“Non siamo solo migranti, siamo lavoratori e lavoratrici”. È quanto si poteva leggere sul cartello tenuto da uno dei più di 6 mila manifestanti che sabato 14 giugno, sotto un sole che cuoceva le carni, hanno riempito le strade di Napoli per la manifestazione “Non sulla nostra pelle”, convocata dal Movimento Migranti e Rifugiati e sostenuta da organizzazioni politiche come Potere al Popolo!, collettivi studenteschi e universitari, sindacati conflittuali, associazioni provenienti dalla provincia di Napoli ma anche dal casertano.
Non era l’unico cartello a sottolineare una dimensione che, invece, nel dibattito pubblico, quasi sempre viene forzatamente fatta sparire: quella di classe. Le persone migranti sono nella stragrande maggioranza lavoratori e lavoratrici. Tra le migliaia di persone in corteo c’erano centinaia di operai tessili impiegati nelle fabbrichette disseminate nei Comuni del vesuviano; braccianti che raccolgono frutta e ortaggi nelle campagne del casertano; badanti e lavoratrici domestiche che assumiamo nelle nostre case.
Persone del Bangladesh, del Mali, dello Sri Lanka. Ma quanto è importante il luogo di provenienza? A chi fa gioco ragionare in termini di nazionalità e non di classe? A chi giova una divisione su linee nazionali o addirittura razziali?
Non che non esistano differenze interne. La prima e più impattante sulle vite di milioni di persone è l’architettura normativa, costruita legge dopo legge, decreto sicurezza dopo decreto sicurezza, tanto dall’ultradestra (legge Bossi-Fini, decreto Conte-Salvini), quanto dal centrosinistra (Turco-Napolitano, decreti Minniti), che ha costruito un regime di apartheid e precarietà assoluta all’interno del nostro Paese.
Non è un caso se la principale rivendicazione fosse di un “permesso di soggiorno subito”, perché la dimensione dei diritti di cittadinanza è imprescindibile. Perché un minimo di stabilità è il presupposto per poter costruire la propria vita, il proprio futuro. E perché diritti di cittadinanza – quelli che la maggioranza degli elettori del M5S e il 15-20% di quelli del PD recatisi a votare ai referendum dell’8 e 9 giugno hanno voluto negare con i loro “no” – significano più forza e maggiori possibilità di sottrarsi ai ricatti e alle minacce degli imprenditori di casa nostra. Diritti di cittadinanza significano quindi immediatamente meno competizione al ribasso in seno alla classe lavoratrice.
A chi però è pronto a “ridurre” tutto ai diritti di cittadinanza (senza comprendere che dire cittadinanza significa per l’appunto dire condizione sui posti di lavoro), un giro al corteo napoletano avrebbe avuto tanto da mostrare.
A partire dai tanti cartelli e striscioni che recitavano un netto e sintetico “no alla guerra” a quelli che denunciavano le “guerre umanitarie” dell’imperialismo occidentale. Non solo gli interventi del passato, ma anche quelli del presente: quelli francesi nel Sahel per provare a spezzare i processi dal carattere anticoloniale in corso in diversi Paesi dell’area; il genocidio israeliano in Palestina e la recente guerra contro l’Iran.
Guerra presente anche per il fronte interno. Il corteo rivendicava case, asili nido, ospedali. Metteva cioè i piedi nel piatto della discussione sulla crisi del welfare state. A chi insiste sulla presunta scarsità di risorse che comporterebbe una guerra tra poveri per l’accesso ai servizi sociali, i manifestanti evidenziavano come quella delle “risorse scarse” sia una favoletta.
Il potere politico continua infatti a ripetere che non ci sono soldi per soddisfare le esigenze popolari, per mettere a disposizione case a tutte e tutti, per attivare pronto soccorso, per costruire asili nido, per pagare congedi di paternità degni di questo nome, proprio mentre si prepara ad accettare il diktat NATO che imporrà decine di miliardi di euro in più all’anno da spendere in armi.
La manifestazione napoletana lascia intravedere la potenza di un soggetto tutto da ricostruire. Una piazza che al “retequattrismo”, alla divisione dei “nostri” su base nazionale che ci consegna solo all’impotenza, contrappone un’altra strada. Quella della politicizzazione delle diseguaglianze secondo una logica verticale – contro il potere politico ed economico – non orizzontale; quella che evita la guerra tra poveri per le briciole, anziché fomentarla. Quella che organizza i “nostri” sulla base del ruolo nella produzione e nella società, non del passaporto che si ha in tasca.


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