Diverse bozze di provvedimenti sono passate dal ministero del Lavoro a quello del Tesoro per la valutazione dei costi – così è quando si parla di spese sociali, (non di quelle militari).
Quello che preoccupa di più, per la portata economica e sociale, è la sostituzione del reddito di cittadinanza con quella che è stata chiamata Misura di Inclusione Attiva (MIA).
Il reddito è stato prorogato per i primi sette mesi del 2023 e, considerati i tempi per approvazione e disposizione di tutte le pratiche amministrative, si rischia di essere già in ritardo con la nuova misura.
Comunque, da agosto o più probabilmente da settembre, potrebbe essere richiesta, ma si tratta di cambiamenti molto pesanti, che stravolgono integralmente senso e misura del “vecchio” rdc.
Innanzitutto, i fondi a disposizione saranno diminuiti di 2-3 miliardi. Il risparmio sarà ottenuto abbassando la soglia ISEE necessaria ad accedervi, da 9.360 a 7.200 euro.
La platea dei possibili beneficiari (che il nuovo limite potrebbe tagliare di un terzo) sarà divisa in due categorie: nuclei senza persone occupabili e nuclei con persone occupabili. La prima comprende le famiglie con almeno un minorenne o un over 60 o un disabile, la seconda le famiglie senza questa situazione ma con almeno un componente tra i 18 e i 60 anni.
Anche gli importi, già al limite della povertà relativa sui dati del 2021, sono ribassati. Per i “non occupabili” l’ammontare – nel caso di famiglie composte da una sola persona – dovrebbe restare di 500 euro mensili, ma sembra che si voglia ridurre la “quota aggiuntiva” per l’affitto.
Invece che 280 euro, come oggi, l’importo potrebbe essere diminuito e modulato sulla dimensione del nucleo familiare. Anche qui, siamo ben lontani dagli affitti medi del paese.
Per quelli definiti “occupabili”, invece, l’assegno verrà portato a 375 euro mensili, meno di quello che si riceve oggi. Per questa categoria, inoltre, la durata del beneficio sarà massimo di un anno, rispetto ai 18 mesi dei “non occupabili”.
Per questi ultimi, dalla seconda domanda in poi la durata massima sarà di 12 mesi, mentre per i primi sarà di 6. Dopo, per richiedere per la terza volta la MIA, dovranno attendere un anno e mezzo.
L’erogazione agli “occupabili” è poi strettamente legata all’accettazione di qualsiasi offerta di lavoro, purché sia “congrua” (e sappiamo che questa è una formula molto elastica, facilmente eludibile) e nella provincia di residenza o in quelle confinanti.
Per la felicità di Confindustria, i paletti del decreto spingeranno verso lavori sottopagati e spesso distanti tutti coloro che nel reddito avevano trovato un parziale strumento per evitare di sottostare al ricatto salariale.
Per comprendere fino in fondo la logica della “riforma”, le agenzie private del lavoro riceveranno addirittura incentivi per ogni persona contrattualizzata, precaria o a tempo indeterminato che sia.
Invece di tornare a un sistema di collocamento interamente pubblico, insomma, è stata trovata l’ennesima via per gonfiare i profitti dei privati.
In compenso, si fa per dire, dovrebbe essere ridotto anche il requisito di residenza, da 10 a 5 anni, ma non per volontà politica del governo. La ratio di questa scelta è solo quella di non incorrere in moniti da Bruxelles. E comunque si evince dai calcoli che in nessun modo ciò compenserà la diminuzione della platea per gli altri motivi elencati.
Il Presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, ha sottolineato che l’alta possibilità che in tanti perdano il reddito di cittadinanza con questa nuova norma. È interessante osservare come, nella sua intervista a Radio24, il centro della riflessione sia intorno alla mancanza di stabilità del lavoro e ai bassi salari.
Tridico ricorda come un milione e mezzo di giovani siano emigrati negli ultimi due decenni, alla ricerca di migliori condizioni lavorative e retributive.
È sempre l’alto dirigente INPS a smontare la narrazione che ci viene costantemente propinata su come funziona l’economia. È lui a riportare il fatto che nell’ultimo trentennio i salari medi sono diminuiti, nonostante la produttività sia aumentata del 10-12%. A conclusione, ribadisce la necessità di introdurre un salario minimo legale.
La mannaia che colpisce il reddito si spiega solo attraverso una feroce politica antipopolare, promessa in campagna elettorale dall’attuale maggioranza, nonostante percettori e domande fossero già diminuite all’inizio del nuovo anno.
Voci autorevoli e istituzionali ci confermano che le criticità intorno alla riforma del reddito, che secondo l’ISTAT ha salvato dalla povertà un milione di persone, impongono la mobilitazione.
Il prossimo 14 marzo l’Unione Sindacale di Base ha lanciato piazze davanti ai centri per l’impiego in tutta Italia, dentro la cornice della campagna “Uniti per il reddito”.
Sarà un momento importante in cui rafforzare l’opposizione sociale alle politiche del governo Meloni, continuazione di quelle del precedente governo e, in entrambi i casi, assai lontane dai bisogni dei settori popolari.
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