Chi vuole ignorare i “vincoli esterni” all’azione di uno Stato è condannato a sognare una liberazione impossibile per gli sfruttati di quel paese. Anche se si batte con le migliori intenzioni.
Lo abbiamo scritto decine di volte, certo, ma “l’interesse generale” di classe – che si manifesta anche come interesse nazionale in caso di vittoria (si veda Cuba o ogni altra Rivoluzione) – ancora spaventa per le conseguenze, e qualche sovrapposizione, con impostazioni di classe decisamente diverse.
Però c’è poco da sfuggire al dilemma: un paese collocato all’interno di un’alleanza strutturata istituzionalmente (l’Unione Europea o la Nato) si trova in condizioni di forte limitazione della sua “libertà” di scegliere come utilizzare la ricchezza che produce.
Di questo si accorgono prima, per evidente estraneità ai ricatti ideologici giocati sull’etichetta di “sovranismo”, quegli analistti economici che hanno per di più avuto esperienze istituzionali di alto livello. Come ad esempio Guido Salerno Aletta, tra le altre cose ex vicesegretario generale di Palazzo Chigi.
La sua analisi del “patto di stabilità riformato” non lascia spazio ad illusioni su quel programma possa essere realizzato da qualsiasi governo in queste condizioni.
Buona lettura.
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Ritorno a Maastricht, ma in manette
Guido Salerno Aletta – TeleBorsa
Aveva ragione da vendere, Giuseppe Guarino, quando affermava che i regolamenti europei in materia di politica di bilancio erano in netto contrasto con i principi fondamentali della Unione Europea, ed aveva visto lungo Guido Carli che aveva contrattato duramente quelle condizioni tendenziali di aggiustamento del debito pubblico che avrebbero consentito all’Italia di aderire al Trattato di Maastricht senza suicidarsi dal punto di vista economico e sociale.
Mancano pochi mesi all’anniversario del Trentennale del Trattato di Maastricht.
Entrò in vigore il 1° novembre 1993, ha segnato la svolta ordoliberista dell’Unione europea: i parametri inderogabili per i bilanci pubblici, con il tetto del 3% al deficit e quello del 60% al debito, ed il divieto di finanziamento degli Stati da parte delle Banche centrali hanno rappresentato la prima gabbia, poi resa sempre più stretta con il Patto di Stabilità e Crescita firmato nel 1997, che imponeva condizioni di maggiore severità per i Paesi che avrebbero adottato l’euro.
Ulteriori integrazioni seguirono nel 2005, ma il Punto Finale fu raggiunto con il Trattato istitutivo del Fiscal Compact, varato come accordo intergovernativo ed entrato in vigore il 1° gennaio 2013, giusto dieci anni fa.
Per chi non lo ricordasse, prevede che gli Stati aderenti raggiungano il pareggio strutturale del bilancio attraverso una serie di aggiustamenti annuali, volti a conseguire gli obiettivi a medio termine. Nel contempo, il rapporto debito/PIL deve essere ridotto, abbattendo al ritmo del 5% all’anno la somma eccedente il 60%. I Paesi maggiormente indebitati erano quindi sottoposti alla maggiore pressione di risanamento.
Nel 2019, l’ultimo anno in cui le regole del Fiscal Compact sono state operative, prima della sospensione dovuta alla crisi sanitaria che aveva provocato una generalizzata condizione macroeconomica avversa, l’Italia aveva quasi raggiunto una condizione di pareggio strutturale, con un deficit congiunturale dell’1,7%.
I sacrifici continui sul piano dei redditi, che avevano impedito di ritornare al PIL del 2008, avevano comportato il riequilibrio strutturale della bilancia commerciale, finalmente in attivo: i bassi salari avevano abbattuto le importazioni e reso più convenienti le esportazioni.
Il debito pubblico italiano, che nel 2008 era arrivato al 99,8% del PIL dopo una lunga stagione di sacrifici iniziata nel 1993, quando era stato del 127%, era ritornato nel 2019 al 128,7%: l’Italia vive, soffre e lavora solo per pagare il debito.
Inutile dire che, con l’abbattimento del PIL per la pandemia, e le spese pubbliche aggiunte per sostenere l’economia, le famiglie e le imprese, il debito pubblico italiano è tornato a farsi imponente: nel 2022 è ritornato al 138% del PIL scendendo dal 149% del 2021 e dal 155% del 2020.
Un miglioramento fittizio, solo per via della crescita del denominatore nominale, del PIL che è stato gonfiato dalla inflazione. Il debito è aumentato di 112 miliardi di euro, passando dai 1.797 miliardi del 209 ai 1.909 miliardi del 2022. Solo un deficit straordinario, mai visto prima, dell’ordine dell’8% del PIL, ha tenuto a galla il Paese: denari inghiottiti nel nulla.
Un decennio drammatico, tra austerità fiscale e crisi sanitaria, ha indebolito l’Europa.
Ora si tratta di riprendere a crescere, in un contesto di inflazione scatenata da politiche monetarie accomodanti, che ha imposto alti tassi di interesse.
