Riaprire il dibattito sul futuro della formazione pubblica nel nostro paese significa rompere questo modello di scuola. Per domenica 2 aprile gli studenti di OSA hanno promosso un convegno a Roma per discuterne.
La riflessione critica sull’istruzione e sull’educazione fa parte del patrimonio riconosciuto della storia dei comunisti e della sinistra nel nostro Paese e non solo. Tuttavia, l’attuale debolezza del movimento di classe in Europa e in Italia ha contribuito enormemente all’impoverimento del dibattito e all’incapacità di costruire un’opposizione e un’alternativa efficaci alla scuola come fabbrica del capitale per la cultura d’impresa (L. Vasapollo).
La pandemia e la didattica a distanza, le morti “accidentali” in alternanza scuola-lavoro (ora PCTO) con le conseguenti reazioni studentesche nelle città metropolitane e, in ultimo, la discussione sul “merito” in seguito alle prime iniziative del neo-ministro Valditara hanno riacceso i riflettori sul futuro e la funzione della scuola pubblica nel nostro paese. Lo scenario impietoso che emerge dagli ultimi dati sulle prove INVALSI conferma, ancora una volta, l’incapacità del “normale” percorso scolastico di invertire i destini di classe dei singoli studenti e di rappresentare uno strumento di emancipazione per una fetta importante di studenti nel nostro paese, specie per coloro che provengono da un contesto sociale proletario (italofono o meno).
L’attuale modello scolastico cristallizza le disuguaglianze sociali, culturali e geografiche: sembra infatti impossibile superare la correlazione tra la provenienza socio-economica e culturale degli studenti e i loro esiti scolastici, con la presenza anche di gravi disuguaglianze territoriali tra Nord e Sud. I fenomeni dell’abbandono scolastico e della cosiddetta dispersione scolastica implicita, cioè il mancato raggiungimento delle “competenze di base” in matematica, italiano e inglese al momento del diploma, confermano infine (al di là del nostro giudizio sul metodo INVALSI) dati di fondo preoccupanti rispetto all’analfabetismo funzionale diffuso nelle giovani generazioni nate e cresciute nell’epoca del digitale successiva alla “fine della storia” (F. Fukuyama).
Crediamo che, per chiunque oggi voglia ragionare sulla scuola per contribuire alla trasformazione del reale in senso rivoluzionario, o quantomeno progressista, sia urgente e necessario andare a fondo delle conseguenze delle politiche neoliberiste sulla filiera formativa in relazione alla crisi strutturale dell’attuale modello di accumulazione capitalistica e alla sua ristrutturazione a livello globale, nonché alla crisi di egemonia della borghesia occidentale, alla (vana?) ricerca di un modello seriamente credibile di sviluppo capitalistico.
Dal 1987 in poi, ovvero da quando i più importanti industriali d’Europa si incontrarono per dare vita al “Gruppo di lavoro sull’educazione”, nel nostro continente si è lavorato assiduamente, e al di là del colore politico dei governi nazionali, per omogeneizzare i sistemi di istruzione e formazione pubblica al fine di sostenere le iniziative dei privati e la costruzione del mercato unico europeo, all’interno di un contesto internazionale di crescente iper-competizione.
Quando ancora la globalizzazione era uno spazio in espansione e rappresentava un’occasione di crescita economica (benché diseguale), agli inizi del nuovo millennio l’Unione Europea si proponeva di diventare la maggiore economia della conoscenza del mondo (Strategia di Lisbona, 2000).
L’agenda dei ministeri dell’istruzione fu scritta dalla Commissione europea, che introdusse (grazie alla sue “raccomandazioni”) il lessico aziendale (crediti, debiti, dirigente scolastico etc.), la didattica per competenze, il totem della valutazione e dell’apprendimento permanente, l’autonomia scolastica, tutti pilastri su cui riformare la scuola in senso europeista e nella convinzione, tutta ideologica, che la disoccupazione e l’inoccupazione giovanile derivassero dal cosiddetto skill mismatch, cioè una mancata corrispondenza tra le competenze acquisite nei percorsi formativi e quelle richieste dalle aziende, altrimenti pronte a soddisfare quasi caritatevolmente le esigenze dei futuri ricercatori di occupazione.
