La frase di Heidegger «La scienza non pensa»(i) risale all’inizio degli anni 50 dello scorso secolo. Questa frase si è prestata, da quando la scrisse il filosofo, a molte superficiali interpretazioni – alcune delle quali in senso riduttivo – quasi ad affermare che il pensiero umano, nella sua accezione più alta, fosse terreno estraneo alla scienza materiale.
In realtà, Heidegger – nella trattazione che questa frase contiene – non ha affatto intenzioni denigratorie nei confronti della scienza. Se mai, si tratta – come vedremo – di una delimitazione: una definizione dell’ambito entro il quale, secondo il filosofo, ama muoversi la scienza, descrivendo quei confini naturali che è poi la scienza stessa a darsi.
Heidegger, anzi, riflette se questi comodi confini siano giustificati, e sulle ragioni per le quali la scienza, invece, dovrebbe pensare, o perlomeno essere aiutata a farlo.
Sotteso a questa affermazione vi è in realtà il dibattuto concetto di neutralità della scienza. Scienza che secondo alcuni – come ad esempio lo scienziato atomico Werner Heisenberg [D. C. CASSIDY, Un’estrema solitudine. La vita e l’opera di Werner Heisenberg, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 126] dovrebbe occuparsi della ricerca, dell’avanzare della conoscenza tecnica del genere umano, del “progresso”, applicando il metodo scientifico, che tanti successi e miglioramenti materiali ha apparentemente portato all’umanità negli ultimi secoli.
L’indubbio successo del metodo scientifico, e dello “spingere avanti la frontiera della conoscenza”, fraintesa essere quella esclusivamente materiale, ha portato al nascere di una sorta di franchigia, quasi un territorio franco: la ricerca, la scienza, si occupano di acquisire nuove conoscenze, che risulteranno comunque – assommate – in un progresso, contribuiranno in qualche modo al “Progresso”, quello con la P maiuscola: dovrebbero quindi essere libere da legacci ideologici ed impacci morali?
Spingendo all’estremo questo ragionamento scientista, così comune nella concezione di molti scienziati applicati, ogni scoperta, ogni nuova frontiera della “conoscenza” aperta, valgono di per sé.
La scienza sarebbe allora – in una visione neopositivista quasi da Ballo Excelsior – sempre buona, ogni progresso della conoscenza sarebbe comunque un progresso, e quindi non esisterebbe lo scienziato immorale: se mai, egli è amorale, si pone – verso le questioni che riguardano le conseguenze delle proprie scoperte – con un atteggiamento di neutralità.
Non si parla quindi – dicendo che ‘la scienza non pensa’ – di un recinto entro il quale la scienza è costretta, ma di una comoda riserva, che consente andare a caccia di nuove scoperte senza le limitazioni imposte dal sociale e dalla morale, concetti percepiti dallo scienziato come intrinsecamente distanti dal proprio ambito di lavoro.
Lo scienziato, puro o applicato, rimane sempre in realtà uno scienziato puro: anche l’invenzione della dinamite da parte di Alfred Nobel – per citare un esempio paradigmatico – costituisce comunque un progresso della conoscenza umana.
La chimica e la fisica che stanno dietro questa invenzione, ed i chimici e fisici applicati che con le loro ricerche la mettono a punto, non meritano censura o giudizio morale. La “libertà di ricerca” è sacra, una sorta di religione moderna dello scienziato, “neutrale” in quanto si muove in un terreno dove conta, unico principio, il progresso della conoscenza.
Sta poi allo scienziato sociale, al filosofo, al politico, al giurista, stabilire – in un secondo momento, anche se non si sa bene quando – quali siano gli utilizzi morali ed appropriati della scienza: non allo scienziato. Perché la scienza, appunto, ‘non pensa’: ha ben altro di cui occuparsi.
La prima metà del Novecento è caratterizzata, nell’ambito dello sviluppo delle scienze fisiche, dalla cosiddetta “Era Atomica”, iniziata con la scoperta della radioattività e culminata, nell’agosto del 1945, con l’esplosione dei primi ordigni atomici, passando attraverso l’esperienza dei “Ragazzi di Via Panisperna” e la competizione, durante la guerra, fra il gruppo di scienziati del progetto Manhattan – da un lato – e gli scienziati atomici tedeschi capitanati da Werner Heisenberg – dall’altro.
Fu proprio in questa occasione – culminata con la tragedia di Hiroshima e Nagasaki – che l’ideologia della neutralità della scienza, con l’esplicito rifiuto da parte degli scienziati di considerarsi corresponsabili dell’uso dei risultati delle proprie azioni, mostrò per la prima volta in modo clamoroso la sua terribile inadeguatezza.
L’intuizione e successivamente la verifica delle potenzialità distruttive delle nuove armi atomiche causarono, oltre a una profonda impressione sull’opinione pubblica di tutto il mondo, una necessaria riflessione e crisi delle coscienze nell’ambito di chi a questi progetti lavorava.
Un esempio, nel primo senso, è quello di Bertholt Brecht, che sentì la necessità di modificare una delle scene finali del suo dramma “Vita di Galileo”.
In un primo tempo, l’autore aveva messo in rilievo il fatto che la Scienza si presentava come un formidabile strumento di progresso, capace di distruggere le superstizioni, con l’aiuto delle quali i potenti tengono incatenati gli schiavi.
Dopo Hiroshima e Nagasaki, Brecht ritenne doveroso precisare che non è la scienza in sé ad essere fattore di progresso, bensì l’uso sociale che viene fatto di essa.
Gli scienziati, dunque, devono farsi carico di una precisa responsabilità etica circa l’uso delle proprie scoperte, pena il loro drammatico allontanamento dalla società umana, e la loro trasformazione in una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo, pur di “poter fare ricerca”.
Fra gli scienziati atomici, sono molteplici gli esempi di percorsi umani e di coscienza che portarono – con diverse sfumature – a progressive prese di distanza dalla ricerca militare in campo atomico: Einstein, Fermi, Szilard, Bethe, Rasetti, Oppenheimer, Franck, Pontecorvo e molti altri passarono dalla partecipazione attiva al rifiuto, o all’opposizione più o meno forte.
In alcuni casi, il passaggio fu precoce, traumatico e non privo di conseguenze personali. In altri, fu anche dettato dalle mutate condizioni politiche o dall’opportunità. Alcuni altri, come Heisenberg, sperimentarono la caduta del concetto utopico di “Scienza neutrale” con drammatica evidenza, perseguendo poi ambiguamente una rivalutazione della figura dello “scienziato nonostante tutto”.
Ritornando all’affermazione di Heidegger, egli vuole in realtà mettere in evidenza il pericolo che si prospetta per l’umanità se “la scienza non pensa”. Il filosofo vuole “chiamare in causa” la scienza, indicando le pericolose conseguenze dell’erigere il recinto tecnico-scientifico nel quale essa – e lo scienziato – pretendono di muoversi comodamente.
Si tratta quindi di una provocazione, un invito a riflettere più profondamente su ciò che la scienza e la tecnica rappresentano per l’uomo contemporaneo, uomo tecnologico come mai è avvenuto prima nella storia: «proprio perché la scienza non pensa, il pensiero deve nella situazione attuale prestare insistentemente attenzione alle scienze – ciò che esse non sanno fare per loro conto» (ii).
Perché, allora, la scienza ‘non pensa’? Consideriamo ad esempio la fisica. La fisica lavora concentrando la propria attenzione sulla natura, mirando a scoprirne le leggi. Essa si dirige verso l’analisi e lo studio dell’insieme dei fenomeni fisici/naturali. La fisica, quindi, accerta e fissa la natura in un determinato campo di oggetti: questi fenomeni costituiscono il suo oggetto specifico.
La scienza fisica non interroga mai la propria essenza, non pone il problema circa il proprio essere, ricalcando quella dimenticanza della propria essenza che caratterizza del resto anche la metafisica. La scienza non pensa allora nel senso che essa indaga intorno a un qualcosa senza metterlo in questione come tale.
Heidegger pone pertanto l’accento sull’esigenza di compiere invece un ulteriore percorso: il compito del pensiero è proprio quello di elevarsi oltre il singolo settore scientifico particolare della scienza e della tecnica, arrivando a contestualizzare la conoscenza materiale in un ambito più ampio.
2. Scienza come decadenza dell’umanesimo? (iii)
Le tesi più critiche nei confronti della supremazia della tecnica hanno sostenuto che il recente progresso tecnico-scientifico avrebbe portato a una irreversibile decadenza dell’umanesimo: la superpotenza della tecnica non mirerebbe che al proprio potenziamento, per cui avrebbe già sottomesso ogni cosa, primo fra tutti il dominio del pensiero, e di conseguenza la stessa “vera essenza” dell’uomo, nonché la possibilità di affermare valori etici.
Heidegger pensava ancora la tecnica dal punto di vista del motore, ovvero pensava alla tecnologia come a un movimento dal centro alla periferia, senza ritorno.
Anche Adorno, quando criticava il mondo della comunicazione, aveva in realtà in mente Goebbels che parlando alla radio persuadeva i tedeschi ad andare in guerra.
Successivamente è nata la tecnica elettronica ed informatizzata, per cui, ad esempio, nella programmazione televisiva si deve tenere conto dell’audience: se le ditte non pagano le pubblicità i programmi non possono sostenersi economicamente.
La riflessione che si può allora fare è che vi è forse una certa speranza nella logica interna a certe tecniche. E la speranza è appunto che si autocontrollino, e, come in una dialettica di tipo marxiano, ci offrano la possibilità di un gioco diverso.
Un saggio di Heidegger compreso in «Sentieri interrotti» intitolato «L’epoca dell’immagine del mondo» (iv) inizia un discorso significativo: la scienza produce un’immagine del mondo, successivamente le scienze si moltiplicano, si specializzano, e l’immagine di mondo che esse producono entra in una sorta di conflitto.
Oggi, del resto, lo vediamo già: non c’è “La” Scienza, ci sono le scienze che parlano spesso linguaggi difficilmente compatibili tra di loro.
Heidegger estremizzava il discorso, dicendo che lo sviluppo delle scienze produce addirittura dei conflitti tra le varie immagini del mondo che le singole scienze costruiscono, dopo di che, in questo conflitto, l’immagine del mondo diventa impossibile e comunque incalcolabile. Il saggio si conclude in maniera assai pessimista, invocando il gigantesco, l’incalcolabile, cioè ciò che ci sfugge.
Un altro concetto di Heidegger che si può interpretare in maniera favorevole al mondo della tecnica è l’idea del Ge-Stell, che vuol dire «l’insieme dello Stell», cioè l’insieme di ciò che l’uomo pone come tecnologia. Nella conferenza «Identità e differenza» (v) il Ge-Stell viene guardato addirittura come «un primo lampeggiare dell’essere».
Non è quindi opportuno esagerare in una polemica contro la tecnologia, perché questa eccessiva critica si basa su una visione della tecnologia che non tiene conto degli aspetti bidirezionali, dato che la tecnologia non è soltanto un centro a cui una periferia corrisponde passivamente.
