Un nuovo processo, dopo quasi 50 anni. Ma l’analogia con quello in corso per lo scontro a fuoco alla Cascina Spiotta, in cui venne uccisa Mara Cagol, finisce qui.
A Milano la gip Maria Idria Gurgo di Castelmenardo, accogliendo la richiesta dei pm Crupi e Lesti, ha riaperto le indagini sull’omicidio di Fausto e Iaio – ovvero Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci – due compagni di 18 anni che stavano tornando a casa dopo esser stati al centro sociale Leoncavallo, la sera del 18 marzo 1978, mentre l’Italia stava ancora metabolizzando il sequestro di Aldo Moro, due giorni prima.
Un classico agguato fascista, “all’ingrosso”, ossia fatto contro qualcuno che semplicemente aveva l’aspetto e l’abbigliamento “di sinistra” e si trovava nei pressi di una sede nota come tale. Se c’è una somiglianza, insomma, è con l’omicidio di Roberto Scialabba a Roma, ucciso da Giusva Fioravanti in piazza Don Bosco come “ripiego” per il fallimento di un altro agguato.
Le indagini sull’omicidio dei due giovani compagni milanesi non erano mai state particolarmente approfondite, come quasi sempre è accaduto per gli omicidi di compagni per mano dei fascisti.
Un berretto di lana perso dagli assassini sul luogo del delitto è scomparso dall’”ufficio corpi di reato”, rendendo così impossibile qualsiasi successivo test del dna (a quei tempi ancora inesistente). Ed altrettanto è accaduto per i proiettili estratti dai due corpi con l’autopsia.
Impossibile credere a due casi di “distrazione” così clamorosi e coincidenti, nella stessa indagine.
I bossoli, invece, erano stati portati via dai killer, che avevano usato buste di plastica intorno alle pistole usate per l’omicidio. Non migliore era stato l’apporto di alcuni dietrologi “di sinistra”, che mettendo al centro della loro attenzione la residenza di uno dei due compagni (via Montenevoso, dove fu poi trovata una base delle Br) diedero un “piccolo contributo” al depistaggio delle indagini.
Per riaprire le quali, però, occorreva qualche “elemento nuovo”. E questo è stato fornito da una informativa della Digos che riparte da due volantini di rivendicazione e dalle macchine da scrivere usate dai neofascisti romani negli anni ’70, ora sottoposti ad una nuova attività di comparazione dattilografica.
Nel corso dei numerosi arresti di neofascisti autori di altri attentati, infatti, erano stati scoperti parecchi “covi” e sequestrato copioso materiale, tra cui appunto diverse macchine da scrivere usate anche per stendere i volantini.
Tecnologia “arretrata” dell’epoca, certo, ma con il pregio di presentare caratteristiche praticamente “individuali” in seguito al consumo di alcune parti, incidenti, ecc. In pratica due macchine da scrivere della stessa marca e modello, se non nuovissime, presentavano segni caratteristici diversi sufficienti ad identificarle in relazione ai documenti o volantini ritrovati.
Nel caso dell’omicidio di Fausto e Iaio, infatti, i volantini furono sostanzialmente due. Uno “dedicato” specificamente all’agguato milanese, il secondo invece scritto per rivendicare un attentato a una sezione romana del Pci, in cui l’agguato ai due compagni veniva citato come parte della stessa “campagna”.
Entrambi i volantini erano firmati “Esercito Nazionale Rivoluzionario – Brigata combattente Franco Anselmi“, un terrorista dei Nuclei Armati Rivoluzionari morto durante una rapina all’armeria Centofanti di Roma, il 6 marzo del 1978.
Quella sigla non apparve più e quindi era presumibilmente una delle tante usa-e-getta inventate per l’occasione, ma da qualcuno che era in qualche modo “autorizzato” a definirsi dei “Nar”. Nessun comunicato ufficiale dei quali, successivamente, smentì mai quella rivendicazione.
Stiamo parlando di un numero si persone in fondo piuttosto limitato, in cui non doveva esser troppo complicato risalire a “chi aveva fatto cosa”. Eppure gli inquirenti – e polizia e carabinieri – si sono quasi sempre fermati prima di arrivare al traguardo. La vicenda delle indagini sull’omicidio di Valerio Verbano è per molti versi un “paradigma”.
Come possibili responsabili del duplice omicidio la procura milanese riparte da tre nomi già indagati dalla giudice Forleo, che aveva chiuso l’istruttoria segnalando diversi “indizi di colpevolezza” insufficienti però a diventare “prove” e quindi giustificare un rinvio a giudizio con qualche possibilità di arrivare ad una condanna.
Inutile dire che Massimo Carminati, Claudio Bracci e Mario Corsi – i tre neofascisti romani “indiziati” – hanno sempre proclamato la propria estraneità a quel duplice omicidio, pur se condannati per altri fatti della stessa natura (ma mai per omicidio).
