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CGIL ultimo atto

Un Presidente del Consiglio non aveva mai  partecipato ad un congresso della CGIL . Al massimo, che io mi ricordi, qualche ministro del lavoro.  E invece la Presidente del Consiglio,  Giorgia Meloni, a capo del governo più reazionario e ferocemente anticlassista e razzista dalla fine del dopoguerra,  non si è fatta pregare ed ha accettato l’invito di Landini, il quale le ha fatto così, un insperato regalo, proprio dopo la tragedia di Cutro e la infinita serie di gaffes dei suoi gregari di governo, concedendole una splendida passerella oltre che una sostanziale legittimazione.

Al di là delle sue parole su una riforma del fisco che premia  ricchi ed evasori, quelle al veleno sul reddito di cittadinanza e sul salario minimo (da sempre avversato anche dalla CGIL), il suo intervento dal palco del congresso nazionale di ciò che, un tempo, fu il più grande sindacato di classe italiano, assume si un valore simbolico di quelli che segnano la fine definitiva di un’epoca ma arriva alla fine di un lungo percorso che ha portato ad una vera e propria mutazione genetica della CGIL.  

Ma qual è la storia di questa progressiva metamorfosi ?

Già nel 1977 dirigenti del Partito Comunista Italiano continuarono a seguire la strada della collaborazione con la Democrazia  Cristiana. Il ministro degli Interni, Cossiga riteneva che condizione per far entrare il Partito Comunista  nella maggioranza fosse data “dalla capacità o meno di far accettare alla classe operaia i sacrifici necessari per uscire dalla crisi economica.” (da la Repubblica).

E guarda caso, il 24 gennaio 1978, sempre sul quotidiano la Repubblica, comparve un’intervista all’allora segretario generale della CGIL , Luciano Lama, divenuta celebre, intitolata “Lavoratori stringete la cinghia”.

Lama prese spunto dall’annoso problema della disoccupazione, argomentando Ebbene, se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea.” .

Poche settimane dopo, a metà febbraio ci fu la famosa “svolta dell’Eur”. Si tenne una conferenza sindacale al palazzo dei congressi dell’Eur di Roma.  La linea che ne scaturì s’imperniava su due elementi: 1) la moderazione salariale 2) un programma di investimenti per garantire la fatidica “occupazione” come contropartita. La tesi di Luciano Lama  era che i maggiori sacrifici dei lavoratori avrebbero permesso ai padroni di accumulare il capitale necessario per gli investimenti e ciò avrebbe avuto senz’altro una ricaduta positiva sull’occupazione.

In un sol colpo la CGIL aveva messo in soffitta le argomentazioni di Karl Marx riguardo al  fenomeno della disoccupazione in quanto prodotto necessario dell’accumulazione capitalistica, ovvero, della tendenza del sistema capitalistico a generare, in virtù delle sue proprie dinamiche, una quota di popolazione eccedente rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale.[1] 

Risultato? Nel 1977 il tasso disoccupazione era al 3,7% mentre oggi è al 7,9%.

Poi, a partire dagli anni Ottanta  i diritti dei lavoratori sono stati aggrediti da una serie di leggi che hanno smontato pezzo per pezzo tutto ciò che era stato  faticosamente conquistato nei decenni precedenti. Dal taglio della scala mobile del 14 febbraio del 1984 fino  alla sua abolizione nel 1992.

Ma la vera svolta fu il protocollo del 23 luglio 1993 che introdusse la cosiddetta “politica dei redditi” (aumenti dei salari legato alla produttività ed al tasso previsto di “inflazione programmata” e non più all’inflazione “effettiva” , ovvero quella rilevata dall’Istat al termine dell’anno di riferimento) e la “concertazione” (collaborazione con i governi a priori e fine del conflitto). 

Il lavoro ritornava ad essere una variabile dipendente del capitale e tutti i risultati dei decenni di gloriose e sanguinose lotte operaie venivano di colpo azzerati. Protagonisti di quell’accordo furono Carlo Azeglio Ciampi, presidente del Consiglio, e Gino Giugni, ministro del Lavoro. I sindacati erano rappresentati da Bruno Trentin, Sergio D’Antoni e Piero Larizza. Luigi Abete per la Confindustria.

Soltanto un anno prima c’era stata l’abolizione della scala mobile con la scusa della crisi valutaria e finanziaria che avevano colpito la lira  e che minacciava di precludere l’ingresso dell’Italia nella futura Unione Europea per mancato raggiungimento degli obiettivi econeomici. La necessità di contenere tassi di interesse ed inflazione divenne quindi prioritaria e la tesi dominante fu che la rivalutazione automatica delle retribuzioni provocava un’inflazione eccessiva.

