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Primo Maggio a Napoli: per una nuova stagione di ‘Meridionalismo Popolare’

A quasi 18 mesi dalla drastica abolizione dello strumento del Reddito di Cittadinanza – tra le prime misure fortemente caratterizzanti del governo Meloni – tutti gli indicatori statistici, compresi quelli accademici o afferenti ad organizzazioni padronali, certificano il complessivo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei settori popolari della società meridionale.

Non c’è comparto del lavoro nell’immediato arco temporale alle nostre spalle (da quello cosiddetto garantito fino all’infinita gamma delle forme di sfruttamento con cui si configura il mercato del lavoro legale/illegale al Sud) che non segnali un aumento delle modalità di progressiva svalorizzazione del salario, delle tutele contrattuali e dell’insieme dei diritti di cui dovrebbe essere garantito l’usufrutto sociale. Stiamo assistendo ad una preoccupante estensione/generalizzazione in tutta la società del Working Poor ben oltre i “confini ufficiali” di questo tipo di contrattazione che intreccia i settori dell’economia nera/grigia ancora fortemente attiva.

Tale dato di crisi è confermato non solo dallo stato di salute degli insediamenti produttivi “storici” (come la Stellantis ed il suo indotto) ma persino aziende che si ritenevano al “riparo dalla crisi” (particolarmente alcuni segmenti di piccole e medie imprese afferenti il circuito dell’automotive, del ciclo del bianco e della componentistica di base) sono colpite da tagli degli ordinativi, cali produttivi ed, ovviamente, da cicli continui di cassa integrazione e da altre variegate modalità di decurtazione salariale e di abbassamento dei livelli di difesa collettiva e normativa.

Eppure una interessata propaganda – di parte governativa e confindustriale – tende ad accreditare una immagine di una sorta di rinascita meridionale all’insegna delle mirabolanti performance economiche derivante dai processi di turistificazione selvaggia e da ciò che potrebbe conseguire dall’implementazione su vasta scala delle famigerate ZES (Zone Economiche Speciali) di cui tutti i governatori delle regioni meridionali – in maniera trasversale agli schieramenti politici – sono grandi supporter.

In realtà siamo di fronte ad un gigantesco tentativo di penalizzare e rigerarchizzare la forza/lavoro meridionale, di ridisegnare la struttura urbanistica ed architettonica del territorio e di rifunzionalizzare le varie catene del valore per adeguarle ai desiderata dell’Azienda/Italia nell’ambito delle difficoltà che si vanno addensando nell’attuale andamento dei mercati globali a causa dell’accentuarsi di tutti i fattori della competizione internazionale.

Non a caso il Meridione d’Italia, nel palesarsi quotidiano di questa nuova dinamica di ristrutturazione/riconversione economica e produttiva, versa un notevole contributo di sangue e di mutilazioni, attraverso il continuo riperpetuarsi degli Omicidi sul Lavoro, sotto lo sguardo assente delle istituzioni preposte al controllo e/o al rispetto dei protocolli di sicurezza.

In tale contesto sociale e materiale – per quanto attiene le vaste platee di disoccupati di lunga durata, con scarsi livelli di scolarizzazione e di capacità professionali e, significativamente, per quanto riguarda il destino di centinaia di migliaia di donne proletarie – la cancellazione del Reddito di Cittadinanza è stata una autentica mazzata ed ha contribuito, non poco, ad abbassare gli oggettivi livelli di contrattazione individuale di queste persone a fronte di una offerta lavorativa totalmente deregolamentata.

Una autentica mazzata che si è rappresentata non solo come dato materiale, individuale e collettivo, ma anche attraverso gli aspetti che riguardano la sfera ideologica. Tutto l’iter mediatico, comunicativo e fattuale che ha preparato il terreno a tale manomissione normativa ha dato la stura all’abusata narrazione classista e razzista contro gli scansafatiche, i meridionali che chiedono assistenza e l’intero corollario culturale che criminalizza storicamente le classi subalterne del Sud.

E’ evidente che la cancellazione del Reddito di Cittadinanza non ha intaccato esclusivamente gli interessi di queste cosiddette fasce deboli della composizione di classe ma – se osserviamo gli effetti macroeconomici ed anche quelli particolari e specifici – possiamo affermare che anche le altre tipologie di lavoratrici e di lavoratori scontano, magari con una tempistica differenziata e diluita nel tempo, gli effetti destrutturanti di questo attacco al Salario Sociale e a ciò che residua del complessivo sistema di Welfare State.

A fronte di tale condizione in cui si avvertono, distintamente, i segnali dell’approssimarsi di un ennesimo nuovo ciclo di affondi antisociali – nei posti di lavoro, nei territori e nell’insieme della società – diventa urgente l’obiettivo del rafforzamento degli strumenti di intervento politico diretto tra i settori popolari, nelle periferie urbane e nei luoghi topici delle contraddizioni.

Un impegno politico/sociale/sindacale non facile, sicuramente complesso, ma un passaggio irrinunciabile se vogliamo tentare di invertire questo rovinoso corso politico/materiale. Un lavorio intelligente e necessariamente articolato per porre le basi per costruire – per davvero – una Rappresentanza Politica Indipendente a tutto campo degli interessi dei settori popolari della società.

Tutti i limiti riscontrati nei timidi di segnali di mobilitazione e di lotta contro la volontà governativa di cancellare il Reddito di Cittadinanza e nelle risposte episodiche che avvertiamo in occasioni di crisi aziendali e/o vertenze sindacali e sociali sono non solo il prodotto di un diffuso disorientamento di massa, derivante dagli effetti dei colpi della crisi, ma sono, soprattutto, da ascrivere al collaborazionismo delle organizzazioni sindacali complici e di quelle forze politiche (come il Movimento 5 Stelle) che, particolarmente al Sud, a fronte di dichiarazioni roboanti e demagogiche non hanno dato e non danno seguito ad un coerente e conseguente piano di organizzazione sociale, di mobilitazione e di lotta.

Siamo, dunque, immersi in una condizione sociale complessa dove gli elementi della frantumazione sociale e della innaturale concorrenza al ribasso tra i lavoratori sembrano azzerare le spinte al protagonismo collettivo e all’organizzazione. Una situazione, però, che, se osservata non impressionisticamente, incuba, oggettivamente, non solo un mugugno sociale diffuso ma anche tutti i coefficienti politici ed una materia sociale che potrebbero determinare un nuovo ciclo di lotte.

Al Sud – dove persino i progetti collegati ai Fondi PNRR si stanno rivelando una ennesima occasione di speculazione, di affarismo e di grassazione antiproletaria – c’è bisogno di una stagione politica di Meridionalismo Popolare per rimettere al centro dell’iniziativa gli obiettivi della difesa intransigente dei nostri diritti e della nostra vita costruendo quell’indispensabile spazio politico fuori ed oltre le consumate liturgie di una “sinistra” e di una “variante populista” che nulla di buono hanno comportato per il mondo del lavoro, i ceti popolari e per gran parte della nostra gente.

Un Meridionalismo Popolare consapevole che la questione/contraddizione meridionale non è una anomalia o una distorsione di una “cattiva gestione del capitalismo” nei nostri territori ma è un fattore costitutivo delle moderne modalità con cui il Modo di Produzione Capitalistico e le sue forme di comando e di governance economiche ed amministrative agiscono per garantire il loro corso antisociale nella dinamica sviluppo/sottosviluppo tipica dei vari Sud, in Italia e non solo.

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