Heidegger non ha mai detto che bisognava superare davvero la metafisica, perché era consapevole di quanto ciò fosse difficile da fare – e con la tecnica lo è altrettanto – ma ci ha piuttosto suggerito che si poteva “pervertirla”. Pensiamo alla pratica di utilizzare il casco e i guanti per accedere alla “realtà virtuale” e provare un’esperienza estraniante credendo sia vera. Questo è un modo di pervertire una tecnologia che invece è nata per motivi militari.
Potremmo poi porci la domanda: «Come fa l’etica, che non può, a dire alla scienza e alla tecnica, che possono, di non fare ciò che possono?» [Umberto Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano. 2000].
L‘etica ha certamente delle colpe, nel senso che non riesce ad imporsi alla politica. Ma la domanda così posta pecca di eccessivo logicismo: il principio di non contraddizione è un principio del linguaggio, che però trasferito immediatamente alla logica delle cose diventa problematico.
L’etica ha bisogno di essere praticata politicamente, anzi non vi è nessun altra etica se non la politica: Aristotele diceva che il culmine dell’etica era la politica, perché la politica è, come dire, il senso dell’etica, perché l’etica non è fatta di imperativi, è fatta di imperativi di rispetto dell’altro, di accordo.
L’etica dovrebbe diventare politica nel senso migliore e non credere nei principi strettamente propri e, soprattutto in relazione alla logica interna alla scienza – una logica appunto del tipo «se abbiamo inventato questo necessariamente inventiamo quest’altro» – deve opporsi a una determinata logica sociale dell’uso della scienza.
La filosofia della scienza, nel ventunesimo secolo, deve essere una filosofia sociale della scienza, cioè intesa nel senso di un suo uso sociale. Non diciamo certo che si possa impedire ai ricercatori di fare delle ricerche, anche perché le ricerche oggi, molto ragionevolmente, sono sempre più necessariamente sostenute da quantità enormi di denaro che richiedono l’intervento pubblico, delle aziende, ecc.
Quindi effettivamente l’unica risposta etica a questo è un controllo politico vero e proprio della nostra comunità, su ciò che si può fare e su ciò che non si può fare.
In una società in cui clonare un essere umano sia possibile tecnicamente, ma impossibile socialmente, nessuno di noi vorrebbe andare a cena con un clone. Effettivamente bisogna che l’etica faccia più attenzione all’etichetta, che faccia attenzione a ciò che è ragionevolmente possibile presentare agli altri.
Il tempo della tecnica, della società neocapitalista, sembra essere un tempo che si riduce proprio diventando sempre più veloce. E più veloce gira il mondo, più l’uomo, allora, avrebbe meno tempo per pensare.
La tecnica impone quindi il tempo dell’esistenza, per cui l’uomo non ha più tempo per riflettere sul fine ultimo e, paradossalmente, dietro alla frenesia del vivere si manifesta una sorta di pigrizia mentale. L’idea di un tempo lento che viene violato dalla tecnica, l’idea che l’accelerazione sia comunque un male, è però concetto discutibile.
Ad esempio, un tempo Kant pubblicava la «Critica alla ragion pura», e dopo sei mesi usciva una prima recensione, dopo un anno una seconda e così via. Oggi l’iter di recensione di un filosofo che pubblica un libro perlopiù si esaurisce in una settimana, perché un giornale lo pubblica, e da lì nascono altri articoli.
Da che punto di vista possiamo considerare un male che non ci sia una lunga macerazione? Perché sembra che il pensiero sia sempre soltanto la storia di un individuo singolo che deve leggere la «Ragion pratica» e recensirla, per poi essere sottoposta a una seconda lettura? Però, se nel giro di una settimana lo leggono, per estremizzare il discorso con un esempio, diecimila recensori ed escono diecimila recensioni, tenendo conto l’una dell’altra, allora forse non è necessariamente peggio.
Non necessariamente la cultura necessita di un metabolismo lento. Una volta, quando non c’era la stampa, era difficilissimo ricordarsi le cose a memoria. Per esempio la trasmissione orale dei poemi omerici ricordati a memoria dava luogo probabilmente a dei cambiamenti; anche i copisti del Medioevo copiavano e oggi forse diremmo che invece se gli antichi testi fossero stati stampati una volta per tutte, sarebbe stato meglio.
Questa accelerazione dei tempi, certo, produce disagio in chi è legato ad un tipo di cultura libresca, riflessiva, umanistica. Probabilmente, dei fisici ricercatori sono molto più contenti di ricevere i risultati rapidamente, allora anche qui ci sarà un elemento di utilità, perché la fisica è più immediatamente “usabile”.
3. Scienza ed ermeneuticavi (vii)
L’ermeneutica ha sempre privilegiato le scienze dello spirito a scapito di quelle naturali: non a caso, per Heidegger, il luogo della verità autentica, cioè delle verità come apertura, può essere l’opera d’arte, la fondazione di uno stato o l’interrogazione del pensiero, ma mai l’indagine scientifica, che è semplicemente “l’elaborazione di un dominio di verità già aperto“: la scienza non pensa perché in essa non accade la verità originaria.
Ma occorre considerare anche l’immagine heideggeriana della scienza come “aperture di verità”. La scienza, nella sua fase straordinaria, cioè di transizione da un paradigma all’altro, si costituirebbe come apertura di un nuovo orizzonte-paradigma e quindi come accadere di autentica verità.
Affermare che nella scienza la verità autentica non accade sarebbe come dire che la scienza è solo scienza normale, cioè di approfondimento di un singolo paradigma: ma, come ha finemente mostrato Kuhn, la scienza è non solo normale, è anche straordinaria, ogni tanto apre orizzonti prima del tutto sconosciuti.
Queste considerazioni possono condurre ad una rivalutazione delle scienze della natura come luoghi di verità: ma perché è necessario rivalutarle, al di là del rispetto disciplinare?
La vocazione nichilistica dell’ermeneutica, cioè il suo carattere più autentico, viene alla superficie proprio quando essa considera gli ultimi grandi risultati delle scienze naturali e fisiche con distacco e fastidio, legati all’atteggiamento sostanzialmente antiscientista dell’ermeneutica.
La scienza, e con essa la tecnica, configurano un mondo ricondotto a una sistema generale di cause ed effetti, a una immagine della quale il soggetto scientifico dispone tendenzialmente in modo totale. La scienza quindi agisce su un mondo ridotto all’immagine che essa stessa stabilisce con una serie di leggi; ed un mondo ridotto ad immagine – come, del resto, suggerisce lo stesso saggio di Heidegger in “L’epoca dell’immagine del mondo” – è tale perché agisce la trasformazione nichilistica del senso dell’essere, secondo il principio per cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni.
Se si trascurano o sottovalutano i risultati della scienza, si potrebbe allora concludere, si dimentica la storia dell’essere come storia nichilistica.
E’ chiaro, allora, che la critica che l’ermeneutica può e deve assumere nei confronti del mondo tecnicoscientifico è diretta a far sì che esso riconosca il proprio senso nichilistico e lo assuma come filo conduttore, senza, come invece comunemente succede, volere porre limiti al trionfo della scienza e della tecnica in nome della cultura umanistica, ipotetica Lebenswelt che ci salverebbe dall’impero della ragione calcolante.
4. La natura e la scienza
Cosa può succedere quando Scienza e Filosofia si incontrano e si confrontano? [Si riportano in questo paragrafo alcuni passaggi di quanto è apparso sul numero 1/2006 della rivista MicroMega: un dialogo fra i genetisti Luca e Francesco Cavalli Sforza, da una parte, e il filosofo Gianni Vattimo, dall’altra, sul tema “Scienza o filosofia?”].
L’incontro può soprattutto mettere a nudo il solco profondo che istituzionalmente separa, quantomeno in Italia, le scienze della vita dal pensiero riflessivo. Da dove nasce l’idiosincrasia verso la scienza di una certa parte del pensiero post-moderno?
Sicuramente dal timore della portata ontologica dell’impresa scientifica, del suo impatto sullo stesso concetto di fondamento: dal timore cioè che la conoscenza riflessiva, o ciò che di essa rimane, possa essere messa in crisi dagli esiti sconvolgenti della ricerca scientifica; in definitiva, dal timore che quest’ultima con i suoi continui avanzamenti riesca passo dopo passo a rivendicare a sé la spiegazione dell’origine delle cose e degli enti.
Ripensiamo a Benedetto Croce, la sua famosa frase “scienziati vili meccanici” coniata dal filosofo napoletano addirittura contro il Premio Nobel per la Fisica Enrico Fermi, maggiore genio scientifico dell’Italia del ventesimo secolo.
La nostra tradizione filosofica è costellata di chiusure come quella di Croce. Viene in mente, per fare un solo esempio, il teocentrismo medievale. Allora, la teologia, nel timore che la ragione prevalesse sulla fede, ridusse la filosofia allo stato ancillare. Il timore di oggi è che la scienza, con le sue strabilianti conquiste, possa fare altrettanto con la filosofia: ossia scalzarla dal suo vecchio piedistallo, dal suo monopolio della verità e dal suo ascendente sulle coscienze.
Per contrastare questo processo, il pensiero post-moderno si assume il compito, che una volta era della religione, di difenderci dalla scienza stessa. Non solo, ma fa da sentinella contro ogni possibile ritorno del pensiero “forte”, reputandosi concettualmente attrezzato per neutralizzarlo e, al tempo stesso, per dire in sua vece parole definitive in fatto di ecologia, di diritto alla sopravvivenza e di criteri atti a stabilire quale dev’essere il corretto modo di pensare e di agire.
Con questi risultati, da un lato contribuisce a radicalizzare le rivalità e le reciproche incomprensioni fra gli studiosi e i ricercatori, sanzionando a livello teoretico – ossia al livello più alto – l’incomunicabilità delle esperienze e dei vissuti, dall’altro accentua l’isolamento disciplinare e la frammentazione del sapere, allargando il fossato che istituzionalmente separa le scienze della vita dalle scienze umane e sociali.
Tutto questo finisce per avere un’incidenza negativa tanto sul movimento delle idee quanto sul funzionamento della ricerca scientifica, degli istituti di ricerca e, in qualche misura, sullo stesso ordinamento del nostro sistema scolastico.
L’obiettivo di “naturalizzare” il pensiero riflessivo, perseguito da alcuni filosofi di tendenza fenomenologica, aperti alle reinterpretazioni e alle riappropriazioni, sembra essere, invece, l’unico approccio produttivo, il solo orientamento della filosofia contemporanea dotato di senso, persino capace di rifondare un’ontologia.
Porsi contro la ricerca scientifica, o per atteggiamento preconcetto o nell’impossibilità di cogliere l’oggetto naturale situandosi sul piano teoretico piuttosto che su quello fenomenologico, è invece una battaglia di retroguardia, il contrassegno di una filosofia senza interesse e senza futuro.
La natura è – da questo punto di vista – un’entità “rischiosa” e “mitologica”. Il rischio è precisamente che la natura – il come le cose stanno o starebbero da sé – diventi una sorta di norma impositiva.
Per “mitologica” si intende immaginaria: la natura sarebbe solo un’idea, priva di contenuto reale, che abbiamo ereditato e accettato acriticamente dal passato. In sé e per sé la natura, intesa come “qualcosa che cresce e si sviluppa da sé”, non esiste. Non si fa altro che riprendere la definizione classica di Aristotele, secondo il quale accade ‘per natura’ ciò che si mette in moto da sé stesso, senza l’intervento tecnico-poietico – cioè artificiale e oggi tecnologico – dell’uomo.
