Il 12 aprile è stata adottata in via definitiva la direttiva sulle case green, con l’obiettivo di una riconversione del parco immobiliare europeo per arrivare a zero emissioni entro il 2050. Dopo una trattativa protrattasi per mesi, il testo è stato infine approvato dall’Ecofin, che riunisce i ministri di Economia e Finanze della UE, ed entrerà ufficialmente in vigore 20 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale comunitaria.
Dalla pubblicazione all’implementazione possono passare due anni, e dunque, teoricamente, dovrebbe essere il governo Meloni ad occuparsene. Ossia l’unico esecutivo che, insieme a quello dell’Ungheria, ha votato contro la direttiva (Svezia, Repubblica Ceca, Croazia, Polonia e Slovacchia si sono astenute).
Il testo della direttiva è cambiato in un gioco al continuo ribasso rispetto alle ambizioni iniziali, e nella forma attuale prevede che ogni Stato definisca un proprio piano nazionale di ristrutturazione, purché si raggiungano determinati obiettivi. Una flessibilità che comunque, in un paese dove oltre la metà degli edifici risale a prima del 1970, significherà un’ingente spesa.
Il ministro dell’Economia Giorgetti ha infatti ribadito che il problema rimane “chi paga?“. Il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa, ci ha tenuto a ribadire la spada di Damocle che pende sul governo, ricordando che “nessun obbligo di intervento sugli immobili è ad oggi previsto. Solo il governo potrebbe imporlo, recependo la direttiva“.
Le finte opposizioni italiane ne hanno subito approfittato per criticare Palazzo Chigi sul tema ambientale. Tiziana Beghin, del Movimento 5 Stelle, ha criticato Giorgetti perché anziché “chiedere risorse aggiuntive […] preferisce una sterile quanto inutile opposizione di bandiera“.
La realtà è che, in quanto a sterilità, sono queste dichiarazioni propagandistiche a vincere. Come è successo altre volte, Giorgetti esprime il realismo dei vincoli euroatlantici imposti alla politica economica: col nuovo Patto di Stabilità e un Def che già presagisce miliardi e miliardi di austerità, chi può credere che si potrebbe ottenere un euro per una direttiva già mutilata?
Il “chi paga?” rimane, e sarà il nodo fondamentale della faccenda quando il governo Meloni dovrà mettere mano alla questione. La risposta la sa tutta la classe dirigente: pagheranno i lavoratori, e la destra dovrà spiegare che non è l’immigrato che sta togliendo soldi dalle loro tasche o lo «status symbol» della casa di proprietà, ma Bruxelles.
Sempre che il governo regga in un quadro in cui l’adesione totale alle tagliole della UE sta svuotando sempre più di significato le sparate sulla “sovranità nazionale” fatte per fini elettorali. Un esecutivo che prepara un altro enorme condono col nome di «pace edilizia», mentre gli viene richiesto l’ammodernamento degli edifici, è già evidentemente con l’acqua alla gola.
Il governo Meloni è però solo un sintomo di un problema sistemico. L’annacquato dettato della disposizione ci ricorda come la contraddizione fondamentale di tutta questa storia sia l’impossibilità di conciliare profitto e tutela dell’ambiente.
Ma non è solo una questione di fatturati e fondi. Per ridurre (neanche più combattere) la crisi climatica, serve un diverso indirizzo politico generale, che riorganizzi l’intero modello in rottura con quei vincoli già ricordati che incatenano il nostro paese a un modello di competizione e accaparramento, ormai votato alla guerra.
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