Lasciateci, per una volta, segnalare che – pur essendo un giornale solo online, senza finanziamenti né padroni, con redattori “militanti” senza paga – per una volta ci avevamo preso, anticipando di molto i professionisti del mainstream.
Deve essere colpa di quella curiosità che non può albergare nelle redazioni dove “la notizia” è quella che arriva dall’alto… Da un’agenzia di stampa internazionale, da un tweet di un potente, da un ordine della proprietà dei giornale…
Però, parlando onestamente e senza alcuna intenzione ironica (per una volta), abbiamo apprezzato che il Corriere della Sera abbia ospitato un pezzo di Andrea Marinelli che prova a dar conto dello “stile comunicativo” di Donald Trump e che gli conferisce – per riconoscimento quasi unanime – il dominio sull’agenda politica: Le tre regole spregiudicate di Trump e chi è Roy Cohn, l’avvocato che gliele ha fornite: «Se vuoi vincere, si vince così».
L’attenzione e l’occasione permettono infatti di precisare quanto avevamo già scritto quasi due mesi fa, subito dopo le elezioni stravinte dal tycoon. E forse abbiamo sbagliato anche noi, allora, a inserire il ragionamento critico sulle “tre regole” all’interno di un articolo più generale, invece di dedicargli un “pezzo a parte”. Rimediamo oggi.
L’articolo di Marinelli è di qualità, ben scritto, coglie molti punti importanti del Trump style. Ma, detto con sincera tranquillità, si svolge interamente dentro i criteri della critica cinematografica, al confine tra fiction e realtà, e quindi non coglie il punto vero – tutto politico – quello che segna un “cambio d’epoca” nella visione politica dell’Occidente collettivo, e che caratterizza l’avanzare apparentemente inarrestabile della destra più reazionaria e suprematista che sia mai apparsa al mondo dalla conquista del Reichstag da parte dei sovietici, il 9 maggio del 1945.
Sono “regole” che investono, a prima vista, quasi soltanto la tecnica della retorica, come nel trattato di Quintiliano. Ma più seriamente incidono sulla struttura e la relazione reciproca tra “dialoganti”, tra oppositori all’interno di un qualsiasi sistema conflittuale regolato. E cambiano sia la “grammatica” che il rapporto tra competitor.
Chi è che le “consiglia”
Roy Cohn, nella storia Usa e nella fiction, è un bastardo incommensurabile. Fu infatti un giovanissimo viceprocuratore federale, ossia “l’avvocato dell’accusa”, al processo contro i coniugi Ethel e Julius Rosemberg, due ebrei comunisti poi condannati a morte per spionaggio a favore dell’Unione Sovietica, nel 1951.
Le prove raccolte erano parecchio incerte, e i giudici ad un certo punto sembravano orientati a condannare soltanto Julius – ingegnere elettrico, dunque potenzialmente capace di comprendere parte dei “segreti” che uscivano dal laboratorio nucleare di Los Alamos – visto che lei era considerata una “semplice segretaria”, al massimo impegnata a dattilografare quanto scritto dal marito.
Roy Cohn, nella storia e nella serie, rivendica di essere riuscito – contro ogni ragione, prova e “necessità bellica” – ad ottenere che anche Ethel finisse a “friggere sulla sedia elettrica” (cit.), lasciando due figli orfani.
Anche Roy Cohn era ebreo come i Rosenberg, ma sionista estremo e sedicente “patriota Usa”. La comune convinzione religiosa, o l’appartenenza allo stesso popolo, non gli suscitò alcuna compassione. Contava solo essere anticomunisti o il contrario, a riprova del fatto che il sionismo è un’ideologia politica di sterminio, una deriva “religiosa” e settaria del colonialismo occidentale, non un altro modo di chiamare – offendendolo – il mondo ebraico.
Continuò poi la sua carriera da avvocato per affari importanti, sporchissimi, molto redditizi, inizialmente quasi solo i “gruppi sovversivi” accusati dal maccartismo di essere “pagati dai sovietici”. Hedgar Hoover, il più criminale tra i direttori dell’Fbi, lo segnalò proprio al senatore McCarthy, con cui organizzò una caccia alle “spie sovietiche” sostenendo che i comunisti all’estero avevano convinto diversi omosessuali non dichiarati impiegati dal governo federale degli Stati Uniti a trasmettere importanti segreti governativi in cambio della non rivelazione della loro sessualità.
A questo punto diventa necessario, e non per fare gossip, ricordare che anche Roy Cohn era un “omosessuale non dichiarato”, ma questo non gli impediva di denunciarli o più spesso ricattarli pur di ottenere “risultati” giudiziari, nei processi d’affari e/o politici.