La natura è stata quasi interamente addomesticata dall’uomo; l’uomo tecnologico si è affrancato dalla tirannia delle sue leggi, per cui la storia culturale scorre tutta all’insegna dell’artificiale: il concetto di natura è quindi integralmente culturale, anche se non arbitrario.
Occorre osservare, tuttavia, che quest’idea della natura marginalizzata e resa inoffensiva dall’uomo contrasta in modo eclatante con l’altra immagine della natura che emerge nel pensiero recente: quella di una natura tutt’altro che addomesticata, che chiede indennizzi sprigionando la sua terribile forza nei modi più diversi.
I più pessimisti ritengono che i fenomeni ai quali stiamo assistendo – alluvioni, cicloni, uragani, riscaldamento termico, tropicalizzazione del pianeta, estinzioni di specie viventi, etc. – siano da interpretare come richieste di risarcimenti provvisori e forfettari da parte di un organismo profondamente violato nei suoi equilibri e nelle sue funzioni vitali, e che il peggio debba ancora venire.
Il rischio è quello di credere invece che, con la nostra tecnologia, si possa ricostituire artificialmente e all’infinito gli ambienti naturali compromessi o, addirittura, migliorarli – nel senso di renderli più idonei alla nostra condizione di “esseri razionali pensanti e soprattutto liberi” – rispetto a quelli naturali.
La convinzione di avere i mezzi tecnologici per “rimettere in piedi” il nostro habitat, indipendentemente dalle distruzioni osservate e osservabili, non è un illusione pericolosa soltanto in quanto tale, che induce a riscuotere quanto la natura come “fondo” viene stimolata a darci, senza preoccuparsi se il “fondo” si esaurisca, o si danneggi irrimediabilmente.
E’ una convinzione pericolosa perché induce a prendere posizioni conseguenti anche sul piano morale. Anche per quanto riguarda l’opzione tra il naturale e l’artificiale, è allora buona norma non prendere per vera nessuna norma, perché non c’è nulla che ci obblighi, naturalmente, a preferire il primo al secondo (come fanno i darwinisti), o viceversa. È la tesi della “fallacia naturalistica” di G. E. Moore.
La moralità consiste nell’osservanza di un solo precetto: quello di vigilare perché la nostra libertà sia preservata in tutti i modi. A parte questo, non si vede nessun’altra norma per l’agire. Il filosofo non ci dice da dove ci derivi questa libertà, se è un prodotto storico o il frutto dell’evoluzione biologica ovvero un dono dello Spirito Santo. Non si sa.
Né sappiamo esattamente cosa essa sia, dal momento che non è normativa, nel senso che non ci predispone a nulla (contrariamente a quello che pensava Kant). Sappiamo solo di averla e che dobbiamo difenderla a tutti i costi, in modo da garantire – a chi ne è provvisto, naturalmente – una sopravvivenza illimitata nel tempo.
Questa libertà conferirebbe allora all’Homo sapiens diritti superiori a quelli di ogni altro essere vivente, in primo luogo quello dell’immortalità. Essere liberi ed avere la coscienza di esserlo non è una dotazione naturale della specie umana, ma una prerogativa culturale; non appartiene al genere Homo, ma ai soli “esseri razionali pensanti e soprattutto liberi”.
È una precisazione di non poco conto, perché aggiunge al principio della distinzione tra le specie quello della gradazione all’interno della stessa specie. Non c’è dubbio, infatti, che si tratta di quel tipo di libertà nella quale si riconosce e si identifica solo l’uomo bianco occidentale.
Il naturalista Jules-Joseph Virey (1775-1847), campione del fissismo antropocentrico, non diceva cose molto diverse. Solo che, anziché fondare il criterio della gradazione sul concetto di libertà, lo fissava sul principio dell’appartenenza biologica in base alle caratteristiche fisiche: così, l’uomo bianco che si tiene in posizione eretta si distingue dal nero che “comincia a piegarsi verso terra”, la scimmia che si tiene in posizione obliqua si distingue dal quadrupede che “mantiene il proprio corpo in una posizione parallela al suolo, perché la sua testa è ancora più inclinata di quella della scimmia”, e via di questo passo.
Anche la conclusione è grosso modo la stessa: Virey infatti diceva: “Se, quindi, siamo scimmie per il corpo, siamo quasi dèi per lo spirito” (viii) [1]. Non stupisca questo ragionamento spinto sino all’estremo: qui si vede come, da un atteggiamento sviluppista e scientista verso la natura, ne possa facilmente derivare l’antropocentrismo e, in ultima conseguenza, il peggior razzismo, non solo culturale ma anche pseudo-scientifico.
Presa alla lettera, quest’impostazione ha le sue ricadute anche in ambito epistemologico: la rimozione della naturalità dalla storia dell’uomo – o la sua riduzione a fatto residuale e non necessario – spezza il rapporto tra natura e cultura, tra dotazione genetica ed esperienze di vita, tra ciò che siamo per natura e ciò che ci diamo attraverso l’educazione, l’istruzione, le tecniche terapeutiche, le manipolazioni genetiche e quant’altro. Sul vecchio che non esiste non c’è, evidentemente, nulla di nuovo da apportare per migliorarlo.
Considerare inoltre la natura come luogo dell’indeterminato (“non so com’è fatta”), che tende a trascolorare nel mito o a dissolversi nella molteplicità delle rappresentazioni, non è solo un modo di civettare con la vecchia metafisica, ma anche il modo più sbrigativo per svuotare di senso l’intera questione relativa al posto che l’uomo occupa nell’ordine naturale.
Espressioni come “io non so come sia fatto il mondo fuori dalla razionalità umana” sono, inoltre, giuramenti di fedeltà all’essenzialismo classico e ridanno fiato al vecchio pregiudizio metafisico, secondo cui la natura, in senso sia causale che ontologico, è fuori dalla nostra portata conoscitiva.
Oltre a questo, esse ci danno una visione del mondo che fa da anacronistico contrappunto con quell’altra immagine della natura che sta venendo fuori dai percorsi “incrociati” di una costellazione di scienze della natura che vanno, per limitarci solo a quelle biologiche, dalla biopaleontologia all’anatomia e all’embriologia comparate, alla genetica, alla biologia molecolare, alle neuroscienze.
Il velo da squarciare non è in realtà quello del mistero, ma quello della nostra ignoranza. Se è vero che la natura non ci ha ancora svelato tutti i suoi segreti, non è perché essa è divisa o inconoscibile, ma perché è ancora grande la nostra ignoranza.
La scienza, scrive Henri Atlan, “è come una serie di isolotti in un mare d’ignoranza, che tuttavia continuano a ingrandirsi” (ix) [2]. Se consideriamo che la natura non è mai stata esposta ai pericoli ai quali è esposta oggi e che la soluzione dei problemi legati all’esplosione tecnologica dipende unicamente dal modo in cui gli uomini interagiscono tra di loro, abbiamo tutti gli elementi per giudicare il kantismo morale un modello inadeguato o, addirittura, controindicato per affrontare l’emergenza attuale.
Un’etica realmente postmoderna non può che essere un’etica della prassi o consequenzialista, che valuti cioè le ricadute del nostro agire sul contesto umano e naturale in cui viviamo.
5. La scienza, la tecnica e l’ambiente (x)
Le riflessioni di Martin Heidegger sull’essenza della tecnica moderna risalgono a prima del 1953 [4]. (xi) La crisi ambientale che sta manifestandosi oggi su scala planetaria, può essere compresa nelle sue radici profonde riallacciandosi a quelle riflessioni. Infatti, le insidie latenti e le ricorrenti catastrofi provocate dalla tecnica moderna, e quelle ben più minacciose previste in futuro, stanno ponendo davanti agli occhi di tutti – per la prima volta nella storia – la prospettiva non immaginaria, non religiosa, né bellica, di una fine probabile di ogni tipo di civiltà umana come conseguenza diretta dell’espandersi della tecnica moderna.
Di quella tecnica moderna, la cui essenza è stata indicata da Heidegger in quel processo instauratosi nel nostro secolo come “impianto di richiesta” che provoca e costringe l’uomo a “disvelare” il reale come “fondo da impiegare”.
Cioè, con la tecnica moderna, secondo Heidegger, il vecchio ideale artigiano del “saper fare” si è capovolto nella coazione a “dover fare” della produzione industriale; e conseguentemente il “mondo naturale” viene conosciuto ormai soltanto come “fondo per l’impiego” e non più come semplice “fúsis”.
Queste riflessioni – nate in un clima diverso da quello della crisi ambientale – rappresentano la più radicale messa in guardia del nostro tempo nei confronti della tecnica moderna e, in particolare, nei confronti di quegli “esercizi di ammirazione” verso le tecnologie avanzate e l’innovazione tecnologica, che accompagnano oggi lo sviluppo dell’economia mondiale, ancora solo agli inizi. In questo senso, le riflessioni del filosofo tedesco anticipano e integrano il pensiero ambientalista, che in genere ancora ignora Heidegger.
Faremo riferimento alla conferenza sulla questione della tecnica, tenuta a Monaco di Baviera nel 1953, nella traduzione di Gianni Vattimo. Per Heidegger “il modo di pensare della filosofia moderna non offre più alcuna possibilità di fare esperienza – col pensiero – dei lineamenti fondamentali dell’età della tecnica che è soltanto al suo inizio”.
Al pensiero si presenta così un compito arduo:
“Al segreto della strapotenza planetaria dell’essenza della tecnica, corrisponde il non apparire del pensiero che tenta di pensare questo impensabile. Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un dominio completo della tecnica. Più inquietante è che l’uomo non sia preparato a questo radicale mutamento. Ed ancora più inquietante è che non siamo capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditativo, un adeguato confronto con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”.
La constatazione heideggeriana dell’impensabilità dell’età della tecnica moderna provoca l’insorgere della questione filosofica del nostro tempo: se non riusciamo a comprendere nulla di ciò che sta accadendo di immensamente vicino a noi e che ci coinvolge totalmente, non vuol dire forse che il rischio supremo per l’uomo di cui parlava Heidegger – cioè l’avvento del nichilismo nella forma di dominio onniperversivo della tecnica moderna – è ormai diventato un destino compiuto?
E da questa impensabilità del presente non è forse decretata anche l’impossibilità di stabilire un rapporto “significativo” del pensiero col passato e col futuro – con tutte le implicazioni che ciò comporta sul piano della conoscenza e dei valori?
Heidegger ha una sua concezione della scienza come “anticipazione conoscitiva su cui si fonda l’esperimento indagativo”, come si trova nel suo scritto “L’epoca dell’immagine del mondo (1938) [3]. (xii) Nel tema dell’oblio dell’essere si ritrova il senso della “scandalosa espressione” la scienza non pensa, che abbiamo già incontrato in precedenza. Dice Heidegger:
“La scienza non pensa e non può pensare, per sua fortuna invero, perché ne va delle garanzie del suo modo di procedere. La scienza non pensa. Questa affermazione è scandalosa. Lasciamo all’affermazione il suo carattere scandaloso anche se aggiungiamo subito che la scienza ha comunque, sempre e in una sua maniera peculiare, a che fare con il pensiero.