Si decise, pertanto, di abolire la scala mobile “per contenere l’inflazione”. In pratica, con questa azione si agì contenendo il costo del lavoro per consentire alle imprese di poter continuare a fare profitti nella congiuntura sfavorevole  sfruttando il minor costo del lavoro ed allo Stato di ridurre la spesa tramite il contenimento del costo dei dipendenti pubblici.

E così i lavoratori, grazie a Cgil-Cisl-Uil, si fecero carico della crisi valutaria attraverso la compressione delle retribuzioni senza avere in cambio alcun beneficio dal raggiungimento dell’obiettivo finale: l’introduzione dell’euro.

Il nuovo meccanismo si dimostrò presto totalmente inadeguato poiché tutti i governi che si succedettero dal 1993 in poi indicarono sistematicamente una percentuale di inflazione programmata inferiore a quella reale mentre le trattative per il rinnovo dei contratti venivano chiuse sempre in ritardo con la conseguenza che l’aumento delle retribuzioni avveniva solo dopo che il costo della vita era già aumentato.

Come non ricordare poi il sostanziale appoggio di CGIL, CISL e UIL alla riforma Dini del 1995[2] che decretò  la svendita  delle pensioni di anzianità e la fine del sistema previdenziale basato sul principio di solidarietà mediante l’introduzione del calcolo contributivo e l’innalzamento progressivo dei requisiti anagrafici e contributivi in cambio della ben remunerata partecipazione dei funzionari sindacali ai consigli di amministrazione dei fondi pensione ? 

Fu l’inizio della grande abbuffata delle grandi compagnie assicurative sulla pelle dei lavoratori in combutta con le principali centrali sindacali del paese. E pensare che, appena un anno prima, La CGIL di Cofferati aveva portato in piazza, a Roma,  circa un milione e mezzo di persone per manifestare contro il primo Governo Berlusconi  e la sua riforma delle pensioni che, poi, venne per l’appunto ritirata sebbene non avesse un contenuto sostanzialmente diverso dalla successiva riforma Dini, eccezion fatta per un punto niente affatto secondario: ovvero, i consigli di amministrazione “chiusi”, meglio noti come “enti bilaterali”  con dentro, guarda un po’, CGIL, CISL e UIL.

E non fu affatto un caso che l’allora ministro del lavoro Tiziano Treu fece approvare, appena un anno dopo, la  Legge 564/1996[3], che permette ancora oggi ai dirigenti sindacali apicali di ottenere una pensione d’oro anche dopo soltanto un mese trascorso nella carica.

Lo stesso ministro che nel 1997  non trovò nessuna resistenza sindacale al suo pacchetto legislativo in tema di diritto del lavoro – noto proprio come “pacchetto Treu” –   dietro il solito pretesto della “lotta alla disoccupazione”  che introdusse la così detta “flessibilità”,  e l’odioso “lavoro interinale” (leggi: legalizzazione del caporalato di massa), il job sharing ed altre innumerevoli  forme contrattuali di lavoro atipico, sino ad allora estranee al diritto del lavoro in Italia.

Poi fu il turno della “legge Biagi[4] del 2003 che peggiorò ulteriormente il quadro introdotto dalla legge Treu allargando a dismisura il lavoro precario mediante una  drastica riduzione di  diritti e tutele e  facendo venire meno  le possibilità di intervento della magistratura nelle questioni di lavoro oltre a dar luogo alla  proliferazione delle più svariate forme di lavoro atipiche come risposta alle pressioni dei padroni che potevano così essere più competitivi nel mercato del lavoro globalizzato.

E poi il decreto Sacconi del 2011[5] che consentiva accordi sindacali al ribasso rispetto ai Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro e, nel 2012, la cd. “Legge Fornero” con cui si è giunti ad una “liberalizzazione” del sistema dei vouchers  ampiamente usati anche da CGIL e CISL[7] 

E ancora il decreto Poletti del 2014[6] che ha ulteriormente favorito la precarizzazione facendo aumentare i contratti a tempo determinato e quelli di apprendistato.

Ed infine,  il D.l. 23/2015[8], meglio conosciuto come il famigerato “Jobs Act” che ha abrogato l’articolo 18 della legge 300/1970, ovvero una delle colonne portanti dello Statuto dei Lavoratori cancellando l’obbligo di reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente per le aziende con più di 15 dipendenti, sostituendolo con un’indennità monetaria che andava da un minimo di 4 a un massimo di 24 mensilità da stabilire in base all’anzianità di servizio. 

Lo smantellamento dei diritti e delle tutele dei lavoratori ed il massiccio processo di precarizzazione dei rapporti di lavoro ha avuto come conseguenza anche l’aumento dei fattori di rischio di morte ed infortunio nelle aziende che, galvanizzate da un quadro legislativo così sbilanciato a loro favore e dal clima “concertativo”, hanno risparmiato i costi della sicurezza scaricandoli sulla salute e sulla vita dei lavoratori.