Fa così, e si vede nella serie, con il giudice che deve decidere se Trump ha la possibilità di prendersi a due soldi quel che poi diventerà la Trump Tower a New York. Gli presenta le foto dei suoi incontri omosessuali (a un cattolico coniugato con figli!), prospettandogli lo scandalo e la fine di una vita; e ciò basta per far vincere “The Donald”, facendo decollare la sua carriera di immobiliarista.
Per capire però quanto quelle “tre regole” fossero l’identità profonda dello stesso Cohn è bene ricordare che fu tra i primi a morire di Aids, ma fino al giorno della morte negò sia di essere omosessuale che sieropositivo all’ultimo stadio. Nonostante le cartelle cliniche…
La logica delle “tre regole”
“Le tre regole” che Trump impara ad utilizzare, nella serie The apprentice, sono spartane nella loro semplicità: “1) Attacca sempre, 2) nega anche l’evidenza, 3) non ammettere mai una sconfitta.”
Chi le utilizza davvero non riconosce nessun avversario legittimato da altri interessi, obiettivi, sogni. Vede solo nemici da battere. Non sono regole pensate per gestire efficacemente un dialogo o un dibattito anche aspro, insomma, ma la forma verbale con cui si spezza qualsiasi possibilità o legittimità di un dialogo. Non esiste insomma nessuna possibilità di “trovarsi d’accordo” se non cedendo completamente, su tutta la linea.
Detto altrimenti: chi le utilizza non vuole “primeggiare in un dibattito pubblico”, ma ottenere la possibilità di fare quel che ha in testa, di sgombrare il cammino da un ostacolo. Non si preoccupa di “fare brutta figura”, di apparire rozzo e insopportabile, “incivile”.
Vuole vincere e dominare. E basta.
In uno studio televisivo questo atteggiamento è possibile fin quando un arbitro (un “conduttore”) resta in grado di contenere l’esuberanza battagliera e menzognera, ma nei casi estremi – come accadde quando, per esempio, Roberto D’Agostino prese a schiaffi Sgarbi, bloccato sul meno fantasioso “capra!, capra!” – anche lì si finisce per rompere il filo.
Fuori, nella realtà quotidiana, può solo finire con la ritirata del contendente o con lo scontro fisico. O peggio.
Quelle “tre regole” sono infatti un regolamento di guerra. Si può fare tutto, dire tutto, negare tutto. Non esiste terreno comune, non esiste regola valida per tutti. Non esistono “mosse scorrette” che non si possano usare, ma solo quelle che fanno vincere o perdere. Non esiste legge e tanto meno giudici imparziali (se servono, si comprano o si corrompono; se non si fanno corrompere è perché “si sono già venduti ad altri”).
Basta leggere i giornali che descrivono quel che avveniva nelle guerre passate (il Corriere stesso, al tempo del fascismo) per capire che in guerra la prima vittima è la verità. E l’onestà…
Un incubo che spazza via il sottile velo di ipocrisia liberale costruito sulla “democrazia parlamentare”, l’”ordine basato sulle regole”, le “buone maniere”, il “riconoscimento reciproco” tra avversari politici legittimati a competere.
Sergio Leone aveva a suo modo sintetizzato un rapporto del genere ne Il padrino, con la formula “gli facciamo una proposta che non può rifiutare” (la testa del suo cavallo preferito nel letto, le foto di una relazione proibita, un colpo di pistola, ecc). O, come si dice ora nella diplomazia internazionale, “la pace attraverso l’uso della forza” (o fai quello che dico, oppure sparo…).
Ma questa logica mafiosa, questo “suprematismo egoistico“, non ha nulla in comune con l’impianto della “democrazia liberale”. Al massimo cerca di utilizzarne gli spazi, quando è in posizione di debolezza militare (o finanziaria), per tutelare il più possibile la propria esistenza, in attesa di tempi migliori. Insomma, un avvocato difensore può servire, ma per aggirare la legge, e poi si vede.
Se non si coglie la radicalità di questa rottura quando le “tre regole” vengono utilizzate nello scontro politico – infranazionale o internazionale che sia, tra competitor e ormai anche fra “alleati” – non si capisce neanche il perché dell’avanzare incontrastato della reazione neofascista e neonazista dentro “l’Occidente collettivo”.
Un’avanzata demolitoria del vecchio ordine fondato proprio dagli Stati Uniti, al punto che ormai questa logica di guerra si introflette anche nel rapporto tra storici “alleati” euro-atlantici.
Come ci si rapporta, infatti, con qualcuno che non fa neanche finta di ritenersi un tuo pari? Che dichiara apertamente di volerti solo fregare o distruggere perché così vuole lui o il suo “dio”?