Ma questa sua maniera è autentica e carica di conseguenze solo quando l’abisso che sta tra il pensiero e le scienze diventa visibile e se ne riconosce l’insuperabilità. Qui non ci sono ponti, ma soltanto il salto. È per questa ragion che non fanno che recar danno tutti i ponti d’emergenza e tutti i ponti dell’asino che proprio oggi vogliono instaurare un comodo rapporto d’affari tra il pensiero e le scienze.
Dobbiamo quindi, in questo momento, nella misura in cui proveniamo dalle scienze, sopportare quanto nel pensiero è scandaloso e inconsueto, posto che siamo preparati ad imparare a pensare. Il pensiero, o più esattamente il tentativo e il compito di pensare, stanno entrando in un’epoca in cui le grandi esigenze che il pensiero tradizionale credeva di soddisfare e pretendeva di dover soddisfare diventano caduche.
Il cammino della domanda “Che cosa significa pensare?” corre già all’ombra di questa caducità. Quattro frasi bastano a caratterizzarla:
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- Il pensiero non porta al sapere come vi portano le scienze.
- Il pensiero non comporta una forma di saggezza utile alla vita.
- Il pensiero non risolve gli enigmi del mondo.
- Il pensiero non procura immediatamente forze per l’azione.
Finché continuiamo a subordinare il pensiero a queste esigenze, sopravvalutiamo il pensiero e gli
chiediamo troppo.
Il rapporto del pensiero con le scienze di cui stiamo parlando è stabilito da un tratto fondamentale dell’epoca moderna. Questo tratto si può descrivere in breve come segue: ciò che è, appare oggi prevalentemente in quella oggettività che si impone e domina grazie al procedimento oggettivante delle scienze in tutti i campi e in tutti gli ambiti. Il prevalere di tale tratto non ha origine da un’esigenza particolare propria della scienza, ma da un fatto essenziale che oggi ci si rifiuta ancora di vedere. Tre proposizioni bastano a definirlo.
- La scienza moderna si fonda sull’essenza della tecnica.
- L’essenza stessa della tecnica non è qualcosa di tecnico.
- L’essenza della tecnica non è soltanto una costruzione umana che la superiorità e la sovranità umane potrebbero assoggettare ad una costituzione morale appropriata. Il procedimento oggettivante cui la scienza sottopone ciò che è, ci resta invisibile per il fatto che ci muoviamo in esso. Per questa stessa ragione anche il rapporto del pensiero con la scienza resta oggi oltremodo confuso e nell’essenza velato, tanto più che è proprio con la sua origine essenziale che il pensiero ha minor confidenza” [4].
L’approccio al problema della tecnica moderna venne poi sviluppato da Heidegger negli anni 50 e 60, ma è comunque già presente nel testo fondamentale della conferenza del 1953: “Die Fragenachder Technik”, conosciuto in italiano come “La questione della tecnica”, nel senso di “domanda rivolta verso la tecnica”.
Infatti è Heidegger a interrogare la tecnica per coglierne l’essenza. Il percorso heideggeriano sulla questione della tecnica moderna arriva poi a compimento nel 1968, con “Ormai solo un dio può salvarci”, intervista pubblicata postuma nel 1976.
Heidegger ripeteva che “il movimento planetario della tecnica moderna è una potenza la cui grandezza, storicamente determinante, non può essere in alcun modo sopravvalutata” [5]. (xiii)
Per arrivare all’essenza della tecnica – dice Heidegger – bisogna stabilire con la tecnica un rapporto di pensiero libero, sgombro da idee precostituite. Non possiamo stabilire questo rapporto libero fintantoché ci limitiamo a praticare la tecnica, ad accettarla con rassegnazione, ad esaltarla o a disprezzarla. Ma saremmo ancor più in suo potere, se considerassimo la tecnica come qualcosa di neutrale: questo ci renderebbe ciechi di fronte all’essenza della tecnica.
Ciò premesso, Heidegger dice che, alla semplice domanda “cosa è la tecnica?”, si suole rispondere che la tecnica è una attività dell’uomo che crea un mezzo in vista di fini. Per quanto estremamente più complesse delle tecniche artigianali, si può dire, ad esempio, che il generatore di alte frequenze, l’aereo a reazione o la centrale idroelettrica sul Reno, sono mezzi in vista di fini.
Ma l’essenza della tecnica ha a che fare con il disvelamento. La tecnica, è un “modo del disvelamento”, un modo del conoscere. Per Aristotele, téchne diversamente da fúsis, disvela ciò che non si produce da sé. L’elemento decisivo di téchne non sta nel maneggiare, nel fare, o nella messa in opera di mezzi, ma nel “disvelamento”.
Il disvelamento che governa la tecnica moderna, però, per Heidegger, è una “provocazione” la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata [5]: una determinata regione viene provocata a fornire all’attività estrattiva carbone e minerali. La terra si disvela così come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali, per la fornitura di uranio, l’uranio per l’energia atomica.
Il disvelamento che governa la tecnica moderna ha, per Heidegger, un carattere particolare, quello del “richiedere” nel senso della provocazione. Questa provocazione si esplica nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto; ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni.
Mettere allo scoperto, trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare sono modi del disvelamento. Questo disvelamento, apre a sé stesso le sue proprie vie interconnesse, le dirige e si autoalimenta.
Heidegger utilizza il termine “fondo” (Bestand). Il termine dice qui qualcosa di più e di più essenziale che la semplice nozione di “scorta, provvista”. La parola “fondo” prende qui il significato di un termine-chiave. Esso, per Heidegger, caratterizza niente meno che il modo in cui è presente tutto ciò che ha rapporto col disvelamento provocante, cioè come “fondo per l’impiego” [5].
L’essenza della tecnica moderna è quel processo, apparentemente inarrestabile e che si autoalimenta, attraverso cui si è instaurato quell’impianto coattivo di richiesta che provoca e costringe l’uomo a disvelare (conoscere) il reale (cioè il mondo naturale e l’uomo stesso) come “fondo da impiegare”.
Questo modo di conoscere, per Heidegger angusto al pensiero, domina oggi su ogni altro modo più originario per l’uomo di esperire il reale. L’essenza della tecnica moderna, sottolinea Heidegger, porta l’uomo sul cammino di quel disvelamento mediante il quale il reale, in modo più o meno percettibile, diviene dovunque “fondo da impiegare”.
Werner Heisenberg ha poi fatto notare – sottolinea Heidegger – che all’uomo di oggi il reale non può presentarsi altro che in questa maniera, cioè come oggetto di scienza e come fondo per l’impiego.
“Il dominio del Gestell”, dice Heidegger nel ‘68, “significa che l’uomo è collocato, impegnato e provocato da una potenza che diviene palese quando individuiamo l’essenza della tecnica, che egli non signoreggia. Far capire questo: di più il pensiero non pretende. Non conosco nessuna strada per una immediata modifica dell’attuale stato del mondo, posto che una tale strada sia in genere umanamente possibile. Si tratta di pensare verso il futuro, a partire dai tratti non ancora pensati dell’età attuale, senza pretese profetiche”.
E, ritornando sul tema della speranza, poco più avanti aggiungeva:
“Non vedo la posizione dell’uomo nel mondo della tecnica planetaria come una sventura inestricabile e inevitabile; anzi, vedo il compito del pensiero nel dare mano, nei propri limiti, affinché l’uomo riesca a conquistare un rapporto sufficiente con l’essenza della tecnica” [5].
Nel 1972 il Club di Roma lancia l’allarme sull’assurdità dell’ideologia dello sviluppo illimitato, basato sulla estrapolazione all’infinito di una sola esperienza storica (la crescita economica de1 6% annuo) durata appena un quarto di secolo; criticando la fede, spesso vicina alla superstizione, in una tecnologia moderna capace di fornire i mezzi per produrre a basso costo l’energia e le materie prime per lo sviluppo [6]. (xiv)
Nel 1973 è la crisi energetica – il cui significato reale va ben al di là della mera preoccupazione per l’esaurimento delle riserve energetiche – a dare un primo forte scossone, a livello collettivo, alla fiducia nella continuità della civiltà della tecnica, facendo sorgere il fondato sospetto che questa civiltà, al pari di altre del passato, possa anche estinguersi [7]. (xv)
Ma è la crisi ambientale degli anni 80 con le sue insidie latenti e le sue ricorrenti catastrofi provocate direttamente o indirettamente dalla tecnica moderna, e con quelle ben più minacciose previste in un orizzonte di tempo piuttosto ravvicinato, a porre davanti agli occhi di tutti – per la prima volta nella storia – la prospettiva apocalittica, non immaginaria, non religiosa, né bellica di una probabile e imminente fine di ogni tipo di civiltà umana, come conseguenza del diffondersi della tecnica moderna.
Heidegger aveva già indicato la pericolosità insita nella “concezione strumentale e neutrale” della tecnica, sulla quale si è basato tutto lo sviluppo delle società industriali, mostrando che l’essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico, bensì un modo imperfetto di conoscere o rapportarsi al mondo naturale, cioè soltanto come “fondo da impiegare”.
Nei confronti della prassi capitalista e dell’ideologia marxista, che vedono nella tecnica qualcosa di governabile, Heidegger mostra come sia proprio l’essenza della tecnica moderna il vero soggetto del quale sia la borghesia, sia il proletariato sono soltanto i predicati sociali [8]. (xvi)
Dice Heidegger: “A fronte di queste concezioni per le quali la tecnica nella sua essenza è qualcosa che l’uomo ha nelle sue mani, sta il punto di vista secondo cui la tecnica, nell’essenza, è qualcosa che l’uomo di per sé non è in grado di dominare. Tutto funziona; e questo è appunto l’inquietante, che tutto funziona e che questo funzionare spinge sempre verso un ulteriore funzionare e la tecnica strappa sempre più l’uomo alla terra.
Non so se Lei si è spaventato – dice Heidegger al suo intervistatore nel 1968 -, in ogni caso io lo sono stato appena ho visto le fotografie della terra scattate dalla luna. Lo sradicamento dell’uomo dalla terra è già effettuato, non c’è bisogno della bomba atomica. Tutto ciò che resta non è altro che una situazione puramente tecnica” [5].
“Quanto alla filosofia”, conclude Heidegger “essa non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale solo per la filosofia, ma per tutto ciò che è mera impresa umana. Ormai solo un dio ci può salvare” [5].
L’analisi dell’essenza della tecnica moderna proposta da Heidegger, con i suoi concetti di “fondo” e di “impianto di richiesta”, fornisce un analogo contributo all’analisi del rapporto fra tecnica moderna e crisi dell’ambiente.
Secondo Heidegger, anche nel mondo greco la tecnica svolgeva una funzione di “disvelamento” (di conoscenza) della realtà; ma si trattava di conoscenza, non di dominio (o quantomeno di dominio debole, senza possesso). Nel mondo di oggi, al contrario, essa svolge una funzione di dominio forte, esclusivo (di dominio con possesso), al quale si subordina oggi altro tipo di conoscenza.
