La Banca d’Italia parla in genere poco, ma quando lo fa è bene cercare di capire. E ieri ha stabilito due cose importanti, che riguardano da un lato l’azione della Bce negli ultimi anni e le mosse del governo Meloni in vista della “manovra” finanziaria di fine anno.
Sul primo fronte, Via XX Settembre quantifica la durezza della stretta della Bce sui tassi di interesse – +450 punti nel giro di due anni – decisa per combattere un tasso di inflazione che ad un certo punto aveva superato il 10% annuo.
Bankitalia non mette ovviamente in dubbio la necessità di quella scelta, obbligatoria nel quadro di una visione neoliberista dell’economia, ma precisa i danni che ha provocato sull’economia reale: l’inasprimento monetario avrebbe ridotto la crescita del Pil di circa l’1% nel 2022, tra 3,5 e 5% nel 2023 e intorno al 2% nel 2024.
In pratica l’economia europea ha smesso di crescere da tre anni a questa parte, e poco consola la constatazione che non tutti i paesi hanno reagito allo stesso modo (più colpita la Germania, ex “locomotiva d’Europa”, il che è una pessima notizia per tutti gli altri).
Esplicita, in questa analisi, la previsione che la Bce taglierà di nuovo i tassi nella riunione della prossima settimana – dopo le sforbiciate di giugno e settembre – ma deciso anche l’avvertimento: neanche questo sarà sufficiente a facilitare la trasmissione del denaro verso gli investimenti produttivi, dato che le banche hanno aumentato l’attenzione per la “rischiosità” delle singole imprese.
Anche perché l’inflazione europea viaggia ormai all’1,8%, ben sotto il livello “desiderabile” (il 2%), e ritrovarsi di nuovo in deflazione solo tre anni dopo non è proprio un traguardo felice.
Se si pensa all’autentico crollo del settore automobilistico europeo, che trascina un indotto di enormi proporzioni, si comprende quanto far ripartire “la crescita” – in assenza totale di investimenti pubblici – sarà un’impresa per nulla facile e sicuramente dai tempi lunghi.
Indirettamente questa analisi di Bankitalia influisce sul giudizio relativo alle cifre “sparate” dal governo Meloni, tutte abbellite per giustificare scelte di corto respiro da inserire nella “legge di stabilità”.
La prima cosa che salta agli occhi è la stima del Pil per l’anno in corso, che il Mef di Giorgetti indica all’1,2%, mentre secondo la banca centrale sarà al massimo dello 0,8%. La cifra del Pil è importante non solo in sé (ricadute su occupazione, entrate fiscali, ecc), ma anche – o soprattutto – perché fa da denominatore nelle frazioni “deficit/Pil” e “debito/Pil”, fondamentali nel sottoporre la “manovra” al giudizio insindacabile e “austero” della Commissione europea.
Detto in soldoni; un Pil anche solo leggermente più basso implica un deficit e un debito proporzionalmente più alti, e quindi la necessità di interventi ancora più duri sulla spesa pubblica.
Non proprio una buona notizia per una manovra che già ora fatica a trovare le voci da comprimere in modo il più possibile “indolore”, tanto da far andare in primo piano la favola del “faremo pagare le banche” (sappiamo com’è finita un anno fa l’analoga barzelletta sugli “extraprofitti”).
Ancora più secca la critica – indiretta, certo, Bankitalia sa esprimersi in modo molto “istituzionale”, senza scivoloni di bassa lega – all’obiettivo governativo di rendere “strutturali” gli sgravi contributivi sul lavoro. Se il Pil ne beneficerebbe nel breve (i lavoratori dipendenti si troverebbero qualche spicciolo in più in busta paga, che ovviamente spenderebbero subito visto che il salario in genere non permette di arrivare a fine mese), alla lunga il sistema pensionistico potrebbe traballare.
E’ quello che andiamo ripetendo da anni: i contributi previdenziali sono già soldi dei lavoratori (la quota di salario che va nutrire i fondi Inps e quindi la pensione futura), ed è una macabra presa per i fondelli quella di renderli “disponibili subito”, perché contemporaneamente si svuota “la riserva” che garantirà un reddito anche dopo aver smesso di lavorare.
Questo dal punto di vista dei singoli lavoratori, che avrebbero perciò bisogno di aumenti veri in busta paga (ossia più salario cash e, di conseguenza, anche più contributi previdenziali).
Bankitalia ci aggiunge il punto di vista “sistemico”: questa operazione, alla lunga, fa saltare il sistema pensionistico pubblico, già compromesso dai salari bassissimi, precari, ecc (meno salario c’è e ovviamente meno contributi previdenziali escono fuori).
Quindi il presunto “atto di generosità” di un governo che fa la mossa di metterti a disposizione forse 50 euro al mese è in realtà un atto criminale che porterà a pensioni (ancora di più) da fame; o a nessuna pensione.
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