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Salari giù e profitti su: il Governo Meloni in pillole

A sentire le dichiarazioni degli esponenti del Governo Meloni e i principali telegiornali nazionali, la situazione economica italiana sarebbe eccellente. La notizia degli ultimi giorni è infatti il dato fornito dall’Istat circa il tasso di crescita del 2022, stimato intorno al +3,9%, che proietta l’Italia insieme alla Spagna (+4,4%) in testa tra le principali economie europee e ben al di sopra della performance fatta registrare lo scorso anno dalla Germania (+1,9%).

Purtroppo, basta davvero poco a rendersi conto che la realtà dietro l’insopportabile velo di disinformazione è drammatica. Per farlo, è sufficiente fare luce sulla situazione in cui versano i salari reali.

Innanzitutto, dopo una crescita che durava da sette trimestri, nel quarto trimestre 2022 il Pil italiano in termini reali – ossia corretto rispetto a dinamica dei prezzi, effetti di calendario e destagionalizzato – è diminuito (-0,1%) rispetto al trimestre precedente, così come quello tedesco (-0,2%). Questa inversione pare strettamente legata alla centralità del gas naturale per le due principali economie manifatturiere europee.

L’andamento dei prezzi energetici – il gas in particolare – è in aumento dalla seconda metà del 2021, ed è poi esploso con l’inizio della guerra e con le conseguenti sanzioni economiche imposte dalle nazioni occidentali alla Russia.

Nonostante la riduzione dei prezzi del gas che si è registrato nelle ultime settimane del 2022 – la cui natura potrebbe peraltro essere temporanea – questo fattore minaccia di costituire non solo un ostacolo strutturale alla crescita europea dei prossimi anni, ma il vero e proprio innesco di un processo di deindustrializzazione dell’intera area.

Infine, la crescita dell’ultimo biennio (2021-2022) va letta alla luce della significativa caduta del Pil registrata nel 2020 a causa della pandemia.

Riprendendo un vecchio esempio, se ipotizziamo che il Pil italiano si attestasse ad un livello di 1000 euro prima dell’esplosione della pandemia (nel 2019), la batosta del Covid-19 lo ha ridotto a un livello di 911 euro; con la ripresa del 2021 siamo poi risaliti a circa 970 e il tasso di crescita del 2022 (+3,9%) ci ha riportati appena sopra il livello pre-crisi, a 1008 euro circa.

In altre parole, abbiamo meramente recuperato quanto perso a causa della pandemia e ci abbiamo messo due anni!

Oltre a inquadrare correttamente il tasso di crescita, abbiamo più volte provato a evidenziare che questo dato di per sé racconta quasi niente della situazione economica complessiva. I dati dell’ISTAT ci aiutano ancora una volta a illuminare l’elefante nella stanza, ossia la questione salariale.

L’insieme dei rinnovi dei CCNL recepiti nel 2022 ha consentito un incremento delle retribuzioni contrattuali medie pari al +1,1%, che si scontra però con una crescita annua del livello dei prezzi pari al +8,7%, se consideriamo il tasso d’inflazione misurato dall’indice IPCA complessivo.

Questo significa che nel 2022 si è registrata una caduta dei salari reali in media pari al 7,6%, la più drastica degli ultimi 20 anni come sottolineato dall’ISTAT.

Questo dato è semplicemente allucinante, poiché significa concretamente che milioni di famiglie hanno perso potere d’acquisto in maniera estremamente significativa, con grosse difficoltà a mantenere costante il proprio livello di consumi. Con tutta probabilità ciò si traduce, in particolare nelle famiglie a più basso reddito, nella rinuncia a spese essenziali, quali quelle per determinati generi alimentari (carne, pesce, etc.), spese mediche, attività sportive, libri scolastici etc.

Se ciò non bastasse a scatenare la vostra collera, proponiamo qualche ulteriore riflessione. Ci si potrebbe infatti domandare come sia possibile che in una fase di crisi economica così acuta il Pil reale – ossia al netto della dinamica inflazionistica – continui a crescere, nonostante i salari reali stiano letteralmente sprofondando.

Un approccio minimo alla contabilità nazionale ci consente di evidenziare che il Pil può essere visto come la somma delle diverse componenti del valore aggiunto, ossia salari e profitti (oltre alle imposte nette, che lasciamo da parte qui).

Anche considerando l’aumento degli occupati – 334 mila in più (+1,5%) a dicembre 2022 rispetto a dicembre 2021 – l’insieme di stipendi e salari non può che essere diminuito una volta considerata la riduzione dei salari medi. In altre parole, anche con qualche lavoratore in più, il monte salari si è ridotto in termini reali nel 2022 a causa dell’esplosione dei prezzi.

