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25 febbraio: i “combattenti per la pace” manifestano a Genova

Venerdì 17 febbraio, nel tardo pomeriggio, si è tenuta al Cap di via Albertazzi a Genova, l’assemblea organizzativa in vista della manifestazione nazionale contro la guerra “abbassate le armi, alzate i salari”, promossa nel capoluogo ligure dal Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP).

L’assemblea ha avuto un carattere più “tecnico-organizzativo” che politico, ed è stato il secondo momento pubblico di confronto dopo il primo incontro – sempre al CAP – che si era svolto sabato 28 gennaio.

Alla fine dell’assemblea di venerdì è stato deciso il possibile percorso del corteo, integrando l’itinerario proposto dal CALP, e modificando il luogo, ma non la sostanza, di un necessario confronto tra i partecipanti a fine manifestazione.

Il concentramento – che era già stato annunciato – sarà verso le 2 del pomeriggio al varco di Ponte Etiopia, su Lungomare Canepa, uno dei principali accessi all’area portuale del ponente cittadino e luogo di ritrovo per i picchetti dei camalli nelle giornate di sciopero.

Bisogna ricordare infatti che per quel giorno il coordinamento dei lavoratori marittimo-portuali di USB ha proclamato 24 ore di sciopero per tutti gli scali italiani.

Il sabato, anche sulle banchine genovesi, è una giornata lavorativa come le altre, specie in alcuni terminal che lavorano con i traghetti e le crociere, in particolare, ma anche con la movimentazione merci.

Nelle intenzioni degli organizzatori il corteo dovrebbe svolgersi dentro il porto fino a Ponte dei Mille, cioè in direzione del centro cittadino, ed uscire poi dall’area portuale lungo via Gramsci per arrivare a piazza De Ferrari.

A termine della manifestazione ci sarà un confronto finale in cui si alterneranno al microfono le differenti esperienze che animeranno la mobilitazione.

Il corteo sul “fronte mare” è una sorta di “riappropriazione” di uno spazio pubblico, una iniziativa con in testa i lavoratori del Calp e gli operai degli altri scali portuali, che contrasti quella sorta di zona d’ombra che permette nello scalo genovese, e non solo, il transito di navi che hanno nelle proprie stive equipaggiamenti militari.

Lo chiarisce bene nel suo intervento iniziale Riccardo “Ricky” Rudino del Calp, mettendo in evidenza la differenza tra operazioni di carico/scarico di materiale bellico ed il transito di imbarcazioni che stivano armi.

Con la lotta iniziata nel maggio del 2019 ormai nello scalo genovese non si effettuano più operazioni di carico/scarico di armi e dispositivi militari, stando all’attento monitoraggio dei portuali, ma continua il transito di navi con il loro carico di morte.

Non ci sono infatti imbarcazioni addette specificatamente al traffico d’armi, ma navi che trasportano lungo le proprie rotte – in  momenti particolari od in specifici contesti geo-politici – anche dei dispositivi bellici che toccano i porti italiani: impedirne il transito diventa oggi la naturale continuazione di quella battaglia.

Sul traffico di armi nei porti, da tempo e grazie alla battaglia dei camalli, si è incominciato a far luce, nonostante i continui “rimpalli di responsabilità” tra le varie autorità che sarebbero preposte ai controlli.

É chiaro che al di là dell’importante specificità portuale questa lotta ha un profilo più ampio, come già ribadito dal documento di indizione della prima assemblea del 28 gennaio e dagli interventi che si sono svolti: lotta contro l’invio di armi nel teatro bellico ucraino e contro la NATO che è divenuta il maggior vettore di guerra a livello mondiale, ma anche contro il complesso militare-industriale e la sua porosità sociale, che passa per le aule universitarie ed arriva fino ai banchi delle scuole medie.

La mobilitazione genovese sarà il fulcro di una serie di iniziative territoriali di natura anti-militarista, come a Cagliari in Sardegna ed a Niscemi in Sicilia, oltre che a Londra dove ci sarà una delegazione del CALP alla manifestazione indetta dalla Stop The War Coalition.

L’appuntamento genovese ha assunto in queste settimane una naturale centralità per tre ordini di motivi.

Il primo: parole d’ordine chiare e non ambigue rispetto ad un sedicente “pacifismo” di maniera, utile più che altro a fare da stampella all’imperialismo euro-atlantico senza disturbare troppo il manovratore; ambiguità che permangono in una porzione delle mobilitazioni pacifiste, dove il dato emergente è la mancanza di coraggio politico.

Secondo: il collegamento con una lotta reale di una porzione di classe operaia che riprende un filo rosso mai interrotto di battaglie internazionaliste sulle banchine, cui la “sinistra di classe” è chiamata a dare man forte anche per fare da cordone sanitario, contro i tentativi di criminalizzazione dell’iniziativa antimilitarista, già diretti in questi anni contro il CALP ma che potrebbero essere estesi a tutti coloro che in tempi di guerra lottano per la pace.

Il corteo di Genova è l’unico sbocco pratico all’altezza delle contraddizioni che stanno caratterizzando questa fase di tendenza alla guerra all’esterno e di torsione autoritaria all’interno: ed è uno restringimento dei diritti che va a braccetto con le conseguenze più dirette per le classi subalterne, riguardanti il costo della vita e gli ulteriori tagli al welfare.

Terzo e non ultimo: fare da megafono, amplificando quel sentimento maggioritario che si oppone ad un ulteriore coinvolgimento del nostro Paese nel conflitto, interrompendo il flusso di armi verso il teatro bellico ucraino e cercando di intraprendere un percorso diplomatico senza il quale le cose possono solo peggiorare.

Diceva un noto dirigente comunista italiano agli inizi della Guerra Fredda, di fronte alla non remota possibilità di una escalation atomica: “Noi non siamo dei pacifisti i quali vadano belando o invocando la pace dalla carità del prossimo o dalla illuminazione dei dirigenti, siamo dei combattenti per la pace, contro la guerra, per la salvezza italiana”.

Tempi non troppo diversi da questi.

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