L’indizio più diretto, all’epoca, riguardava Mario «Marione» Corsi (poi radiocronista noto tra i tifosi), nella cui casa gli investigatori trovarono fotografie di Fausto e Iaio e dei loro funerali; nei giorni dell’agguato, in effetti, invece che a Roma era presente a un raduno a Cremona, contando però su un’abitazione a Milano.
Dopo quasi 50 anni tutte le speranze di arrivare ad identificare gli assassini sono legate a una perizia sulle macchine da scrivere ritrovate nei vari covi dei Nar. Un elemento forte – se riscontrato – sul piano delle “cose”. I problemi sorgeranno probabilmente nell’attribuzione dell’uso della macchina “giusta” a questo o quell’altro dei neofascisti arrestati.
Speriamo ovviamente che sia possibile e che la verità si finalmente scoperta.
Sul piano politico, intanto, possiamo registrare anche empiricamente quanto sia ipocrita la “memoria selettiva” di tutta la classe politica italiana – sia quella apertamente di destra, sia quella sedicente “democratica” – sempre pronta a ricordare Ramelli e sempre dimentica dei ben 27 compagni (stima per difetto, crediamo) uccisi allora dai fascisti.
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Roberto, Fausto E Iaio: Tre Omicidi Targati Nar
Trascorso il mese di vigilanza anticomunista proclamato dai NAR dopo la strage di Acca Larentia, per le strade di Roma scorre ancora sangue.
Alle 23.10 del 28 febbraio 1978 a piazza Don Bosco, nel quartiere di Cinecittà, in un agguato a mano armata viene ucciso il giovane militante di sinistra Roberto Scialabba, 24 anni, e rimane ferito suo fratello Nicola. Le vittime, sedute con altri amici sulla staccionata che delimita i giardini al centro della piazza, diventano bersaglio di colpi di pistola esplosi da tre giovani scesi rapidamente da una Fiat 130 sopraggiunta in precedenza.
Nonostante qualche telefonata anonima attribuisca alla destra la paternità dell’azione, l’omicidio non viene rivendicato ufficialmente. Gli inquirenti seguono la pista del regolamento di conti interno alla malavita, solo perché Scialabba aveva in tasca una piccolissima quantità di hashish, e non considerano la data in cui avviene l’agguato omicida. Il 28 febbraio cade infatti il terzo anniversario della morte di Mikis Mantakas, attivista del Fuan assassinato a piazza Risorgimento dagli estremisti di sinistra.
Nel gruppo che ha agito a Cinecittà si decide che è arrivato il momento di fare il salto di qualità. Solo che per passare alla lotta armata non è più possibile utilizzare armi che si inceppano, né è buona norma sfruttare unicamente i canali della malavita per il loro approvvigionamento. L’unica possibilità è rapinare chi le armi le espone e le vende.
A neanche una settimana dall’omicidio di Roberto Scialabba, il 6 marzo ’78 un commando di quattro uomini armati fa irruzione nell’armeria dei fratelli Centofanti, in via Ramazzini 109, quartiere Gianicolense.
Sotto il tiro di tre armi da fuoco i titolari sono costretti a consegnare loro otto revolver nonché documenti e orologi, ma, mentre il commando si sta ritirando dall’azione, Danilo Centofanti estrae da sotto il bancone la sua 357 Magnum e colpisce alle spalle uno dei rapinatori che si era attardato.
Il cadavere dell’uomo colpito alle spalle rimane a terra in una pozza di sangue con la metà del corpo ancora riverso dentro al negozio. È Franco Anselmi, 22 anni, attivista missino della sezione Portuense, coinvolto con Sandro Saccucci nel raid di Sezze nel 1976.
La rapina non viene rivendicata, ma nell’area della destra molti conoscono i responsabili. A Roma per i complici di Anselmi l’aria si fa irrespirabile. La polizia effettua diverse perquisizioni negli ambienti contigui al missino ucciso.
Passano solo due giorni dalla strage di via Fani e dal rapimento di Aldo Moro da parte delle BR e il 18 marzo 1978, a Milano, vengono uccisi due giovani militanti di sinistra. Fausto Tinelli e Lorenzo «Iaio» Iannucci, entrambi di 19 anni, cadono fulminati dai colpi esplosi da un commando composto da tre uomini che utilizzano armi silenziate.
Benché i compagni delle vittime, che frequentavano il Leoncavallo ed erano impegnate nella stesura di un libro bianco sullo spaccio di eroina a Milano, non nutrano molti dubbi sulla chiara responsabilità dei fascisti, passano diversi giorni per accreditare la pista politica del duplice omicidio. Una telefonata anonima giunta alla redazione romana dell’Ansa afferma:
I Gruppi Nazional Rivoluzionari rivendicano l’eliminazione dei due giovani di Lotta continua avvenuta “per vendicare l’uccisione dei nostri camerati”.
Poi a confermare l’esecuzione di marca neofascista, a Roma, viene fatto ritrovare un comunicato.
da Valerio Lazzaretti, Valerio Verbano Ucciso da chi, come, perché, Odradek Edizioni 2011 pp.117-125
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