E’ il problema che sta angosciando oggi in primo luogo gli “alleati euro-atlantici”, perché per tutti gli altri soggetti rilevanti – Cina, Russia, Iran, resto del mondo in genere – è sempre stato così. Un rapporto di guerra, in cui ci si muove per limitare al massimo le potenzialità distruttive di un mostro andato progressivamente fuori asse man mano che procedeva la sua crisi.
E’ il problema che si trovano ad affrontare le classi dirigenti “liberali” (comprese quelle abusivamente chiamate “di sinistra”), dentro i vari Stati nazionali e persino nell’insieme sovranazionale chiamato Unione Europea.
I venti “nazionalisti” sono fatti della stessa pasta trumpiana, ne hanno adottato le stesse regole, sconquassano in modo identico le antiche consuetudini dell’establishment, sfruttando anche al meglio le insofferenze popolari – la paura della perenne precarietà esistenziale, oltre che lavorativa – nate dall’accorgersi che “la civiltà liberale”, per loro, non ha più uno strapuntino da offrire per stare a tavola. Anzi, non c’è più la tavola (“a fuera!”, grida Milei tagliando interi settori pubblici che limitavano tra l’altro la povertà).
Come si fa a non vedere che Meloni, Le Pen, Salvini, Abascal o, giù per li rami, anche le figure televisive di secondo e terzo piano (Senaldi, Belpietro, Bocchino, Santanché, Sechi, Donzelli, Del Debbio, ecc) sono tutti studenti più o meno diplomati alla stessa scuola delle “tre regole”? Cloni più o meno efficaci di un identico format? Soldati di un esercito che non discute, ma occupa posizioni?
Non è più il tempo di scrollare la testa schifati dalla brutale rozzezza di certa gente. Non si tratta di dare un voto sulla pessima condotta, ma di saper stare sul ring.
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Le tre regole spregiudicate di Trump e chi è Roy Cohn, l’avvocato che gliele ha fornite: «Se vuoi vincere, si vince così»
Andrea Marinelli – Corriere della Sera
Il perfido avvocato newyorkese, mente del Maccartismo negli anni Cinquanta, è il mentore del giovane Trump all’inizio della sua carriera raccontato nel film The Apprentice. È lui a fornirgli le tre regole spregiudicate che utilizza ancora oggi
Per capire come Donald Trump è diventato Donald Trump bisogna osservare un’altra persona: Roy Cohn. È questo perfido e spietato avvocato newyorkese il vero protagonista, per oltre metà film, di The Apprentice — Alle origini di Trump, presentato in anteprima al Festival di Cannes 2024 e disponibile su Sky dal 19 gennaio. Divenuto celebre a 23 anni, quando fece condannare a morte i coniugi Julius ed Ethel Rosenberg, ritenuti spie dell’Unione Sovietica, Cohn — interpretato da Jeremy Strong — andò a caccia di comunisti con il senatore Joseph McCarthy negli anni Cinquanta prima di incrociare la strada di Trump, di cui divenne — come si definì lui stesso — «la guida culturale a Manhattan.»
Nel film il regista Ali Abbasi racconta l’ascesa del giovane Trump nella New York degli anni Settanta e Ottanta. In quella metropoli in malora Donald è ancora, soltanto il figlio di Fred Trump, un uomo autoritario che costruisce palazzine nel Queens e preferisce non affittare appartamenti ai neri: i suoi dipendenti marchiano con una «N» le richieste da rigettare, il dipartimento di Giustizia indaga, il figlio bussa porta a porta per riscuotere l’assegno mensile che raramente arriva.
Donald — interpretato da Sebastian Stan, che ne restituisce tic e movenze alla perfezione –— è un giovane ossessionato dai ricchi e potenti, che brucia d’ambizione: è al Le Club, il locale frequentato dalla gente che conta sulla 55esima Strada, che nel 1973 incrocia per la prima volta lo sguardo di Cohn, circondato da politici e mafiosi, artisti e finanzieri, al quale chiede aiuto per districarsi dalle accuse di favorire la segregazione razziale.
In Trump, però, Cohn non vede un cliente, quanto un’opportunità: non solo accetta di difenderlo, ma lo introduce negli ambienti che contano della città che conta, e ne diventa — nei momenti decisivi della sua ascesa — il più fidato consigliere. «Tu sei il cliente e lavori per me», gli dice a un certo punto del film, «fai come ti dico quando te lo dico».
Contemporaneamente, l’avvocato ne asseconda le ambizioni, anche quando sembrano fuori portata: ad esempio quando Trump vuole riaprire un albergo abbandonato sulla 42esima strada infestata di tossici, spacciatori e prostitute, e chiede al consiglio comunale di New York un’esenzione fiscale. Sembra impossibile, ma ci riescono: Trump ha l’idea folle, Cohn applica il suo metodo, oltre i limiti della legalità.