A Bruxelles hanno adottato una strategia molto prudente, benevola solo all’apparenza: niente più Fiscal Compact, niente più bilanci in pareggio o in attivo per abbattere il debito, ma il ritorno alla strategia di Maastricht: limite del 3% al deficit annuo; controllo su un arco di tempo pluriennale della crescita della pubblica spesa al netto degli interessi; riduzione del rapporto debito/PIL al termine del periodo.
Aveva visto giusto Guido Carli, il Ministro del Tesoro dell’Italia che aveva contrattato duramente questi stessi criteri ai tempi della elaborazione del Trattato di Maastricht.
Ed aveva avuto perfettamente ragione Giuseppe Guarino, un grande giurista al quale mi onoro di essere stato vicino, quando affermava che imporre bilanci in pareggio o in attivo per ridurre il debito pubblico era stata una decisione contraria ai principi fondamentali di libertà degli Stati in materia economica che era stato sancito dai Trattati fondativi della Unione Europea.
Furti di libertà, prima che di benessere per i popoli europei.
Tristemente inutile, questa resipiscenza: si torna indietro, a Maastricht, quando furono messe le Manette solo agli Stati, come se solo la loro azione potesse divenire nefasta.
Nessuna crisi sistemica è stata determinata dal debito eccessivo degli Stati: né la crisi americana del 2008, causata dal fallimento di una politica creditizia senza remore; né quella della Grecia che era stata ingozzata di prestiti internazionali e che accusava un incolmabile disavanzo commerciale verso l’estero, né quelle della Spagna e dell’Irlanda che erano state ubriacate dalle bolle finanziate da banche straniere mentre avevano bilanci pubblici impeccabili.
Vediamo che cosa è successo: nel 2008, il rapporto debito/PIL della Spagna era addirittura del 39,4%! Uno Stato dunque virtuosissimo. Ma è arrivato al 100,4% nel 2014, perché lo Stato Spagnolo si è dovuto accollare gli oneri derivanti dai salvataggi bancari, usando i fondi messi a disposizione dal MES, il cosiddetto Fondo Salva Stati: in pratica, lo Stato spagnolo si è indebitato con il MES per rimborsare le banche straniere (francesi e tedesche) che avevano prestato denari alla banche spagnole che erano fallite dopo lo scoppio della bolla immobiliare.
Questi sono i trucchi ed i maneggi del sistema finanziario: ma tanto, poi, pagano gli Stati ed i cittadini.
Si ritorna indietro, a Maastricht, ma con una libertà per gli Stati che è resa farlocca: negli allegati alla nuova regolamentazione, si fa riferimento a metodologie previsionali, “deterministiche” e “stocastiche”, in base a cui si controlla se la spesa netta dei piani pluriennali è destinata a ridursi, insieme ai debiti che devono scendere e comunque rimanere sostenibili.
Come accade con il nuovo Trattato che disciplina il MES, dove le vere condizioni per la erogazione dei prestiti di salvataggio sono indicate in una nota dell’Annesso, anche in questo caso le regole “vere”, la garrota è stata nascosta negli allegati tecnici.
In questo caso, nell’Annesso II, si dispone che gli Stati devono dare conto di tutto ciò che serve per giustificare l’andamento del debito pubblico: non solo delle conseguenze derivanti dall’invecchiamento della popolazione, ma anche “to the extent possible, information on disaster and climate contingent liabilities“.
Mancherebbero solo le previsioni sugli asteroidi in caduta sulla Terra!
La verità è invece assai più banale e ben più triste: per finanziare il PNRR, l’Italia ha deciso di indebitarsi con la Unione europea, con una scaletta di adempimenti che arriva fino al 2026.
Ma, allo stesso tempo, con queste nuove regole, deve diminuire il debito.
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Eros Barone
Perché negli Usa teoria economica dominante e ortodossia finanziaria paiono esercitare un’influenza molto minore che in Europa? La ragione sta nel fatto che l’obiettivo di un cambiamento nei rapporti tra capitale e lavoro in Europa era molto più radicale che non negli Usa, e che tale obiettivo non poteva essere raggiunto senza politiche deflazionistiche di volta in volta presentate e fatte accettare come funzionali al buon andamento dell’economia e, in ogni caso, come ineluttabili. In realtà, la cortina fumogena degli argomenti escogitati dagli economisti è riuscita sempre meno a nascondere l’anima autoritaria del progetto europeo. Inoltre, i successivi allargamenti dei confini europei, con l’Europa a 27, hanno reso evidente a tutti come quello dell’unificazione politica sia stato sempre e soltanto uno specchietto per le allodole, avente lo scopo di facilitare l’accettazione, da parte dei popoli europei, degli svantaggi derivanti dalla rinuncia all’autonomia monetaria e a buona parte di quella fiscale da parte dei rispettivi governi. Deriva autoritaria e orientamento classista caratterizzano l’eurosistema. Come ebbe, per l’appunto, ad affermare Giuseppe Guarino nell’ultimo capitolo del suo libro “Eurosistema. Problemi e prospettive”, Giuffrè, Milano 2006, “sovranità, nel concetto moderno, è democrazia” e “quanto di sovranità è sottratto dall’eurosistema agli Stati, di tanto scemano il carattere e i contenuti della democrazia”: una verità che la storia economica e politica dell’Unione Europea sta confermando con impressionante evidenza.