L’incipiente crisi ambientale è figlia del “dominio forte” della tecnica moderna. Usando le espressioni di Heidegger potremmo azzardare una definizione: la crisi ambientale è una risposta inattesa (un “disvelamento inatteso”) provocata dall’incalzante funzionare del ”impianto di richiesta” che assalta un mondo naturale sempre più sezionato e frammentato in una inestricabile molteplicità di “fondi da impiegare” .
6. Le radiazioni fanno pensare la scienza nucleare
La fisica nucleare è – come sappiamo – figlia della bomba atomica Nacque con la bomba atomica all’orizzonte, nell’atomica ebbe la sua realizzazione pratica, e per un decennio dopo la prima atomica si occupò esclusivamente del suo perfezionamento. E’ stata, negli anni 30 e 40, all’apice della scienza moderna, come livello di scoperta e di sofisticatezza dell’impianto teorico.
Nel contempo, è stata anche oggetto dell’esecrazione morale mondiale, da quando gli effetti delle radiazioni su uomini e donne innocenti si sono rivelati dopo il 1945, ed hanno continuato ben oltre questa data.
Il “nucleare” come uno dei principali mali del mondo moderno è divenuto una vulgata, una opinione comune, che non accenna a mutare anche a distanza di 70 anni da Hiroshima, rinforzata dai gravi incidenti cui è andata incontro anche la fase “pacifica” dell’utilizzo del Nucleare: si pensi all’evento di Chernobyl, del quale quest’anno ricorre addirittura il trentennale.
Quasi come reazione a contenuti etici così discutibili, lo scienziato nucleare – almeno ai suoi livelli più alti – nasce con una speciale caratterizzazione: la fisica nucleare è una disciplina fisica formante una figura che si allontana dal semplice homo faber per acquisire sia la dignità di vero e proprio scientist, per porre il fisico nucleare di fronte a domande e scelte etiche inusuali, facendone un concerned scientist. Tutt’altro, più per necessità che per merito, se vogliamo, di un ‘vile meccanico’.
La verifica delle potenzialità distruttive delle nuove armi atomiche e delle radiazioni sull’uomo causarono anche una apparente battuta d’arresto nella corsa entusiasta e vertiginosa verso le nuove frontiere della scienza: le radiazioni ebbero anche un effetto sulla pubblica opinione e vieppiù sulla coscienza degli scienziati. Fu davanti alla tragedia di centinaia di migliaia di innocenti periti in pochi istanti, grazie alle proprie scoperte, che la scienza si mise a pensare.
Fu anche una questione di tempi stretti, di velocità. Il cortocircuito e l’accelerazione che si ebbero nei tardi anni trenta e primi anni quaranta, infatti, permise agli stessi scienziati che avevano compiuto le scoperte fisiche di base, di assistere – e spesso collaborare – alla terribile fase applicativa bellica.
James Chadwick, inglese, ebbe il premio Nobel per la scoperta del neutrone nel 1932, Otto Hahn, tedesco, fu premio Nobel per la Chimica per la scoperta della fissione nucleare da lui conseguita nel 1938, Enrico Fermi, premio Nobel 1938, mise a punto il primo reattore nucleare sperimentale nel 1942: tutti costoro parteciparono alla corsa alla bomba atomica e ne videro, nel 1945, le terribili conseguenze.
Agli scienziati, dunque, venne chiesto conto della loro responsabilità etica circa l’uso delle proprie scoperte. Le implicazioni etiche per uno scienziato della partecipazione allo sviluppo della tecnologia nucleare hanno fatto scuola per la questione “etica e scienza“, vexata quaestio per gli scienziati nucleari prima che per tutti gli altri.
Fra gli scienziati atomici primigeni, sono molteplici gli esempi di percorsi umani e di coscienza che portarono – con diverse sfumature – a progressive “crisi di coscienza” (così si denomina quando uno scienziato inizia a “pensare”), e a prese di distanza. Einstein, Fermi, Szilard, Bethe, Rasetti, Rotblat, Oppenheimer e molti altri passarono dalla partecipazione attiva alla corsa all’atomica, al rifiuto o all’opposizione più o meno forte.
Durante la seconda guerra mondiale, Hitler alimentò le residue illusioni di vittoria favoleggiando l’avvento imminente di armi segrete che avrebbero capovolto l’esito della guerra: l’arma atomica era una di queste. In questo caso, il mito si ritorse contro i suoi creatori, perché fu utilizzato al meglio dalla controparte.
È infatti opinione comune che lo sforzo degli scienziati atomici americani e alleati, riuniti dal 1943 sotto il progetto Manhattan per produrre la bomba atomica, fosse giustificato dalla necessità di “battere sul tempo” la Germania – che pareva ad un passo dalla scoperta – e salvare così il mondo libero.
Le cose stavano diversamente: i tedeschi erano lontanissimi (xvii) dallo sviluppo dell’atomica. Così, proprio mentre la fisica nucleare tedesca rallentava la sua corsa e si fermava, bloccata dalla militarizzazione, dagli errori di valutazione e dalle difficoltà della Germania (xviii), la fisica nucleare alleata procedeva a velocissimi passi, arrivando, come è noto, al primo reattore critico nel dicembre 1942 e alla prima bomba atomica nel luglio 1945.
Fu quindi facile – per gli scienziati nucleari partecipanti al progetto Manhattan – giustificare la propria militarizzazione di fatto (xix) e la partecipazione allo sviluppo della bomba atomica: occorreva battere la Germania sul tempo, si era in guerra e non era il momento per pensare, per porsi domande ed avere crisi di coscienza.
Il clima stesso di segretezza estrema della cittadella di Los Alamos contribuì a creare una atmosfera artificiale di “grande importanza” e la sensazione, da parte di ognuno, di stare facendo la Storia, prendendo parte ad un grande progetto. Non tutti, occorre dirlo, andarono in questa direzione: non si possono dimenticare, come si vedrà in seguito, tracce di “pensiero critico” negli scienziati anche prima dello scoppio delle bombe atomiche.
Fu più difficile, ovviamente, continuare in questo autoinganno quando divenne evidente che la Germania non era assolutamente in grado di sviluppare l’atomica, e addirittura si arrese agli alleati nel maggio 1945.
Fu in quel momento che l’atmosfera di importanza del progetto ebbe un grande peso, più, probabilmente, che non la pretesa di avere un’arma che potesse concludere la guerra contro il Giappone; alcuni, come ad esempio Joseph Rotblat, si rifiutarono di proseguire ed abbandonarono il progetto.
La maggior parte degli scienziati del progetto Manhattan, tuttavia, continuò a “correre” come se dall’altra parte ci fosse ancora stato un competitore. Salvo poi, con un ripensamento senz’altro tardivo, proporre che l’atomica non venisse usata o venisse usata in zone desertiche a scopo dimostrativo (petizione Szilard ed altri, Rapporto Franck del luglio 1945) (xx).
Di lì a poco, un’altra giustificazione venne a trovarsi pronta nelle mani di chi, come Edward Teller, proseguì le ricerche verso la bomba H nonostante la tardiva opposizione di molti di coloro che parteciparono al progetto Manhattan, quali ad esempio Fermi e il direttore scientifico del progetto Manhattan, Robert Oppenheimer: la guerra fredda con l’Unione Sovietica.
Il progetto Manhattan e gli studi per la bomba atomica sono stati perciò il primo grande esperimento, come mai era avvenuto precedentemente, per osservare la reazione di un’intera comunità scientifica coinvolta in un progetto finalizzato in modo esplicito a scopi militari.
Anche in altri momenti della storia gli scienziati erano stati coinvolti, ma mai in una tale misura e soprattutto non nell’ambito di un progetto in cui fosse loro imposto di sottostare alle regole del segreto militare e di vivere in una cittadella costruita appositamente a Los Alamos.
Una situazione anche peggiore si verificherà negli anni seguenti nell’Unione Sovietica, dove furono costruite alcune città segrete, su cui soltanto di recente si sono avute testimonianze dirette. In esse vigevano delle norme di “ordine e sicurezza” che nessuno avrebbe accettato nella vita civile, e queste “città scientifiche fantasma” non sono mai appartenute alla normale dinamica del mondo accademico o della ricerca.
Esse sono venute alla luce soltanto quando i disastri ecologici da esse causati non potevano più essere nascosti (xxi), e poi con la Glasnost dopo il 1989.
Nasce allora – a partire da Los Alamos – una nuova figura nella comunità scientifica, quella dello scienziato militare. Hans Bethe, uno dei padri della fisica nucleare che, pur avendo collaborato all’impresa militare ha mantenuto sempre molto spirito critico e lucidità, ha scritto un resoconto, che risale al 1954, ma è stato declassificato solo nel 1980 (xxii), nel quale descrive il coinvolgimento degli scienziati alla costruzione della bomba H, la così detta “super”, fortissimamente voluta dal fisico Edward Teller.
Bethe mette in evidenza come questo rapporto sia diventato continuativo e non soltanto episodico in un periodo di emergenza. Il suo contributo è importante per capire questa continuità, che nel 1960 persino Eisenhower denuncia, nell’ultimo discorso rivolto al pubblico americano, quando lascia la presidenza degli Stati Uniti, mettendo in guardia dal pericolo del nascente complesso militare-industriale-scientifico, che mina le basi stesse della democrazia su cui si reggono gli Stati Uniti (xxiii).
Comunque, si parla qui della ricerca in toto, non soltanto della ricerca in ambito nucleare, che ormai deve condividere la ribalta con molti altri attori. Di recente, infatti, la figura dell’ingegnere e del fisico nucleare quale paradigma del coinvolgimento dei tecnici nell’ambito militare è assai sbiadita.
La fine della guerra fredda e la necessità/opportunità del ricorso in guerra ad armi “convenzionali” (per le quali vi è praticamente mano libera), mentre per le armi nucleari vige tuttora la “maledizione di Hiroshima”, ha messo in evidenza una nuova figura: lo scienziato “dual use”.
Si intende con “dual use” una tecnologia che si suppone abbia utilizzi sia civili che militari. Molti esempi si trovano nel campo dell’elettronica e dell’informatica: dall’elettronica “di controllo” per aeromobili, missili e droni, al “remote sensing”, il controllo dall’alto – via satellite – che viene sviluppato come aiuto all’agricoltura e alla meteorologia, ma che ha molte ed evidenti applicazioni militari e di “intelligence” (xxiv).
L’artificio dell’utilizzo civile pacifico non è una invenzione recente, e si hanno esempi anche più clamorosi proprio in ambito nucleare; per alcuni anni, prima di gettare la maschera e di puntarsi reciprocamente le armi nucleari addosso, India e Pakistan hanno sviluppato le ricerche sulle armi nucleari gabellandone l’uso come “esplosivi nucleari civili”, da utilizzare per le “grandi opere” (dighe, miniere, strade, depositi sotterranei) al posto del tritolo.
È molto facile poi sfruttare l’ignoranza generalizzata sugli aspetti che riguardano l’energia nucleare e le sue discipline più prettamente fisiche, per propagare utili notizie allarmistiche. E sono proprio le notizie allarmistiche e la conseguente paura che favoriscono “la parola alle armi”: la corretta informazione pubblica e la lotta contro il segreto, il mistero, l’ambiguità, debbono essere fra i fondamenti su cui si basa l’approccio etico del tecnico, specialmente del fisico nucleare.
