Il governo mostra la corda, e come tutti prova a nasconderlo. Il problema centrale non è davvero “l’Arianna-gate”, ovvero il surreale caso di un’inchiesta che non c’è a carico della sorella di Meloni, coordinatrice della segreteria politica di Fratelli d’Italia.
C’è da dire che solo l’assenza agostana di notizie politiche – ci sono due guerre in corso alle porte del paese, ma a quanto pare chissenefrega, ci pensano gli americani… – può giustificare l’abnorme attenzione dedicata a un “sospetto”: quello secondo cui la magistratura potrebbe indagare su Arianna Meloni per “traffico di influenze”.
Sorvoliamo sul fatto (importante) che questo reato è stato già molto depotenziato dagli interventi del governo in carica, quindi non avrebbe gli effetti devastanti ipotizzati, e concentriamoci sulla catena di evidenze che nessuno vuol notare.
Il Giornale, diretto da Sallusti, è di proprietà della Tosinvest, finanziaria della famiglia Angelucci. Il cui capo assoluto, Antonio, boss della sanità privata, è da quattro legislature parlamentare nelle varie formazioni del centrodestra, dal “Popolo delle libertà” di Berlusconi alla Lega.
Abbiamo quindi il caso “fortuito” di un giornale posseduto da membro della maggioranza al governo , senza alcuna prova evidente, lancia l’allarme su “manovre eversive” (della magistratura più retriva, accondiscendente e spesso incapace che si ricordi) contro il governo.
Lo stesso Sallusti, per corroborare il suo finto scoop, è arrivato a chiedere una smentita alla Procura di Roma, dimenticando che la magistratura – soprattutto quella inquirente – “parla attraverso gli atti”; ossia mandati di arresto, avvisi di reato, ecc. Altrimenti è obbligata a tacere (tutt’altra cosa, invece, per le associazioni di magistrati, abituate da sempre a interloquire con la politica).
Il tutto poi è partito da un’interrogazione parlamentare (uno degli atti più frequenti e pressoché inutili possibili in Aula) dei renziani. Come dire: se la suonano e se la cantano, a destra, passando amichevolmente la palla e gli assist.
Come ballon d’essai agostano è stato sicuramente efficace, ma solo nel coprire altro. E tutti gli analisti meno fessi hanno provato a guardare ai problemi che si delineano all’orizzonte, visto che è ora di scrivere la legge finanziaria (“di stabilità”, si chiama adesso) e di “tesoretti” in cassa non ce ne sono.
La botta più seria per il governo arriva dal quotidiano economico Milano Finanza, che pubblica un fondo di Angelo De Mattia, ex Direttore della Banca d’Italia. Non un giornalistucolo qualsiasi…
Anche lui parla di “voci” e non di atti pubblici, ma per la sua internità al mondo della finanza istituzionale ha chiaramente letto proposte circolanti in forma di bozza, prima che arrivino alla presentazione ufficiale.
Fin dal titolo l’attacco (al governo) è tranchant: “Nazionalizzare Bankitalia, un’ipotesi da colpo di sole”.
Il termine “nazionalizzare” può ingenerare confusione, ma solo perché lo statuto della Banca d’Italia favorisce gli equivoci, specie tra i non addetti ai lavori. L’istituto è infatti un ente di “diritto pubblico”, incaricato di tenere sotto controllo la stabilità dei prezzi; stampa denaro nell’ambito delle decisioni prese dalla Banca Centrale Europea, ecc. Dunque è di fatto una istituzione pubblica.
Ma la sua proprietà – le azioni del suo capitale – sono in mano a soggetti privati, ossia banche, assicurazioni, enti di previdenza italiani.
Un ircocervo prodotto dalle “privatizzazioni” anni ‘90 (quelle di Prodi, Bersani e tutto il centrosinistra d’allora), perché gli azionisti di riferimento di Bankitalia (la maggioranza azionaria relativa) era in mano alle “banche di interesse pubblico” gravitanti nell’ambito delle “società partecipate”.
In pratica erano banche semi-pubbliche, che avevano un tempo il compito di stampare moneta per conto dello Stato.
La privatizzazione di quelle banche, e le fusioni-acquisizioni successive (il “risiko bancario”), hanno portato alla situazione attuale.
Toccare questo sistema significa aprire molti fronti di guerra contemporaneamente. L’idea circolante nel governo sarebbe quasi da prima elementare, ossia da ignoranti totali: comprare le quote azionarie dai privati (una spesa relativamente bassa, circa 7,5 miliardi di euro, meno di quanto ha regalato lo Stato ai Benetton per riprendersi la società Autostrade dopo il crollo del Ponte Morandi).