La quota salari – ossia la parte del Pil che va alla classe lavoratrice – è passata dal 60,6% nel 2021 al 59,8% nel 2022 (dati AMECO). Ciò significa che ad essere cresciuti sono i profitti e la loro relativa quota, con le aziende che sono dunque riuscite non solo a mantenere i margini operativi, ma ad ampliare i propri utili, scaricando in maniera più che proporzionale l’aumento dei costi di produzione sui prezzi.

La risposta ai nostri interrogativi ci consente dunque di ribaltare la retorica confindustriale – costantemente rilanciata da Banca d’Italia – secondo cui sarebbe da scongiurare in ogni modo uno scenario caratterizzato da un incremento dei salari, perché questo darebbe luogo alla famigerata spirale prezzi-salari, ossia a un’ondata inflazionistica perenne in cui tutti gli attori coinvolti sarebbero danneggiati.

Ebbene: è successo esattamente l’opposto. Se la pandemia, il rialzo dei prezzi energetici e i problemi di approvvigionamento settoriali provocati dalla guerra hanno certamente costituito l’innesco iniziale della dinamica inflazionistica, gli aumenti cui stiamo assistendo oggi rappresentano il secondo round della spirale, con le aziende che aumentano i propri prezzi al di sopra della soglia che gli consentirebbe di mantenere inalterati i propri guadagni.

Quando i nostri media descrivono l’inflazione come un fenomeno ineluttabile e al di fuori del nostro controllo – i prezzi stanno aumentando e non c’è niente che possiamo fare al riguardo – dobbiamo sforzarci di ricordare che l’attuale spirale inflazionistica è guidata dal conflitto distributivo. Quest’ultimo è in una fase particolarmente intensa e l’erosione dei nostri salari reali ha una causa ben precisa, che coincide con la ricerca di profitti incontrollati da parte delle aziende.

In questa situazione drammatica, il Governo Meloni non si azzarda neanche a nominare quegli strumenti di politica economica che sarebbero necessari a invertire questa mortifera tendenza. Tutti coloro che discendono dalla tradizione socialista e comunista non dovrebbero invece avere alcuna remora a richiedere a gran voce l’indicizzazione dei salari e il ritorno alla scala mobile, l’introduzione di un salario minimo e una politica ferrea di controllo dei prezzi (e dunque dei profitti).

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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1 Commento


  • Eros Barone

    Nonostante che siano passati quasi centocinquant’anni da quando Engels ebbe ad individuare l’importanza socioeconomica della “questione delle abitazioni” e da quando, in polemica con la rivendicazione proudhoniana di trasformare il canone di fitto in canone di riscatto, giunse a sostenere che «gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato», al riguardo si può aggiungere che nella stessa esperienza italiana (pensiamo alla progressiva liquidazione della legge sull’equo canone risalente al 1978) non sono mancate prove della potenza d’urto di questo esercito. Da questo punto di vista e al netto dei calcoli sul recupero del PIL rispetto al periodo della pandemia, non vi è dubbio che l’ideologia proprietaria impedisca ai lavoratori di cogliere i propri veri interessi e li renda succubi della borghesia. Marx, a tale riguardo, descrisse le condizioni dei contadini francesi, vittime più che beneficiari della proprietà parcellare, stante il fatto che i terreni erano ipotecati e le vere proprietarie erano le banche, che intascavano gran parte dei frutti del lavoro dei contadini, imponendo loro un livello di vita spesso peggiore di quello dei proletari: «Il contadino francese, sotto forma di interessi per le ipoteche vincolanti la terra, sotto forma di interessi per anticipazioni dell’usuraio non garantite da ipoteca, cede al capitalista non solo la rendita fondiaria, non solo il profitto industriale, non solo, in una parola, tutto il guadagno netto, ma persino una parte del salario del lavoro, e così precipita al livello del fittavolo irlandese: e tutto ciò sotto il pretesto di essere proprietario privato». Tuttavia, nonostante la crisi economica, sono ancora centinaia di migliaia i mutui che vengono accesi per l’acquisto della casa. La spesa per la casa a Roma e a Milano può arrivare fino al 70% del reddito di una famiglia, senza contare che la stessa diffusione della proprietà riduce il mercato degli affitti, facendo salire i prezzi. Così, il fanatismo indotto dall’ideologia della casa in proprietà, l’aspirazione ad ottenere una casa anche a costo di gravosi sacrifici e la necessità di avere un lavoro per pagare mutui sempre più onerosi determinano quel processo di forzosa privatizzazione e, insieme, di suadente persuasione che caratterizza la situazione attuale e contribuisce, in misura non indifferente, a spiegare l’aumento/recupero del PIL. La realtà è infatti quella di un paese sempre più chiuso e retrivo, in cui i contingenti decisivi dell’“esercito conservatore” che i capitalisti si allevano contro il proletariato sono costituiti dalla vasta massa dei proprietari di abitazioni: massa che oggi supera il 70% della popolazione, sia pure con tutto il ventaglio di posizioni economiche, sociali e territoriali, che si cela dietro questa percentuale.

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