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E venne il giorno della canonizzazione di Gianni Agnelli

La celebrazione del ventesimo anniversario della dipartita del deus ex machina delle macchine degli italiani, è un avvenimento sorprendente: il capo dello Stato – che ne avrebbe di cose a cui pensare in questo complicato momento politico, istituzionale nonché economico – ha rilasciato un ufficiale elogio, che santifica Gianni Agnelli, per quasi quarant’anni a capo della FIAT.

Il nostro eroe, fancazzista del jet-set internazionale fino all’età di quarantacinque anni, ha ereditato il trono lasciatogli da Vittorio Valletta, fascista collaborazionista, rimosso dopo la guerra, ma riabilitato proprio grazie all’intervento di nonno Giovanni.

Certo che mettere a capo di un’azienda automobilistica uno scapestrato che – per andare troppo di corsa a Monte Carlo per un rendez-vous con una delle sue amanti – si schianta contro un camion, non era il massimo della garanzia né della guida di un’auto, né di quella della FIAT. E quindi Valletta regnò ancora una ventina d’anni.

Tuttavia, noblesse oblige, la linea diretta di successione al trono impose Gianni Agnelli e così, l’avvocato, come si faceva chiamare, anche se mai sostenne gli esami all’Ordine, nel 1966 divenne il capo dell’azienda e negli anni si conquistò la fama di capo carismatico del capitalismo italiano.

Mentre la classe operaia torinese, che a partire dai fatti di Piazza Statuto del 1962 continua ad accrescere il proprio peso non solo sindacale, ma soprattutto politico – quel peso specifico la cui spinta si percepì in tutta la sua forza durante l’Autunno caldo del 1969 – l’avvocato ha grandi progetti.

Per cominciare apre una fabbrica in Russia, a Togliattigrad (in realtà città che si chiama semplicemente Togliatti), poi si piglia l’Alfa Romeo, azienda pubblica; poi la Ferrari; poi la Lancia. Tanto per fare tabula rasa della concorrenza interna.

Con lui la FIAT vuole diventare una multinazionale e apre stabilimenti in Europa (Spagna, Polonia e Jugoslavia); in Sudamerica (Brasile e Argentina); in Turchia, in Egitto e Sudafrica.

La grandeur dell’avvocato deve però fare i conti con l’oste: la classe operaia italiana. Nei confronti della quale non si lesinano schedature, licenziamenti politici, aggressioni ai picchetti, uso privatistico delle forze dell’ordine.

La lotta operaia paga, l’autonomia dagli stessi sindacati di categoria, spinge l’iniziativa in profondità sia in tutte le fabbriche metalmeccaniche che nella società, arrivando a saldarsi col movimento studentesco nato e poi cresciuto nel Sessantotto. Le richieste contrattuali hanno un certo successo, l’agibilità politica dei delegati di fabbrica si rafforza, le differenze salariali tra Nord e Sud vengono abbattute. Lo Statuto dei diritti dei lavoratori diventa legge.

Quando a metà degli anni Settanta la concorrenza internazionale si fa più dura, la crisi dell’auto a livello internazionale s’intreccia con la fine del ciclo virtuoso, che in Italia era stato propiziato e sostenuto sia dal Piano Marshall sia dalle politiche keynesiane. Agnelli chiama alla gestione finanziaria dell’azienda Cesare Romiti e contemporaneamente stringe alleanza con Enrico Cuccia, capo di Mediobanca.

Il salotto buono della finanza italiana diventa cattivo con l’avvicinarsi della crisi che investe la FIAT, si rafforza la “razza padrona”, come la definirono Eugenio Scalfari e Peppino Turani nel loro famoso libro, nel quale definiscono i contorni dello strapotere dei boiardi, dell’affermarsi di una borghesia di Stato che frenava e distorceva il capitalismo italiano.

Scalfari descrive Agnelli come un opportunista, uno che si barcamena senza visione strategica che non sia la propria rendita di posizione («avvocato di panna montata», lo bollerà in Razza padrona, Feltrinelli, 1975).

Alla fine degli anni Settanta, la FIAT perde circa i 25 punti di quota di mercato (passa dal 75% del 1968 al 51% nel 1979), nonostante lo spericolato accordo con Gheddafi, che salì fino al 16% del capitale. Saltano le alleanze con Citroën prima e con Peugeot dopo. Il successo di nuovi modelli, ispirati da Vittorio Ghidella, non basta.

Lo scontro sociale si fa drammatico nel 1980: Romiti ha scalato la gerarchia è diventato amministratore delegato, decide licenziamenti in massa per favorire la ristrutturazione, che prevede la robotizzazione e la delocalizzazione. Gli operai bloccano i cancelli per 35 giorni, Romiti scatena i famigerati “Quarantamila” che protestano contro lo sciopero. I sindacati capitolano, trattano la cassa integrazione.

È la più cocente sconfitta della classe operaia nel Dopoguerra, avrà ripercussioni su tutto il movimento operaio, studentesco, delle donne. Avrà conseguenza sulle relazioni industriali, ma anche e soprattutto sul quadro politico e più in generale sulla democrazia, sui diritti a tutti i livelli.

Il PCI, uscito con le ossa rotte dall’esperienza del compromesso storico e del collaborazionismo, comincia la lunga e inesorabile via crucis del suo declino. L’”effetto Berlinguer” alle elezioni europee del 1984 sarà solo l’ultima cura palliativa.