A trent’anni dalle prime sperimentazioni di trasformazione neoliberista dei sistemi di formazione pubblica possiamo confermare quanto i movimenti degli insegnanti e degli studenti da tempo denunciano: questo modello scolastico, lungi dal raggiungere effetti concreti riguardo a occupazione e riduzione della povertà, ha aumentato i livelli di precarietà lavorativa e di svalutazione del ruolo dell’insegnante, ha contribuito ad acuire le disuguaglianze territoriali e consegnato gli studenti “alla selezione ex-trascolastica e al sottoimpiego nella produzione” (come denunciava F. Fortini già nel 1971).
Questo convegno nasce dall’esigenza di riaffermare la scuola come campo di battaglia irrinunciabile nello scontro di classe e per la costruzione di un’alternativa a tutto tondo alle barbarie del presente. Tuttavia occorre prendere atto che nel contesto attuale, sinteticamente descritto nelle righe precedenti, è necessario superare la tradizionale impostazione propria di tutta la sinistra di difesa della “scuola della Costituzione”, poiché quest’ultima oggi oggettivamente non esiste più, nemmeno come possibilità.
Il patto costituzionale, che aveva concesso anche ai figli degli operai di diventare dottori, si è rotto e la mera battaglia per la salvaguardia della scuola pubblica, che è stato terreno di lotta fondamentale per lo sviluppo del movimento di classe in Italia e non solo, attualmente rischia di relegarci ad un ruolo di retroguardia se non viene accompagnata dalla consapevolezza che l’ascensore sociale non funziona più.
Da un trentennio a questa parte, da quando si è imposto il liberismo in tutto il mondo e le politiche keynesiane e socialdemocratiche sono tramontate definitivamente, la scuola ha smesso di essere ascensore sociale per trasformarsi in una gabbia nella quale gli studenti rivivono gli stessi meccanismo di selezione che si danno nella società attuale, come le tristi vicende del PCTO dimostrano ampiamente. Non solo, ma si è andato perdendo progressivamente e in modo irreversibile anche il fine più alto dell’educazione, quello di “suscitare l’interesse per le cose del mondo interiore ed esteriore” (A. Labriola), di garantire alle nuove generazioni gli strumenti per comprendere e rielaborare la complessità del reale e agli insegnanti di ogni ordine e grado la dignità di essere educatori e formatori nel senso più alto.
Ed è questo, forse, l’aspetto che rappresenta plasticamente la crisi di egemonia della borghesia occidentale: essa non è più in grado di svolgere una funzione progressiva nella società, ancora vince ma non più convince, e costruisce sistemi in cui il dominio, imposto con la forza, si sostituisce all’egemonia storica della sua classe e dei suoi allelati, producendo un progressivo imbarbarimento sociale e culturale.
Per questa ragione l’Osa (Opposizione Studentesca d’Alternativa) ha lanciato lo slogan di battaglia contro la “scuola-gabbia”, cioè un’istituzione non in grado di andare oltre la predeterminazione del destino sociale e culturale delle nuove generazioni, dando così una lettura che ha voluto declinare politicamente quel malcontento studentesco generalizzato che si è manifestato soprattutto nel ciclo di occupazione degli istituti romani lo scorso anno.
Questo convegno mira a dare una prima risposta teorica e pratica a un’esigenza sociale di trasformazione che sta lentamente emergendo in quei settori giovanili, studenteschi e del lavoro a partire dai luoghi della formazione pubblica, con i quali abbiamo quotidianamente un confronto diretto: come si costruisce una prospettiva di rottura con il modello scolastico e sociale attuale, rivendicando comunque cultura e conoscenza per tutti? Come immaginare un diverso rapporto tra scuola e lavoro dentro un sistema di produzione e accumulazione in profonda crisi, che non sa o non vuole porre alcun argine allo sfruttamento e alla precarietà?
Riaprire il dibattito sul futuro della formazione pubblica nel nostro paese significa quindi, secondo noi, rompere questo modello di scuola, non in un’ottica di descolarizzazione o di ripresa fuori tempo massimo di forme di educazione rousseauiane, ma per costruire una nuova scuola pubblica in una nuova società.
È impossibile però slegare la questione dell’istruzione dall’analisi sulle forme attuali del lavoro e, quindi, dello sfruttamento, poiché essa è determinata in ogni epoca dalle condizioni dello sviluppo sociale: le trasformazioni della scuola vanno lette quindi in relazione alle esigenze di produzione della conoscenza e delle competenze del capitale.