«Quando c’è la democrazia in gioco violo qualche cavillo», gli confida. «Devi essere disposto a fare qualunque cosa per l’America». E così gli interessi personali e quelli dell’America iniziano ad accavallarsi, almeno nella mente di Trump. Il giovane Donny vuole diventare un vincente, vuole finire anche lui fra le foto dei personaggi famosi appese alla parete nello studio del suo avvocato; Cohn gli insegna quindi come «sfruttare il potere e instillare la paura negli avversari». E gli fornisce le sue tre regole spregiudicate, le stesse di cui fa uso ancora oggi che guida la principale potenza del pianeta:
1) attacca, attacca, attacca;
2) non ammettere niente, negare ogni cosa;
3) dire che hai vinto e non ammettere mai la sconfitta.
«Se vuoi vincere», gli spiega, «si vince così». E Trump, come ha dimostrato ampiamente dopo la sconfitta elettorale del 2020, ha assorbito la lezione, reinterpretandola. Anche la sua capacità di fare notizia e stare sempre in prima pagina nasce in quegli anni al fianco di Roy Cohn: l’avvocato sapeva trasformare i propri guai in notizie, amava l’attenzione di tabloid e riviste, era amico di Murdoch. Proprio come Trump, che porta all’eccesso gli insegnamenti del suo mentore. L’ambizione, la sua ossessione per i soldi e per il potere, sono infatti così forti da spingerlo a superare il maestro: assorbe, copia, e reinterpreta.
Nel film — scritto dal giornalista di Vanity Fair Gabriel Sherman, ben introdotto all’interno del mondo di Fox News e autore di The Loudest Voice, biografia dell’ex boss della rete Roger Ailes — ci sono altri personaggi che hanno contribuito a plasmare il Trump che oggi governa, ma che al tempo — pur ventilando già negli anni Ottanta una candidatura alla presidenza — sosteneva che governare «fosse da sfigati: do i soldi ai politici per fare quello che voglio». Innanzitutto il padre Fred, che lo cresce ripetendogli una frase fino allo sfinimento. «Sei un killer, sei un re», gli diceva. Doveva imparare, il giovane Donald, che è necessario essere un killer, per poter diventare un re.
Fatale è anche l’intreccio con Ivana Zelnickova, la prima moglie, modella cecoslovacca che diventerà famosa indossando il suo cognome. Al primo incontro, sempre al Le Club, lei (sullo schermo Maria Bakalova, già in Gomorra e Borat) lo accusa di essere uno stereotipo vivente: «Sei uno che pensa che alle donne serve aiuto». Poi arrederà la Trump Tower e gli trasmetterà il proprio gusto, come la passione per i marmi rosa di Carrara.
E infine c’è Roger Stone, poco più di una comparsa nel film, che avrà tuttavia anche lui un’influenza decisiva nella vita politica di Trump, finendo anche in galera per non tradirlo. L’uomo con il tatuaggio di Richard Nixon sulla schiena è però all’epoca solo un ragazzetto viscido e servile alle dipendenze di Cohn: «Si occupa di politica, è specializzato in colpi bassi», dice l’avvocato presentandolo a Trump a bordo piscina.
Anni dopo, quando chiederà al tycoon di sostenere la candidatura di Ronald Reagan alla presidenza, si presenterà nel suo ufficio con uno slogan: «Let’s Make America Great Again». Anche in questo caso, Trump ha assorbito il messaggio e lo ha reinterpretato.
In poco più di dieci anni, fra il 1973 e il 1986, si compie la trasformazione. Il giovane Donny, figlio di un immobiliarista del Queens, diventa Donald Trump, l’uomo ossessionato dall’estetica che vuole conquistare il mondo attaccando il suo cognome a ogni cosa: alberghi, casinò, gioielli, compagnie aeree, vodka o bistecche. Fino alla Casa Bianca.
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Mara
IIn un festival del cinema all’Auditorium a Roma prima del covid, fu proiettato un documentario in cui è stato fatto vedere questo Roy Coh. dal vero e tutta la sua carriera la sua ossessione per i comunisti, il processo ai coniugi Rosenthal, si vedeva apparire accanto a Mac Carthy e a Donal Trump suo pupillo . nel sottofondo del documentario c’era una voce che commentava con disgusto tutte le nefandezze che ha
fatto nella sua vita questo essere…Purtroppo non ricordo l’autore dei commenti, ma mi ha comunicato tutto il disprezzo per quest’uomo.
Sono contenta di aver visto questo spaccato di vita americana, molto istruttivo, andrò a vedere anche il film.