Intanto Agnelli fa e disfa, mette al sicuro i profitti nella cosiddetta “cassaforte di famiglia”, dando vita a quella doppia contabilità della ricchezza che ha permesso ai capitalisti italiani di bypassare sistematicamente il fisco. Gli interessi degli Agnelli invadono il mercato: dai motori alle assicurazioni, dai giornali agli investimenti immobiliari, al calcio.

Il bubbone scoppia quando, alla morte dell’avvocato, si accendono liti giudiziarie in famiglia per l’eredità, che si scopre spesso allocata presso conti esteri. La controversia legale è tutt’ora in corso…

La consuetudine della cassaforte di famiglia dei capitalisti italiani continua imperterrita fino ai nostri giorni, tanto che ogni governo tenta di favorire il rientro di capitali con sconti allettanti, ma non sempre così attraenti come quelli dei paradisi fiscali.

Come il nonno Giovanni, durante il fascismo, anche Gianni Agnelli fu nominato senatore: Cossiga lo designò senatore a vita. È la tipica miscela del potere all’italiana: affari, politica, lobbismo, influenze e pressione sulla classe politica.

Nella nota di commemorazione, Sergio Mattarella ha detto: “(…) Il ricordo della sua autorevolezza, con l’azione che seppe esercitare sulle classi dirigenti, sull’intera società, con la sua influenza nel contesto internazionale, sollecita a tutti un confronto esigente”.

Ecco, come fosse la sentenza papale, che iscrive il beato fra i santi ricchi, si santifica il “padrone” per antonomasia, al quale si perdonano tutta l’opacità politica del capitalismo italiano, l’arroganza del potere della ricchezza, l’affarismo più ingordo in virtù di quella “influenza internazionale” che l’establishment italiano teme di aver perso per sempre, una specie di santino, cui essere devoti, dopo la fugace parentesi Draghi.

Che cosa sia il “confronto esigente” vorrebbe spiegarcelo con parole sue Mario Monti, che dice a Repubblica (giornale della famiglia Agnelli):

Non ho mai visto, e credo che non ci sia mai stato, un italiano come lui considerato dalle élite di tutto il mondo come ‘uno di loro’, ben diverso dagli ‘italiani’. E al tempo stesso considerato da noi italiani, soprattutto dai ceti più modesti, come ‘uno di noi’, sia pure appartenente alla stratosfera”.

Qui l’uomo che risulta essere l’ex di quasi tutto, dalla Commissione Ue alla poltrona più alta di Palazzo Chigi, passando per la presidenza della Bocconi – ma che comunque tutt’ora è senatore a vita – non si smentisce: è il solito reazionario classista e saccente che secerne la “stratosferica” prosopopea del cortigiano.

La prosopopea e la piaggeria sono diventate le caratteristiche salienti, alquanto diffuse anche tra taluni piccoli e medi imprenditori italiani, di quelli che fanno i gradassi con la forza lavoro, ma strisciano per ottenere un finanziamento pubblico, un bonus, uno sgravio, una licenza, un favore.

Ogni scorciatoia possibile, per accumulare di più, investire meno, secondo il principio per cui tutto è lecito per il tornaconto, societario e personale, dell’imprenditore, per che ambisce a far parte di un’oligarchia, di una corporazione, una cordata e di partecipare attivamente alle rispettive camarille.

Il mercato e le sue regole sono temi da convegni, chiacchiere per imbonire la pubblica opinione. In Italia i primi a non credere al capitalismo sono proprio i capitalisti.

Siamo ormai nella fase acuta della lotta di classe al contrario. A giudicare dal costo del lavoro ormai ai minimi termini, dagli stipendi più bassi d’Europa, dalla macroscopica diffusione del precariato e del lavoro nero, dal lassismo dei controlli fiscali, dalla privatizzazione senza controlli, dai munifici finanziamenti pubblici, dall’attitudine all’esternalizzazione e la delocalizzazione… l’Italia dovrebbe essere il paradiso del capitalismo, dove vige il keynesismo per i ricchi, e il neoliberismo per tutti gli altri.

E invece, siamo il paese di una crisi via l’altra: prima la crisi provocata dal mito della globalizzazione, messa in discussione dalla pandemia; ora l’inversione della tendenza, sollecitata dalla guerra e le sue suggestioni euro-atlantiste. Crisi che a pagarle sono sempre gli stessi, che nel frattempo sono colpevolizzati, così da preparare il terreno favorevole a fargli pagare anche la successiva – eventuale – ripresa economica. Ogni volta la ripresa è sempre di più per pochi.

Agnelli faceva parte della già citata “razza padrona”. Nell’Italia di vent’anni dopo, c’è la razza riccona, furbona, evasona, ingordona. Alla bisogna, anche razza padrina.

Amen.

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5 Commenti


  • roberto maffi

    Tutto perfetto. D’accordissimo.


  • Manlio Padovan

    Era talmente ladro che rubava pure in casa sua come sapeva bene la figlia, se non sbaglio Margherita, che lo denunciò.


  • Pasquale

    Niente di strano o anomalo. Lo stato borghese a guida capitalista santifica i suoi eroi.


  • luigi s. pascale

    da leggere nelle scuole…


  • Vittorio

    Leggo volentieri il Contropiano, ma se vogliamo criticare la Fiat e Agnelli almeno facciamolo con profonde analisi di cosa è stata la Fiat nel nostro paese, di quali rapporti ha avuto con il sociale e il politico istituzionale nei vari periodi di governi centristi e di centrosinistra, ma non con denunce e critiche così banali da essere infantili oltre che qualunquiste. Da queste considerazioni si comprende perché la sinistra radicale non riesce ad essere unita e capace di produrre lotte sociali concrete

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