Albert Einstein, sotto questo punto di vista, fu ancora una volta un precursore. E – secondo noi – sono altrettanto importanti i contributi etici che diede nell’ultimo periodo della sua vita, rispetto a quelli – immensi – da scienziato.
Nato in Germania nel 1879, si trasferì negli USA nel 1932. Premio Nobel nel 1905, le sue opere scientifiche non hanno bisogno di essere ricordate. Nel 1939, sotto pressione di Leo Szilard, scrisse a Roosevelt una lettera (xxv) in cui sollecitava lo studio dell’energia nucleare, avvertendolo che le ricerche potevano portare allo sviluppo di potenti bombe e sollecitando a battere i tedeschi sul tempo.
Grazie a quella lettera, partì il finanziamento per le ricerche nucleari in USA e, più tardi, dopo i successi di Fermi, il progetto Manhattan, cui Einstein comunque non partecipò. Per Einstein – con gli anni – quella lettera divenne un vero incubo, poiché egli venne accusato di essere responsabile dell’evento iniziatore che portò alla fine alla bomba atomica.
Appena fu chiaro che la Germania non avrebbe potuto sviluppare la bomba, Einstein divenne uno strenuo oppositore al suo uso, ad iniziare da quello contro il Giappone. Non ebbe alcun ruolo di potere nel dopoguerra, emarginato a causa delle sue tendenze “anarcoidi”.
Nel 1955 pubblicò insieme a Bertrand Russel un Manifesto (xxvi) contro lo sviluppo di armi atomiche e che chiedeva fra le altre cose agli scienziati di trovare in prima persona una soluzione, non più tecnica sulla miglior bomba da costruire, ma politica, sul miglior modo per evitare che la bomba venisse utilizzata: ciò stimolò fra le altre cose la nascita due anni dopo delle Conferenze Pugwash, il principale consesso internazionale di scienziati per la pace.
La generazione attuale di scienziati ha avuto infatti la fortuna di seguirne una che – a livello di pensiero – ci ha dotato di strumenti assai potenti sul concetto di guerra e di ricorso all’uso della violenza.
Il filosofo Bertrand Russel è l’esempio di quella generazione che ha visto gli effetti di due guerre mondiali ed ha dovuto convivere con la minaccia della guerra atomica. La dichiarazione “Einstein-Russel” del 1955 invitava appunto i governi mondiali ad evitare il ricorso alla guerra per la risoluzione dei conflitti internazionali, dato il tremendo sviluppo della potenza distruttiva degli armamenti nell’era atomica.
In fondo, lo stesso principio di ripudio della guerra è contenuto nell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana.
La scienza, finalmente, aveva iniziato a pensare. Ricordiamo poi – gemmazione delle Conferenze Pugwash – la figura oggi ancora attiva di Johan Galtung, scienziato, fondatore della Trascend Peace University (www.transcend.org), efficacissimo negoziatore norvegese e “compositore di conflitti” senza il ricorso ad alcun mezzo violento, meno che mai a guerre fra stati.
La tecnica di composizione non violenta dei conflitti non può essere riassunta in poche parole; ma in sostanza si tratta di un lavoro continuo, di sorveglianza e di attenzione verso il cosiddetto “altro”, ma non a livello di spionaggio o di polizia segreta, ma di “comprensione” nel senso più letterale: acquisire continuamente informazioni attendibili da più fonti, non interpretarle o farsele interpretare in maniera parziale o monocorde, “capire”, elaborare soluzione negoziate in diretta.
E’ l’evoluzione più meritevole e alta della diplomazia applicata alla pace e non alla guerra. Una pace vigile, non certo una pace fatta di inazione, rinunzia, o occhi coperti di fronte a quello che succede. Certamente, occorre avere, oltre la capacità e la mentalità, anche la volontà di farlo; perché una soluzione pacifica è costosa, e non è la soluzione più comoda.
La soluzione più comoda è “andare per le spicce”.
Isaac Asimov non era né un maestro del pensiero filosofico né un fine consigliere di politici, bensì un grande scrittore di fantascienza ed un divulgatore scientifico. Tuttavia, fa dire ad uno dei personaggi del suo ciclo di romanzi più noto, Hari Seldon nella “Trilogia della Fondazione”, una frase adatta a questo punto della nostra riflessione: “La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci”.
Possiamo poi trovare una frase buona del Mahatma Gandhi: “Rispondere alla brutalità con la brutalità vuol dire ammettere la propria bancarotta morale e intellettuale”. D’altra parte, proprio sulla povertà morale ed intellettuale – opportunamente coltivata con raffinate e costose tecniche – si basa molto dell’attuale gioco “alla guerra giusta” di gran voga in questi anni.
Tornando alla manifesto Einstein-Russel, un cenno va fatto al problema dei mezzi con i quali si combattono le guerre moderne, frutto dell’evoluzione spaventosa e difficile da controllare della tecnologia bellica. Siamo dei nani seduti sulle spalle di un gigante: ma sappiamo dove va il gigante e se siamo in grado di dirigere le sue azioni?
Un effetto del “progresso” tecnologico bellico dovrebbe essere – se fosse indirizzato nella direzione di beneficio per l’umanità che ci lasciano intendere – quello di ridurre le guerre ad un episodio chirurgico, asettico, mirato, limitato, proporzionato, con poche o nessuna vittime civili e il minor numero possibile anche fra i militari di ambo le parti.
La realtà è invece ben diversa: il rapporto fra vittime civili e militari è in crescita continua. I militari continuano poi a morire, sia sul campo di battaglia che in seguito, negli anni, per malattie terribili. Inoltre, c’è una crescita continua delle conseguenze ritardate delle guerre su chi le subisce: sostanze cancerogene, devastazione degli ecosistemi con mezzi nuovi e inquinanti sconosciuti, mentre la pauperizzazione e colonizzazione dei perdenti è del tutto simile al passato.
Allora, deve esserci qualcosa che va in direzione diversa da quella che supponevamo o speravamo: è un primo segnale di scollamento fra innovazione tecnologica ed effetti benefici sull’umanità, un aspetto sul quale torneremo più avanti nella trattazione.
Tuttavia, proprio per questo dovremmo aver imparato una lezione preziosa dalla guerra contro l’Iraq, l’inutile guerra del 2003 per scongiurare l’inesistente pericolo di inesistenti “armi di distruzione di massa”. I decisori politici in quell’occasione hanno adoperato senz’altro dovizie di mezzi, ma non per acquisire informazioni ed elaborare soluzioni negoziate, ma bensì per non mettere il pubblico in grado di avere un’opinione corretta sulla base di informazioni oneste e non mal interpretate, e per imporre e giustificare la loro volontà a dispetto dei fatti. E’ stato un grande sforzo, logorante e costoso, condotto con grande abilità e con impiego di fini intelligenze.
Questo punto è interessante: siamo di fronte – per la prima volta nella storia moderna – ad un fenomeno di scollamento in cui l’innovazione si separa dal progresso sociale. Non parliamo soltanto di innovazione tecnologica. Un’innovazione del sistema produce qui per la prima volta una regressione, anziché un avanzamento, sul terreno della civiltà.
L’esempio è evidente: di fronte a mezzi avanzatissimi di comunicazione, dal punto di vista tecnologico, questi vengono utilizzati per non informare, cioè per disinformare l’opinione pubblica mondiale: abbiamo saputo assai meno della guerra in Iraq nel 2003 rispetto alla guerra del Vietnam nel 1968, veniamo tecnologicamente separati dai fatti e tenuti all’oscuro in maniera molto più efficace che in passato.
Concludiamo la parte sull’approccio etico alla guerra con un cenno al disarmo, inteso come rifiuto della guerra giusta come mezzo per la composizione dei conflitti. E’ di nuovo utile citare Gandhi, che nel 1946 scrisse: “Il disarmo è impossibile se le nazioni del mondo non la smettono di sfruttarsi l’un l’altra. E se la folle cosa al riarmo continua può portare ad un solo risultato: alla più grande strage mai avventa nella storia. Se qualcuno vincerà, la vera vittoria sarà la morte vivente per la nazione che sarà vittoriosa. Non c’è nessuna via d’uscita se non la nonviolenza”.
Impressiona il momento storico nel quale egli disse ciò, ovvero in epoca lontanissima dalla globalizzazione e dallo sconvolgimento dell’ecosistema mondiale: l’attualità di queste frasi deve farci riflettere.
Quale fu l’atteggiamento degli scienziati nucleari di fronte alle questioni etiche connesse con l’uso delle loro scoperte ai fini di approntare armi di distruzione di massa e uccidere decine di migliaia di civili innocenti? Vi fu una grande varietà di atteggiamenti e risposte: ne vediamo alcuni esempi in pillole.
Hans Albrecht Bethe, tedesco, nato nel 1906, emigrò negli USA nel ’35. Direttore del Dipartimento di Fisica Teorica di Los Alamos nei primi anni ’40, partecipò ai massimi livelli al progetto Manhattan. Premio Nobel 1967 per la Fisica, per ricerche nel campo dell’astrofisica, nel 1995, all’età di 88 anni, scrisse una lettera aperta (xxvii) a tutti gli scienziati invitandoli a cessare ogni opera o lavoro di sviluppo nell’ambito delle armi atomiche.
James Conant, nato in USA nel 1893, chimico, Rettore di Harward negli anni ’30, convinto interventista contro la Germania, dal 1941 al 1946 fu presidente del National Defense Research Committee, che sovrintendeva agli aspetti scientifico-tecnici della ricerca militare, incluso il progetto Manhattan. Fece parte insieme a Fermi ed altri del Comitato che decise di lanciare l’atomica sul Giappone, rifiutando la proposta di dimostrazione dell’ordigno in luoghi deserti avanzata da colleghi del progetto Manhattan. Nel 1949 si pronunciò contro lo sviluppo della bomba H. Nei primi anni ’50 si oppose al Maccartismo e non permise – al contrario di molti altri Rettori – la persecuzione dei docenti di sinistra nella sua università.
Enrico Fermi, principale artefice dell’era nucleare, nasce a Roma nel 1901. Per le fondamentali scoperte sul rallentamento dei neutroni condotte insieme ai “Ragazzi di via Panisperna” riceve il premio Nobel nel 1938, ed emigra negli USA lo stesso anno, con la moglie di origine ebrea. Nel dicembre 1942 ottiene a Chicago la prima pila atomica. Successivamente partecipa al progetto Manhattan come consulente ed è favorevole all’uso dell’atomica contro le città giapponesi.
Lascia Los Alamos nel ’45, e nel ‘49-’50, sollecitato da Teller a collaborare alle ricerche per la bomba H, si pronuncia pubblicamente contro il suo sviluppo. Testimonia a favore di Oppenheimer, perseguito dai maccartisti nel ’53 e, già malato, manifesta negli ultimi giorni la volontà di convincere Teller a rivedere la sua deposizione contro lo stesso Oppenheimer. Fermi si rifiutò sempre di “parlare di politica”, alla quale diceva di non essere interessato, essendo la fisica il suo unico interesse.
