In delle sue presuntuose e saccenti interviste, Mario Monti dà il suo placet allo scontro tra il governo e la Corte dei Conti, schierandosi dalla parte del governo, che giustifica i pesanti ritardi, che mettono in pericolo i finanziamenti, con il ruolo di controllo della magistratura contabile: è colpa loro, non dei pasticci organizzativi, delle incapacità progettuali nonché delle furbate politiche che favoriscono i privati.
Come volevasi dimostrare: un degno rappresentante della borghesia italiana, un convinto liberale – con una lunga fedina piena di incarichi in banche, industrie, e prestigiose lobbies – ha palesato sincere simpatie verso l’autoritarismo di destra.
Manco a dire che sia una novità, in Italia certe simpatie – per non dire vere e proprie lune di miele – tra i liberali e i fascisti sono storicamente già avvenute con tutto quello che ne conseguì.
Il problema che sta a monte, o meglio, a Monti, è che – ieri come oggi – il vantaggio competitivo del consenso reazionario va sfruttato fino in fondo, a tutto vantaggio di oligarchie industriali e finanziarie, di grandi e piccole corporazioni e le rispettive camarille.
Lo Stato di diritto – i suoi organi di controllo istituiti dalla Costituzione – possono fare la fine dei pilastri dello Stato sociale, cioè essere svuotati, prima di significato e poi di funzione.
Mentre il senatore a vita si rimira allo specchio, compiaciuto del proprio ego reazionario, le regole democratiche vengono rottamate e con loro i diritti. Non è un caso che le prime vittime designate della revisione del PNNR siano proprio la sanità, la scuola e l’ambiente.
Quei soldi, invece che per il bene dei beni pubblici, “meglio ai privati”, secondo i dettami della fede liberista. Privati come la Bocconi, per esempio, di cui il nostro eroe è stato presidente fino a ieri.
Che tanto il conflitto di interessi non esiste, anzi, è proprio il conflitto duro e senza mediazioni degli interessi privati contro quelli pubblici che invita alle danze Monti e Meloni.
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