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Caivano. Blitz, stese e come “perderci la faccia”

Sembra una beffa ma è la realtà. Quella vera. E suona oggettivamente come uno schiaffo a chi, come Giorgia Meloni, si era precipitata in zona per affermare che “Non siamo qui solo per la pur doverosa condanna e solidarietà, siamo venuti a qui a dire che ci mettiamo la faccia“.

Un giorno si apre – a Caivano, o ai Quartieri Spagnoli – con i blitz militari, con l’esibizione muscolare di divise di ogni tipo, con elicotteri volteggianti e con le performance intrusive dei vari corpi speciali a beneficio di telecamera.

La mattina dopo le stesse strade – questa volta, in più, anche al lato opposto della città: a Bagnoli – sono attraversate da sfilate di uomini dei clan in motocicletta che ostentano mitra o scaricano abbondanti “stese” di proiettili come accaduto ieri notte, di nuovo, all’ormai “famoso” Parco Verde.

Ovviamente – anche adesso – stiamo ascoltando le grida di chi rimprovera alla Meloni, a Piantedosi e al Prefetto che “i blitz non servono” e che l’unica strada per ripristinare l’ordine sarebbe, addirittura, lo “stato d’assedio”. La madre dei cretini, com’è noto, è prolifica…

Del resto – già nei giorni scorsi – l’ennesima guasconata di Vincenzo De Luca era orientata in tal senso. L’ineffabile Presidente, conoscendo il territorio molto meglio del Ministro e della Meloni, si era “spinto in avanti” nella “provocazione verbale”, consapevole che il tema della blindatura delle aree di crisi si sarebbe riproposto immediatamente.

Siamo – quindi – all’ennesima replica di quanto da anni avviene nell’area metropolitana di Napoli dove (non è un mistero) intere porzioni del territorio sono sotto un controllo militare, economico (e soprattutto sociale) esercitato dai vari clan e paranze criminali.

La novità è che – da qualche settimana – a seguito dei fatti di violenza a Caivano, dopo l’omicidio del giovane musicista a Napoli e dopo il clamore politico e d’immagine che è stato messo in moto, tale generale percezione sembra amplificata invece che “rassicurata”.

A questo punto – se vogliamo rifuggire da comode ed inconcludenti soluzioni che sono tutt’ora fuorvianti ed inutili – dobbiamo riaffermare alcuni punti fermi che, oggettivamente, vanno in direzione opposta alla dominate vulgata securitaria, manettara e reazionaria.

Non basteranno presidi di Polizia ad ogni angolo della città, non basterà riaprire qualche campetto sportivo o piantumare qualche alberello nelle vaste e desolate periferie urbane, per arginare questa “morfologia criminale”.

Non basterà neanche qualche centinaio di corsi di formazione professionale o qualche scuola aperta al pomeriggio per arginare il degrado economico e culturale in cui sono state fatte precipitare intere fette della popolazione urbana.

Certo, non neghiamo che qualche implementazione della “spesa sociale” (se mai verrà concessa, dentro gli attuali limiti di Bilancio) potrà alleviare qualche singolo caso umano o rappresentare un fattore di notorietà per quella o quella forza politica o, ancora, per questo o quel “prete di strada” (ne ricordiamo di ben diversi, sotto quell’etichetta…).

Il tema vero – quello che può alludere ad una prospettiva di radicale cambio strutturale di questa consolidata organizzazione sociale vigente – è cominciare, anche progressivamente, a mettere in discussione il modello di società in cui viviamo.

Questa affermazione può sembrare “ben/altrista” ma è razionalmente l’unica prospettiva seria, non propagandistica, per spezzare il complesso delle cause scatenanti dei diversi episodi di violenza criminale e frantumazione sociale che sta investendo le nostre società: a Caivano, a Scampia, a Torbellamonaca e in tutte le periferie delle metropoli imperialiste.

Nei giorni scorsi il professor Francesco Barbagallo ha denunciato la retorica ricorrente in questi casi ed ha indicato nella battaglia per l’affermazione di “nuovi valori” una possibile strada per la liberazione dai dispositivi di violenza e di imbarbarimento generale. 

Naturalmente la suggestione di Barbagallo non è una comoda “ricetta per l’avvenire” ma – dopo decenni di chiacchiere inconcludenti, di intere stagioni di “professionisti dell’anticrimine” e dell’intero corollario giustizialista sapientemente costruito su questa emergenza – potrebbe essere una traccia per avviare un processo culturale, politico e sociale alternativo ad un corso che appare dominato degli avvenimenti e dalla cinica canea che, periodicamente, si innesta in casi simili.

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