James Franck, nato in Germania nel 1882, premio Nobel per la fisica nel ’25, emigra negli USA dopo l’avvento del nazismo. Partecipò al progetto Manhattan e nel 1945 scrisse il “Rapporto Franck” per il Dipartimento della Difesa USA, dove si proponeva la dimostrazione della bomba atomica in una località deserta anziché sulle città giapponesi, che venne ignorato.
J. Robert Oppenheimer fu direttore del Laboratorio di Los Alamos e leader scientifico del Progetto Manhattan. Calcolò la massa critica di U-235 necessaria per la messa a punto della bomba atomica: la stima correttamente assommava all’ordine di grandezza della decina di chili, invece che delle tonnellate supposte soltanto pochissimi anni prima, e fu decisiva per lo sviluppo della “bomba” atomica, in quanto essa poteva, contrariamente a quanto si pensava, venire aviotrasportata. Fu favorevole al suo uso contro le città giapponesi.
I sensi di colpa pesarono molto su di lui, ed incontrando il presidente Truman nel ’46 disse “Presidente, ho le mani sporche di sangue”. Dal ’45 al ’53 fu presidente della Commissione Statunitense per l’Energia Atomica e si oppose alla costruzione della bomba H. Nel ’53, in piena “Caccia alla Streghe” Maccartista, venne inquisito e privato di tutte le sue cariche, con accuse rivelatesi poi infondate o deliranti, quali le simpatie socialiste del fratello.
Nella realtà, Oppenheimer si era trasformato da docile esecutore scientifico dei piani bellici dell’amministrazione USA in personaggio problematico e critico, ed aveva l’autorevolezza per opporsi e creare difficoltà: andava pertanto neutralizzato, accusandolo di “comunismo”.
Oppenheimer, che aveva sempre lealmente servito lo Stato e anche l’esercito, senza mai tradire, non si riprese più dal terribile colpo subito, che visse come un’onta ed una macchia. Venne poi riabilitato dal Presidente Johnson nel 1963, ma morì prematuramente nel 1967.
Joseph Rotblat, nato in Polonia, emigrò nel 1939 in Gran Bretagna, dove lavorò con James Chadwick all’Università di Liverpool sullo sviluppo della bomba atomica, inserito nel progetto inglese MAUD, antesignano del Progetto Manhattan che in esso confluì. Si trasferì quindi a Los Alamos nel 1942, per partecipare al progetto Manhattan.
Nel novembre 1944, l’esercito alleato occupò Strasburgo, una delle sedi principali del progetto atomico tedesco: l’intelligence statunitense, con la “missione Alsos”, appurò con certezza l’estrema arretratezza del nucleare tedesco, impantanato assai lontano da ogni risultato pratico da alcuni errori concettuali di fondo, e dalla scarsezza di risorse. I tedeschi non arrivarono mai neppure a costruire un reattore critico come quello di Fermi del 1942.
Quando fu evidente l’impossibilità per i tedeschi di costruire l’atomica, Rotblat abbandonò il progetto Manhattan (unico a farlo prima del lancio dell’atomica) e rientrò in Gran Bretagna. Continuo là a lavorare e fu fra i principali firmatari del Manifesto Einstein-Russel del 1955. Nel 1957 fondò il gruppo di Scienziati “Pugwash Conference”, la più importante organizzazione per l’abolizione delle armi nucleari e il disarmo, che diresse per molti anni. Promosse varie iniziative per il disarmo, e fu insignito nel 1995 del Premio Nobel per la Pace.
Leo Szilard, nato a Budapest, lavorò in Germania fino al 1933; di “razza ebrea”, si trasferì in Gran Bretagna fino al 1936, dove brevettò la teoria della reazione nucleare a catena, pur senza ottenerla. Trasferitosi negli USA, diffuse la preoccupazione che la Germania stesse per sviluppare l’atomica e preparò la lettera diretta a Roosevelt e firmata nell’agosto del 1939 da Einstein, che fu l’inizio del progetto Manhattan.
Ottenne con Fermi la prima reazione a catena nel dicembre 1942 e partecipò, come direttore della divisione di Metallurgia, al Progetto Manhattan. A partire dal 1944, quando fu evidente che la Germania non poteva sviluppare l’atomica, iniziò ad opporsi al suo utilizzo: co-firmò il “Rapporto Franck”, arrivando fino a stendere e diffondere una petizione (xxviii), firmata da lui ed altri 68 membri della divisione di Metallurgia del Progetto Manhattan, contro l’utilizzo della bomba contro il Giappone.
La petizione è del 17 luglio 1945, il giorno dopo il successo del primo test atomico di Trinity nel Nevada. Alla fine del 1945 si oppose con successo alla militarizzazione dell’energia atomica negli USA, e nel 1946 fondò con Einstein il “Comitato di Emergenza degli Scienziati Atomici”, prima organizzazione di “scienziati pensanti” della storia.
Dal 1947 abbandonò la fisica nucleare e si dedicò alla biologia. Nel 1950 si oppose pubblicamente allo sviluppo della bomba H, e dal 1957 fu fra i più autorevoli partecipanti alle conferenze Pugwash.
Edward Teller, nato a Budapest, lavorò in Germania fino al 1935 e successivamente negli USA. Si unì al progetto Manhattan nel 1942 e successivamente fu il leader dello sviluppo della Bomba H, la cosiddetta “super”, la cui prima esplosione avvenne nel 1952. Testimoniò contro Hoppenheimer nel processo del 1953.
Sostenne apertamente la necessità di un conflitto nucleare contro gli stati comunisti e la guerra nel Vietnam: sia durante questa che durante la guerra in Corea, propose l’utilizzo di bombe atomiche di limitata potenza contro “i comunisti”. Negli anni ’80 fu determinante nel convincere Ronald Reagan a intraprendere il progetto di difesa spaziale SDI (“Guerre Stellari”).
Franco Rasetti, compagno di studi di Fermi, tra il 1934 e il 1938 collaborò con lui alle fondamentali ricerche sui neutroni. Trasferitosi poi in Canada (1939-47), dove ha diretto l’Istituto di Fisica dell’Università Laval, a Québec, e negli Stati Uniti, alla John Hopkins University di Baltimora. Nel gennaio 1943 gli fu chiesto di partecipare al progetto Manhattan. Rasetti rifiutò, motivando il rifiuto scrivendo:
“La scienza può dire ‘Se vuoi costruire una bomba da 100 megatoni devi fare così e così’ ma la scienza non può mai dirci se dobbiamo costruire una bomba da 100 megatoni. Penso quindi che gli uomini dovrebbero interrogarsi più a fondo sulle motivazioni etiche delle loro azioni. E gli scienziati, mi dispiace dirlo, non lo fanno molto spesso.”
Rasetti, quindi, fra i primi, pensava. Del tutto duro fu il giudizio, e Rasetti non esitò a esprimerlo in termini severi nel corso della sua lunga vita, nei confronti di quegli scienziati (Fermi in testa) che nell’estate 1945 condivisero la scelta dei militari, adottata alla fine da Truman, di far esplodere le due bombe che erano state costruite su Hiroshima e Nagasaki.
Si realizzava così quell’uso mostruoso della nuova arma contro la popolazione civile nel quale Rasetti, prevedendolo, aveva rifiutato di essere coinvolto. Rasetti nel primo dopoguerra abbandonò la fisica nucleare, diventando un naturalista. Visse oltre cento anni, ultimo dei “ragazzi di Via Panisperna” a scomparire nel 2002.
Emilio Segré, laureatosi a Roma nel gruppo Fermi, collaborò alle fondamentali ricerche sulla fisica del neutrone. Rifugiatosi, a causa delle leggi razziali, negli Stati Uniti, insegnò all’università di Berkeley, e partecipò al progetto Manhattan. Nel dopoguerra si allontanò dalle ricerche militari, occupandosi di fisica delle particelle elementari. Nel 1955, con O. Chamberlain, scoprì l’antiprotone tra i prodotti dell’interazione protone-nucleone ad altissima energia, e gli fu conferito il premio Nobel per la fisica.
Edoardo Amaldi, laureatosi a Roma nel gruppo Fermi, collaborò alle fondamentali ricerche sulla fisica del neutrone. Passò vari periodi all’estero, ma dal 1937 ricoprì la cattedra di Fisica Sperimentale a Roma e fu l’unico a non emigrare dall’Italia a seguito delle persecuzioni del regime fascista e degli eventi bellici. Nel dopoguerra ha svolto un ruolo determinante nella costituzione in Italia dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e in Europa del Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire (CERN).
Figura chiave nella politica della ricerca in Italia, il suo impegno per il disarmo fu costante e attivo: aderì al movimento pacifista Pugwash dall’anno della sua costituzione, nel 1957. Dal 1966 è stato presidente della Internationale school on disarmement and research on conflicts (ISODARCO).
Bruno Pontecorvo, laureatosi con Fermi, collaborò alle fondamentali ricerche sulle proprietà dei neutroni lenti. Si trasferì poco dopo a Parigi da Fredrick Joliot-Curie all’Istituto del Radio, e quindi negli Stati Uniti. Nel 1943 partecipò alla realizzazione del primo reattore nucleare canadese; nel 1948 assunse una delle direzioni tecniche dei Laboratori atomici inglesi di Harwell; nel 1950 si trasferì in URSS presso l’Istituto nucleare di Dubna (Mosca), dove si dedicò da allora a ricerche sulle particelle elementari (neutrini), nulla avendo a che vedere con lo sviluppo della bomba atomica in URSS.
Ettore Majorana, fu un fisico atomico allievo di Fermi e collaboratore di Heisenberg. Collaborò con il gruppo Fermi per quanto riguardò le questioni di Fisica Teorica. Scomparve misteriosamente mentre era in viaggio dalla Sicilia verso Napoli in traghetto. La sua scomparsa ha aperto, negli anni successivi, un “caso” Majorana, su cui si è scritto molto, ma che non è stato mai risolto (xxix).
Werner Carl Heisenberg è il più noto fisico nucleare tedesco dopo Einstein, ed a lui si deve il principio di indeterminazione, per il quale nel 1933 gli fu conferito il premio Nobel. Durante la 2ª Guerra mondiale si è occupato – in qualità di direttore – delle ricerche scientifiche tedesche a scopo militare: la strada della sua carriera scientifica si è ad un certo punto incrociata con l’esperienza del Terzo Reich, con cui il grande fisico scelse di scendere a patti e di trovare un modus vivendi.
Proprio le complesse modalità di questo compromesso sono un esempio tipico del percorso scientifico ed umano ambiguo del “ricercatore neutrale”. Occorre sforzarsi per comprendere l’atteggiamento di Heisenberg di fronte alla politica di Hitler, le ragioni della mancata emigrazione, gli attacchi che dovette subire da parte di influenti settori del regime, e infine il particolare legame che egli scelse di intessere con il governo alla vigilia del secondo conflitto mondiale e, ancor più, durante la guerra (xxx).
Il grande fisico accettò di collaborare al progetto atomico nazista non solo per patriottismo (e trascurando di vedere che la Germania per cui lottava era quella hitleriana), ma anche per difendere il prestigio della fisica teorica tedesca: quasi che il sapere potesse essere un fine in sé, da pagare persino con un patto col diavolo. Fu “uno scienziato nonostante tutto”.
