Luglio, in Italia, è iniziato con lo sblocco dei licenziamenti e l’annuncio della chiusura di numerosi stabilimenti produttivi, multinazionale dopo multinazionale: Gianetti Ruote, GKN, Whirlpool, Timken, ecc.
Praticamente in nessun caso il motivo è un bilancio in profondo rosso. In molti, invece, è la volontà di cessare la produzione qui per spostarla altrove, dentro e fuori i confini dell’UE.
Mentre la vita quotidiana di milioni di lavoratori e lavoratrici da decenni fa i conti col fenomeno delle delocalizzazioni, la politica istituzionale è vissuta su un altro pianeta. In Italia, ad oggi, non c’è una norma che offra una rete di protezione ai lavoratori e impedisca comportamenti predatori da parte delle aziende.
Questo vuoto pare stia finalmente per essere colmato.
Il Ministro del Lavoro, Andrea Orlando (PD) e la Vice-Ministra del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), Antonella Todde (M5S), hanno presentato una prima bozza di disegno di legge per affrontare il fenomeno.
Cosa dice la bozza di disegno di legge sulle delocalizzazioni?
Una norma contro le delocalizzazioni dovrebbe servire a rendere più complicato chiudere qui per aprire altrove; a tutelare i posti di lavoro di migliaia di uomini e donne e a proteggere l’apparato produttivo di un Paese da un ulteriore avanzamento del processo di desertificazione industriale.
La bozza Orlando-Todde permetterà di raggiungere questi obiettivi?
Decisamente no. Lo diciamo in premessa: rischia di essere una misura per permettere a PD e M5S di piantare una bandierina, di poter dire che loro sono dalla parte dei lavoratori, ma senza che nei fatti cambi nulla.
Una platea più ristretta di un circolo di bridge
Innanzitutto la platea individuata dal provvedimento è del tutto inadeguata: a essere interessate dalle misure saranno infatti solo le aziende con più di 250 dipendenti a tempo indeterminato (art. 1).
In un Paese fatto prevalentemente da piccole e medie imprese, significa limitare la portata del provvedimento in maniera davvero eccessiva. Stando ai dati ISTAT, parliamo di poco più di 4mila imprese interessate su 4 milioni e mezzo circa.
E l’esclusione dal calcolo dei lavoratori “somministrati” e a tempo determinato in realtà alza ulteriormente la soglia dei 250 dipendenti.
Per stare ai casi che hanno goduto di un certo clamore mediatico, sia Gianetti Ruote che Timken sarebbero escluse dall’applicazione di queste norme.
Le sanzioni per chi chiude
Gli articoli 2, 3 e 4 dettagliano gli obblighi da rispettare per un’azienda che abbia deciso di chiudere uno stabilimento.
In estrema sintesi, deve darne comunicazione preventiva (art. 2, comma 1) e presentare un piano (art. 3, comma 2) che permetta la “riduzione del danno” in termini di salvaguardia dell’occupazione e gestione degli esuberi.
Una volta accettato il piano di riduzione del danno da parte di una “struttura per la crisi d’impresa” ad hoc, l’azienda potrà far partire i licenziamenti (art. 4, comma 4).
I licenziamenti e le chiusure restano dunque possibili, l’importante è seguire la procedura.
Nel caso non presenti un piano o questo non venga accettato, partono allora le tanto temute sanzioni. Quali?
Su questo occorre fare chiarezza perché alcune di quelle di cui si legge esistono solo nel chiacchiericcio politico e nelle polemiche mediatiche (qui la bozza completa del DL).
La bozza Orlando-Todde, infatti, non prevede la sanzione del 2% del fatturato né famigerate black list come nella francese Loi Florange.
Si parla solo del pagamento di un contributo pari a 10 volte (art. 4, comma 5) il costo del licenziamento (al di sotto di quanto si è ottenuto in molte vertenze) e l’esclusione dai finanziamenti pubblici (ma non gli appalti) per i successivi 5 anni (art. 5, comma 7).