In questo senso, la critica all’attuale modello scolastico deve essere contestualizzata all’interno del passaggio storico dall’accumulazione di tipo fordista alla cosiddetta “società della conoscenza”, in cui il fattore determinante del vantaggio competitivo viene assegnato al lavoro intellettuale e “creativo”. In altre parole, nell’era detta anche postfordista la principale forza produttiva diventa proprio “la fabbrica della cultura del capitale” (L. Vasapollo) e le forme che adotta il processo di produzione della conoscenza si strutturano sempre di più sotto forma di relazione mercantile.
Ne consegue che la scuola stessa si trasforma nel settore centrale per la creazione di valore e per la crescita a lungo termine, nonché per l’aumento della produttività e della competitività. In questo senso, non solo perde di funzione l’attività divulgativa della formazione e di trasmissione della conoscenza per la conoscenza, ma i talenti umani si valorizzano direttamente come capitale umano intellettuale e la selezione interna alla classe diventa spietata, in particolare per la necessaria capacità di adattamento richiesta da un mondo della produzione e del lavoro basato sulla flessibilità sociale e sull’innovazione tecnologica.
L’aziendalizzazione della scuola pubblica e la professionalizzazione dei percorsi formativi non sono quindi un incidente della storia né derivano da un presunto disinteresse delle classi dirigenti europee nei confronti dell’educazione e della cultura, ma rappresentano la risposta del capitale alle trasformazioni strutturali in atto.
Tutto ciò ha un costo anche dal punto di vista del benessere generale della società: la inesorabile selezione di classe operata tramite l’istruzione pubblica conforma le giovani generazioni a una visione dello studio in termini di arrivismo individuale e come mera corsa competitiva, accentuando in “quelli che non ce la fanno” i livelli di disagio psicologico e creando terreno fertile per il riprodursi di dinamiche generalizzate di discriminazione e bullismo.
Nel nostro Paese e, soprattutto, all’interno del processo di integrazione europea, il cittadino-lavoratore deve formarsi, sia ideologicamente che dal punto di vista delle competenze, come soggetto cooptabile dal sistema produttivo europeo, la cui necessità principale è stata finora quella di creare un mercato unico per un ceto lavorativo da impiegare principalmente nel settore terziario.
Le dinamiche di sviluppo diseguale interne all’Unione europea e i limiti strutturali delle economie europee si riflettono direttamente nelle differenze interne ai sistemi educativi dei paesi europei e, soprattutto, nelle disuguaglianze tra Centro e Periferia per livelli di “occupabilità” (per usare un neologismo europeista) dei giovani.
I maggiori tassi di disoccupazione giovanile del Sud Europa rispetto al Nord confermano ancora una volta il dato di cristallizzazione sociale prodotto dal modello scolastico europeo, che va rovesciato e ricostruito per superare il fenomeno dei NEET, dell’overeducation, dell’emigrazione forzata e della precarietà esistenziale delle nuove generazioni.
Come fare?
Già un secolo fa, Gramsci, dirigente e teorico comunista, che bene aveva colto il nesso istruzione-lavoro, all’alba dell’epoca fordista aveva teorizzato la “scuola unitaria”, cioè aveva tracciato un percorso di ricomposizione tra “lo sviluppo delle capacità di lavorare manualmente (tecnicamente, industrialmente) e lo sviluppo delle capacità del lavoro intellettuale”, nell’ottica del superamento della divisione tra dirigenti e diretti, ossia nell’ottica di un’emancipazione sociale di portata storica, quale il socialismo induceva a credere e sperare.
Solo su questa base, e quindi a partire da una “scuola unica (per tutti)… di cultura generale, umanistica, formativa”, sarebbe stato possibile pensare “l’esigenza tecnica” non solo separata dagli interessi della classe dominante ma direttamente “unita con gli interessi della classe ancora subalterna” e porre, quindi, le basi di un “nuovo ordine”.
Le intuizioni gramsciane sono figlie di un approccio e un metodo di analisi che necessita di essere recuperato, alla luce però dell’attuale contesto storico, economico e politico.
Riapriamo il dibattito per iniziare a delineare un’alternativa, per una nuova scuola pubblica in una nuova società.
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