Se fino al 2000 in Italia si era assistito ad un forte decremento sia degli infortuni, sia dei morti sul lavoro, dopo siamo di fronte a numeri da strage di massa. Nel decenio 2009 -2019, saranno 17 mila morti e nel 2022 secondo i dati raccolti da Unione Sindacale di Base e Rete Iside Onlus sono stati almeno 1089 i morti di lavoro.

L’ultima trincea del welfare state è quella del diritto alla salute previsto dall’art. 32 da anni sotto il fuoco incrociato del progressivo taglio di risorse dal fondo sanitario nazionale, dell’inserimento della sanità integrativa nei contratti nazionali di lavoro (dietro la spinta dei grandi gruppi assicurativi) e del disegno di legge per l’attuazione dell’autonomia differenziata. Ciò proprio mentre tutti i dati dicono che la fine del Sistema sanitario nazionale pubblico e universalistico è sempre più vicina[9].

La domanda finale è: cosa ha fatto la CGIL per impedire  questa deriva che in circa 30 anni ha progressivamente fatto a pezzi tutte le precedenti conquiste del movimento  dei lavoratori?  La risposta la si trova nella totale subalternità politica e strutturale di CGIL, CISL e UIL a tutti i governi – tecnici e politici –  cui la maggior parte dei suoi dirigenti ha fatto sempre da docile sponda a tutti i provvedimenti peggiorativi per le condizioni di vita di milioni di persone per poi essere ripagati con un posto da deputato o senatore della Repubblica.

La CGIL (come gli altri sindacati concertativi, ormai completamente statalizzati e sovvenzionati a suon di miliardi dallo Stato) nell’arco di un trentennio, si è trasformato in un mastodontico apparato autoreferenziale in mano a grigi funzionari, bene inseriti nei sistemi di potere locali e regionali,  che ha come unica finalità la propria autoriproduzione e che si occupa soltanto di “servizi” (mediante l’uso di manodopera precaria a basso costo) e di polizze assicurative, sia previdenziali che sanitarie.

La debacle, ovvero, la mutazione genetica della CGIL che – analogamente a quanto avvenuto nel passaggio dal PCI all’attuale PD – affonda, dunque, le sue radici in un tempo ormai lontano in cui recise ogni relazione con la propria storia e con le propri ragioni fondanti.

Ecco perché chi vede la capitolazione della CGIL soltanto nell’intervento della Meloni al suo ultimo congresso nazionale appare più legato sentimentalmente ai simboli che alla sostanza (andata via da un pezzo), oltre che essere in evidente deficit di memoria storica.

Note.

[1] Karl Marx, Il capitale” libro I , sezione VII,  il processo di accumulazione del capitale , capitolo 23

la legge generale dell’accumulazione capitalistica

[2] LEGGE 8 agosto 1995, n. 335 “ Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare”

[3] Con l’art.3, comma 9 del decreto legislativo 564/96 il diritto alla contribuzione figurativa per i periodi non retribuiti di aspettativa per cariche sindacali è previsto anche per i lavoratori iscritti ai fondi esclusivi dell’assicurazione generale obbligatoria

[4] Riforma del mercato del lavoro avviata con la legge 30/2003 di delega poi perfezionata con il d.l. 276/2003

[5] Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138 recante ”Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”

[6] D.L. 20 marzo 2014 n. 34, c.d. decreto Poletti noto come “prima parte del Jobs Act”

[7] https://contropiano.org/news/politica-news/2017/02/24/campioni-del-lavoro-nero-legalizzato-voucher-mani-basse-scheletri-nellarmadio-089251

[8] DECRETO LEGISLATIVO 4 marzo 2015, n. 23  “ Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”

[9] https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/03/09/il-sistema-di-cure-per-tutti-e-gia-finito-e-un-disastro-sociale-ed-economico/7090282/

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4 Commenti


  • Giancarlo staffo

    Da notare, Landini si è vantato di non avere mai letto neanche una pagina di Marx, è come uno che pretende di fare il medico senza avere studiato medicina. É capace solo di abbaiare alla luna.


  • Paolo

    dopo avete studiato con risultati positivi, medicina, un Medico esprime con il ‘giuramento di Ippocrate’ la sua adesione etica ad esso per tutta la vita. Molti che hanno letto o studiato Marx, l’unico giuramento al quale hanno aderito è un servile’ anch’io tengo famiglia’.


  • Andrea Vannini

    Se landini si vanta di non avere letto Marx è per sottolineare ancora una volta che é contro i lavoratori e che il ruolo suo è della cgil é di contrastare le lotte e favorire il potere capitalistico.


  • Angela

    La risposta alla sequela di “svendite e mancata resistenza” è nella premessa dell’articolo: la Cgil non ha mai avuto indipendenza, è sempre stata la cinghia di trasmissione degli interessi del PCI tra i lavoratori che hanno dovuto pagare il ticket per il passaggio al potere del ceto politico di Berlinguer con figli e nipoti, diventati PDS, Ds, Pd.

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