Insomma, la montagna ha partorito un topolino.
Il problema di Orlando? Le buone maniere
Orlando, replicando all’attacco sferrato dal leader di Confindustria Bonomi, che dal meeting di Comunione e Liberazione ha commentato la bozza parlando di logica “punitiva” e rinfacciando i 58 miliardi di debiti che la Pubblica Amministrazione ha nei confronti dei fornitori, rivela quella che è la logica di fondo del provvedimento: “A qualcuno evidentemente piace il fatto che la gente venga licenziata via WhatsApp. A me no…”.
Altro che provvedimento efficace volto a “garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo”, come richiesto dai lavoratori, dalle lavoratrici e dalle nostre comunità. Il Ministro Orlando si preoccupa più che altro della forma.
Così, dichiarando di fatto l’impotenza della politica dinanzi allo strapotere delle multinazionali, la bozza Orlando-Todde si limita, molto modestamente, a tracciare un percorso obbligatorio che accompagni le imprese verso le chiusure, i licenziamenti e il disimpegno dal nostro Paese.
L’esito, con questa bozza, sarà comunque quello, ma almeno i lavoratori e le lavoratrici potranno dirsi contenti per essere stati trattati in ossequio alle buone maniere di una classe dirigente che ti spedisce sì in mezzo alla strada, ma lo fa in maniera educata, “buongiorno” e “buonasera”.
Il ruolo della politica
La politica da tempo svolge il compito di ancella di processi economici che distruggono le nostre comunità.
Anche in queste ore, la preoccupazione maggiore di Orlando, Todde e di tutto il governo Draghi è quello di “non dare l’immagine di un Paese che bastona le imprese” (Pichetto, viceministro al MISE, dixit). Quella di essere un Paese “workers-friendly”, dalla parte dei lavoratori, evidentemente non rientra nel loro orizzonte mentale e culturale.
Eppure, senza avere come bussola l’ambizione di rispondere alle esigenze della nostra gente, in questo caso in primis a quelle delle migliaia di lavoratrici e lavoratori colpiti da chiusure, licenziamenti e desertificazione produttiva, non andremo da nessuna parte.
Se la politica ascoltasse per davvero queste voci, saprebbe innanzitutto che c’è una forte istanza di partecipazione. Che sia per sfiducia nei confronti delle istituzioni o per altro motivo, poco importa: gli operai GKN hanno chiesto che una legge venga sì scritta, ma non SULLE loro teste; bensì CON le loro teste.
In secondo luogo, non chiedono solo la difesa del proprio posto di lavoro: dalla Whirlpool alla GKN c’è la rivendicazione della salvaguardia di una missione produttiva di quegli stabilimenti, affinché possano produrre nell’interesse delle nostre stesse comunità.
Una politica per la nostra gente dovrebbe raccogliere queste istanze e trasformarle in norme conseguenti.
Smettendo di fare da scendiletto per Confindustria.
Qui si tratta di inventare la strada del futuro, perché queste chiusure e questi licenziamenti non saranno gli ultimi. C’è bisogno di una politica industriale degna di questo nome e che non sia solo bonus e incentivi per le aziende; capace di affrontare una vera transizione ecologica, con un protagonismo attivo del pubblico.
Lo strumento per affrontare queste sfide per noi esiste già, ed è la requisizione e nazionalizzazione delle imprese che delocalizzano e non sono “decotte”. A chi guarda con “orrore” all’intervento statale facciamo notare che questo esiste già, contrariamente alla vulgata, solo che è ad esclusivo vantaggio delle imprese, e non a vantaggio di chi lavora e della collettività tutta.
Lo Stato è tutt’altro che impotente. Se oggi allarga le braccia e dice che non c’è niente da fare è perché manca la volontà politica di fare gli interessi della gente comune, anche quando c’è da scontrarsi con chi da 40 anni ci spinge ogni giorno di più verso il baratro.
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