Una volta preso il controllo, si potrebbero usare le “risorse” di via XX Settembre per sistemare i conti pubblici nel modo più consono ai diktat della Commissione Europea.
De Mattia chiarisce in pochi tratti la ragione per cui questa idea è da “colpo di sole”. Intanto la cifra da spendere (7,5 miliardi) “in base a una singolare stima che lega il valore dell’Istituto solo al suo capitale”.
Non secondaria nemmeno la disponibilità dei potenziali venditori delle azioni (“ammesso che i 173 attuali partecipanti al capitale fossero adeguatamente indennizzati e cedessero le rispettive quote”), potendo come minimo “tirare sul prezzo” visto che si paleserebbe una “domanda” fin qui inesistente.
L’ostacolo principale sarebbe comunque istituzionale e internazionale: “chiara violazione dell’autonomia e indipendenza dell’Istituto, anche finanziaria, tutelata, in quanto parte del Sistema europeo di Banche centrali, dal Trattato Ue che ha, per l’Italia, rango di legge costituzionale”.
In pratica “bisognerebbe acquisire il parere obbligatorio della Bce, che è facile immaginare”. A meno di non uscire da tutti i trattati, da Maastrcht in poi, non si può fare…
E infine il problema con “i mercati”, perché “si formerebbe l’effetto-annuncio che toccherebbe la politica economica e di finanza pubblica ingenerando il convincimento che si sia alla frutta nella gestione dei conti pubblici e, quindi, si ricorra a misure fin qui mai neppure concepite”.
E’ appena il caso di ricordare il singolare collegamento tra l’Arianna-gate e questa “idea balzana”: il ministro dell’economia, Giorgetti, è una delle figure di spicco della Lega. Come Angelucci (padrone de Il Giornale).
Non è neanche il caso, qui, di ricordare tutte le nostre critiche all’Unione Europea, alle sue regole e ai suoi diktat. L’idea di “nazionalizzare la Banca d’Italia” non sarebbe probabilmente una buona idea neanche dopo una rivoluzione socialista (“Un [ministero del] Tesoro proprietario totalitario della Banca centrale nazionale non è esistito neppure nell’Unione Sovietica all’epoca del più duro Gosplan”, ricorda De Mattia) e comunque andrebbe ragionata nell’ambito di una visione strategica del cambiamento sociale e di sistema economico, non come singola “misura spot”.
Resta insomma la straordinaria sensazione di pochezza della classe politica al governo (non solo quella ovviamente, viste le vicende del centrosinistra e dei Cinque Stelle).
L’obiettivo più realistico di questa “pensata” sarebbe com’è ovvio un “piano B” per nulla originale, “riproponendo la questione stracca e stantia delle riserve valutarie dell’Istituto, per non dire di quelle auree, e del loro impiego da parte del governo, dimenticando puntualmente, ogni volta in cui viene agitato questo tema, che le riserve sono a presidio della moneta e della sua stabilità e che, per il fatto che sono della Banca ente pubblico, non significa che possano essere stralciate dal suo bilancio e utilizzate per impegni di spesa”.
Alla fine, non potendo naturalmente metter mano su quel “tesoro”, il governo eserciterà con più ferocia del solito il consueto “taglio della spesa pubblica”, mettendo di nuovo mano a pensioni, sanità, scuola, università, cura del territorio, ecc.
Miseri pasticcioni della politica, deboli con i forti (la Ue e la Nato) e vandali contro i deboli. Facendo pure le vittime di “oscuri complotti”…
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
Italicus
Se si esamina l’Italia, il sistema-nazione non esiste più. I francesi controllano banche, energia, alimentare, distribuzione e manifattura. Gli inglesi i partiti politici, l’info ed i servizi. Gli israeliani le telecomunicazioni.
L’Italia avrebbe dovuto seguire l’esempio della Germania ed iniziare nel 2014 (primo anno di brusco deterioramento internazionale) a rimpatriare le proprie riserve auree, terze al mondo. Non si è fatto e chissà se quell’oro tornerà mai indietro.
Arsenio Stabile
Pardon, c’è qualche imprecisione, le banche in questione erano quelle cd di “interessa nazionale” (non d’interesse pubblico) ed erano di proprietà dell’IRI, mentre le banche “d’interesse pubblico” erano altre (MPS, San Paolo, Banco di Napoli, BNL, ecc.)