu sono stati assolti «perché il fatto non costituisce reato».
Nel processo palermitano per la prima fase della trattativa Stato-mafia, come impuitati ci sono poi i personaggi della politica, ma è poca roba.
C’è Calogero Mannino, all’epoca ministro e secondo l’accusa apripista dei primi contatti con i boss e per aver esercitato, dopo le stragi del ’93 «indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario».
C’è poi l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, e c’è poi il burattinaio di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri. Dei tre forse è il più importante.
Infine c’è Massimo Ciancimino accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per il ruolo di ‘postino’ tra il padre e i capimafia, e di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, perché avrebbe prodotto un biglietto contraffatto attribuito al padre Vito, secondo cui il misterioso signor Carlo/Franco che sarebbe stato il contatto dei servizi segreti per la trattativa con Cosa Nostra avrebbe risposto al nome dello stesso De Gennaro.
Dunque, sulla base di quello che fino ad oggi c’è a disposizione sul piano giudiziario, si potrà, nella migliore delle ipotesi, fare luce sulla prima fase della trattativa Stato-mafia. Ma è la seconda fase della trattativa quella che ha portato ai risultati consolidati che hanno caratterizzato la vita politica, economica ed istituzionale del nostro paese fino ad oggi. E’ quello che abbiamo ancora sotto gli occhi attraverso i sistemi criminali.
Per farci capire useremo le parole assai chiare del procuratore Scarpinato in una intervista del febbraio 2009 ad Antimafia Duemila: “I sistemi criminali sono una sorta di tavolo dove siedono figure diverse, non tutte necessariamente dotate di specifica professionalità criminale: il politico, l’alto dirigente pubblico, l’imprenditore, il finanziere, il faccendiere, il portavoce delle mafie. Ciascuno di questi soggetti è referente di reti di relazioni esterne al network ma messe a disposizione dello stesso. Il sistema è modulare nel senso che, a secondo della natura degli affari e delle necessità operative, integra nuovi soggetti o ne accantona altri. I diversi tavoli di lavoro pianificano la divisione dei compiti per conseguire il risultato del controllo di ampi settori delle istituzioni, dei centri di spesa, e della spartizione delle opere e dei fondi pubblici”.
E’ una fotografia che ci scorre sotto gli occhi piuttosto frequentemente.
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