Nel 2015 fu imposto dalla Troika, dall’Unione Euruopa e dal solito Fondo Monetario Internazionale, alla Grecia, un sanguinoso “programma di salvataggio”: in cambio di tre “piani di aiuto” (289 miliardi concessi a tassi d’interesse usurai, con piani di rientro infiniti), dal 2010, vennero applicate al paese riforme draconiane: misure che distrussero, nel giro di pochi anni, il già malmesso welfare greco e che constrinse lo Stato ellenico a svendere gli asset strategici del paese, facendo precipitare la sua popolazione nella miseria più nera.
E tutto ciò soltanto per salvare le banche tedesche e francesi che avevano largheggiato con prestiti sia allo Stato che ai privati, creando per qualche anno una euforia da benessere effimera e senza basi economiche serie. Poi l’improvvisa richiesta di “rientro” fatta tramite l’Unione Europea.
Ricordate il referendum del luglio 2015 contro quel feroce piano di austerity? L'”OXI“, il no, fu votato dalla maggioranza schiacciante del popolo greco (61%), ma dato che Tsipras si era mostrato comunque favorevole ad un accordo con la UE, Varoufakis si dimise ed il piano passò lo stesso.
La volontà popolare dei greci, fu totalmente ignorata e dall’orgoglio e l’entusiasmo che il popolo ellenico aveva riscoperto e trasmesso a tutto il mondo, si passò, nel giro di pochissimo tempo, alla delusione ed alla rabbia per il tradimento consumato.
Nel corso degli anni successivi la disoccupazione salì al 27,5% (quella giovanile al 60%) contro una media dell’8,3% nella zona euro; mentre il potere di acquisto dei greci scese di dieci volte e lavoratori e pensionati, per sopravvivere dovettero indebitarsi fino al collo. L’emigrazione arrivò al 31% ed, a causa dei sanguinosi tagli alla sanità pubblica, milioni di persone non ebbero più accesso alle cure mentre il tasso di mortalità aumentò notevolmente compreso, purtroppo, quello infantile.
La Grecia di allora sembra l’Italia di oggi? Si, le somiglia tantissimo.
Sanità sfasciata e dentro una dinamica di progressivo smantellamento: personale agli sgoccioli ed allo stremo, pronto soccorsi come inferni; attese infinite anche per accertamenti ed analisi salva-vita e malati oncologici; medicina territoriale sempre più ridotta al lumicino e boom della sanità privata e in convenzione tanto che, nel 2023, gli italiani costretti a rinunciare alle cure sono stati 4,5 milioni per meri motivi economici.
Poi, in materia di salari e stipendi, l’Italia è, da un pezzo, il paese peggiore dell’area UE. Una proiezione sugli ultimi trenta anni, pubblicata a maggio 2022, certificava inesorabilmente che soltanto nel nostro paese salari e stipendi anziché aumentare nei 30 anni che vanno dal 1990 al 2020 registravano una contrazione del 2,9%.
Una percentuale che, a causa della pandemia era già da ritoccare ma che, con la guerra e l’economia di guerra (esclusione dal nuovo patto di stabilità della spesa militare in fortissima crescita) che l’Unione Europea sta inponendo ai paesi membri e con un’inflazione galoppante a due cifre, è destinata a crescere in modo esponenziale.
La povertà assoluta colpisce 5,7 milioni di individui, pari al 9,7% del totale dei residenti in Italia mentre cresce sempre più l’incidenza della povertà relativa che coinvolge ormai più di 8,5 milioni di individui anche perché continua ad espandersi drammaticamente l’area del lavoro povero: almeno il 12% dei lavoratori sono working poors, persone che pur lavorando sono povere e non riescono a vivere in modo dignitoso. Si tratta di almeno 3 milioni di persone che guadagnano meno di 11.500 euro netti l’anno, ovvero, poco più di 950 euro al mese, se va bene.
Sul lato previdenziale poi, altro che “abolizione della legge Fornero” ed altro che “pensione anticipata”. Tutte chiacchiere al vento. La riforma previdenziale allo studio del Governo prevede che dal 2029 l’uscita dal lavoro passerà dagli attuali 67 anni a 67 anni e 5 mesi.
Secondo osservatori e analisti, l’obiettivo finale è il superamento del tetto dei 70 anni. E si tratta di pensioni calcolate con il famigerato sistema “contributivo” che si basa non più su un sistema di ripartizione solidale ma soltanto sui contributi versati. In parole povere questo vuol dire, per i più, pensioni da fame.
Basterebbe ricordare che, ad esempio, in Francia, con la riforma Macron, l’età pensionabile è passata da 62 a a 64 anni, ma calcolata con il metodo retributivo: quello che nel 1995 governo e Cgil, Cisl e Uil, hanno fatto sparire di comune accordo per lanciarsi, tutti insieme appassionatamente, nella favolosa (per loro) avventura dei fantastici fondi pensione.
Le grandi compagnie assicurative ancora ringraziano ma non non ancora sazie vorrebbero scippare ai lavoratori anche i TFR (trattamenti di fine rapporto). C’est l’Italie.
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