Niels Bohr è stato un fisico danese. Le sue ricerche, unitamente a quelle di Rutherford e di Max Planck (l’autore della teoria quantistica) aprirono un nuovo fondamentale capitolo nella fisica e gettarono le basi per la disintegrazione dell’atomo. Nel 1922 Bohr ebbe il premio Nobel. Scoppiato il secondo conflitto mondiale e occupata la Danimarca dai nazisti, nel Settembre 1941 Bohr incontra in Danimarca Heisenberg, suo ex allievo, ora capo del progetto atomico tedesco.
Quest’ultimo, in veste di occupante e di fisico al servizio del Reich, era sicuro – nel 1941 – della vittoria tedesca. Heisenberg discute con Bohr delle applicazioni dell’energia atomica, civili e militari, e nel colloquio realizza – su un tovagliolo di carta – un disegno che Bohr interpreta come lo schema di una bomba, mentre successivamente Heisenberg affernò essere lo schema di un reattore.
Bohr esce dalla discussione convinto che la Germania stia lavorando alle armi nucleari, abbandona la Danimarca nel ’43 e si rifugia negli USA. A New York prende contatto con Einstein e gli altri esponenti della fisica atomica e si unisce come consulente al gruppo di Los Alamos. In seguito, tornato in Danimarca, cercò di promuovere l’uso pacifico dell’energia nucleare e ricevette nel 1957 il primo premio “Atomi per la Pace”.
Karl-Fredrich von Weizsacker, fisico atomico tedesco, fu il principale collaboratore di Heisenberg. Nel 1939 pubblica importanti lavori scientifici sulle proprietà degli elementi transuranici, fra i quali è il plutonio. Durante la guerra si occupa con Heisenberg dello sviluppo dell’atomica tedesca. Detenuto dagli alleati alla fine della guerra, mette a punto la Lesart (lett. “Versione”) secondo la quale i fisici tedeschi, invece che non riuscire a sviluppare l’atomica, “non vollero” svilupparla per un superiore caso di coscienza.
La Lesart, adottata anche da Heisenberg, vene duramente contestata da Niels Bohr in un carteggio pubblico con Heisenberg, e venne infine smentita quando vennero pubblicate le registrazioni dei dialoghi degli scienziati tedeschi durante la detenzione, nel 1945-46, nella residenza inglese di Farm Hall (xxxi): gli scienziati tedeschi, semplicemente, non ebbero le intuizioni che ebbero quelli alleati per sviluppare l’atomica, e non ebbero neppure gli enormi mezzi materiali che agli alleati furono necessari per il suo sviluppo.
Andrej Dmitrievič Sakharov fu un fisico nucleare, dissidente e attivista per i diritti umani russo-sovietico, famoso nel mondo dapprima, per il contributo decisivo alla messa a punto della bomba all’idrogeno e successivamente per la sua attività in favore dei diritti civili che gli valse il premio Nobel per la pace nel 1975.
A seguito del cenno fatto a Stalin da Truman alla conferenza di Potsdam nel luglio 1945 (“Abbiamo una nuova potentissima bomba, la bomba atomica”, disse Truman. “Bene, fatene buon uso contro il Giappone”, rispose Stalin), e dopo l’esplosione dei due ordigni, l’Unione Sovietica si precipitò a capofitto nella corsa all’atomica: l’equivalente del Progetto Manhattan fu capeggiato, per l’URSS, dal terribile Lavrentij Beria.
Il 25 dicembre 1946 divenne critico il primo reattore nucleare al mondo sul suolo eurasiatico, in quello che poi, prendendo il nome dal responsabile scientifico del progetto, Igor Kurchatov, venne chiamato “Kurchatov Institute” a Mosca. In meno di tre anni ulteriori, l’URSS fece esplodere il suo primo ordigno atomico nel 1949, segnando l’inizio della corsa agli armamenti.
Da quel momento, grande parte del merito della riuscita della bomba H sovietica – esplosa nel 1953, un solo anno dopo quella statunitense – si deve poi attribuire al giovane e brillantissimo fisico russo Andrej Sakharov. Ebbe a dichiarare in anni recenti il grande fisico nucleare russo Roald Sagdeev:
“Credo che sia molto difficile per uno straniero capire che tipo di atmosfera si respirasse in Unione Sovietica. Il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, per noi, fu una sveglia. Anche Sakharov, nonostante l’evoluzione umana e politica che lo portò negli anni dalla collaborazione con il regime alla dissidenza, rimase convinto che lavorare alla bomba H per Stalin, allora – cioè nei tardi anni quaranta e primi anni cinquanta – fosse stata la scelta giusta, perché essenziale per stabilire un equilibrio strategico Est-Ovest, fondamentale per la sicurezza nazionale” [Stefania Maurizi, “Una bomba, dieci storie. Gli scienziati e l’atomica”, Bruno Mondadori editore, Milano, 2004].
L’esplosione della bomba atomica segnò dunque uno spartiacque decisivo nei rapporti fra etica e scienza, e mise in primo piano il problema se gli scienziati dovessero essere dotati di una coscienza, di un’etica, e di quando e quanto esse potessero essere esercitate nel porre un limite alle loro ricerche.
Fu proprio nel 1945 che la comunità degli scienziati iniziò a dividersi. Se alcuni scelsero nettamente una delle due parti (potremmo chiamarle “zona bianca” e “zona nera”, con metafore evidenti), molti furono coloro – come abbiamo posto in evidenza in alcuni esempi – che in maniera controversa seguirono un loro percorso etico all’interno della “zona grigia”.
L’esempio più emblematico fu forse Oppenheimer – il creatore dell’atomica come direttore scientifico del progetto Manhattan – che, di fronte alla terribile vampata di Alamogordo, pare abbia mestamente recitato un verso di un antico testo indiano: “Io sono diventato la morte, il distruttore dei mondi”.
Questo fu l’inizio di un percorso di ripensamento molto doloroso: in seguito Oppenheimer si oppose alla produzione dell’ancora più potente bomba all’idrogeno, sostenuta a spada tratta, invece, dal bellicoso Teller, che all’inizio degli anni Sessanta sarebbe stato preso come bersaglio satirico da Stanley Kubrick nel suo film “Il dottor Stranamore”.
Teller è l’esempio più emblematico dello scienziato “senza dubbi”, che scelse sempre senza ambiguità la “zona nera”. L’opera di Kubrick, insieme a molte altre, contribuì a fortificare nell’opinione comune la figura del tecnologo nucleare come “amante della bomba” e scienziato militare per antonomasia.
Con estrema lucidità, molti scienziati atomici, invece, come abbiamo visto, iniziarono a pensare, come suggeriva Heidegger. Essi presero coscienza dell’inizio di un’epoca nuova, che sarebbe stata caratterizzata da una sfrenata corsa agli armamenti nucleari, e della necessità quindi di fronteggiare questo problema.
Il fisico nucleare è forse riuscito con gli anni a ribaltare il luogo comune: è anzi divenuto, grazie al percorso etico e umano di questi scienziati primigeni, un esempio di come figure come questa possano essere considerate l’accezione più elevata di concerned scientist, scienziati pensanti, pienamente immersi nella società, invece che semplici gnomi inventivi, completamente avulsi dalla società e dai suoi problemi.
*****
Appendice
Scienziati, il nostro onore è scoprire. Dalla bomba atomica ai dilemmi della genetica: una categoria nel mirino dell’opinione pubblica (Da un discorso di Pierre Gillee de Genne, Premio Nobel per la fisica 1991 e professore al Collège de France)
Dopo il 6 agosto 1945, l’onore degli scienziati si trova sotto tiro. Ogni fisico è considerato corresponsabile dei morti di Hiroshima. Eppure, Fermi e Wigner non avevano mancato all’onore spiegando al presidente Roosevelt il potere delle armi nucleari. Quella di fabbricarle fu una decisione presa dal popolo americano tramite il suo presidente eletto.
I nazisti avevano anch’essi voluto la bomba, ma non ci riuscirono. Werner Heisenberg, responsabile del progetto tedesco e illustre teorico della fisica quantistica, ha sostenuto nel 1945 di aver sabotato il proprio lavoro. Di fatto, l’insuccesso di Heisenberg non aveva niente a che fare con il senso dell’onore. Esso derivava da due errori tecnici: prima di tutto, l’uso di moderatori non sufficientemente puri per la prima pila. Poi, una stima non corretta della “massa critica” necessaria per provocare l’esplosione.
Anche se inattive, per il momento, le armi nucleari sono all’origine di un’enorme diffidenza nei confronti della ricerca. E a questo bisogna far fronte.
Dov’è, di fatto, l’onore degli scienziati? Alcuni filosofi descrivono i ricercatori come uomini intenti a stabilire una verità. Molti di noi non si riconoscono in questo modello. Gli odierni ricercatori non pretendono mai di determinare una verità definitiva. Produciamo soltanto, maldestramente e con molte esitazioni, una descrizione approssimata della natura.
Fondatore dell’elettrodinamica quantistica, Richard Feynman (che non ho conosciuto, ma che considero il mio maestro) ha riassunto tutto ciò in una formula divenuta famosa: “Theory is the best guess“. La teoria che oggi accettiamo è quella che rende conto del massimo numero di fatti con il minimo numero d’ipotesi.
Il vero punto d’onore non consiste nell’essere nel vero, ma di osare, proporre idee nuove, e poi verificarle. Si tratta anche, certamente, di saper riconoscere pubblicamente i propri errori, saper segnalare certe trappole. In questo, l’onore dello scienziato si colloca all’estremo opposto dell’onore di don Diego. Quando si commette un errore, bisogna accettare di perdere la faccia. Ho visto grandi sapienti farlo con eleganza.
Ma c’è un altro aspetto della scienza che è stato dimenticato nei nostri discorsi sulla verità. Quello degli inventori. Si tratta di membri a pieno titolo della nostra tribù. Il loro onore consiste nel far fruttificare la scienza con la creazione di oggetti nuovi ed utili.
Ho detto in passato che se una delegazione di extraterrestri venisse a ispezionare il nostro pianeta, costaterebbe con soddisfazione (per la fisica del XX secolo) che abbiamo fabbricato transistor e laser. Ma noterebbe anche come due uomini, lavorando accanitamente per vent’anni, hanno prodotto la chiusura lampo.
Le grandi scoperte tecniche richiedono altrettanta immaginazione delle scoperte fondamentali. E mancherei all’onore se non dicessi qui, pubblicamente, quanto sia spiacente della recente separazione della nostra Accademia delle scienze dall’Accademia di tecnologia. Che ne direbbe Coulomb, costruttore di fortificazioni prima di interessarsi all’elettrostatica, oppure Langevin, pioniere della meccanica statistica, ma anche inventore del sonar?
Dunque: il nostro onore consiste nel costruire una descrizione approssimata, ma semplice, della natura. Ma anche nel non restare passivi; utilizzare questo senso della costruzione per creare oggetti nuovi, che si adattino ai bisogni della nostra società.
La prospettiva che ho appena abbozzato non è quella del pubblico: ai nostri giorni, i ricercatori sono considerati responsabili in un senso molto ampio; responsabili delle armi, dell’inquinamento o dei dilemmi biologici del futuro. Tuttavia, nei fatti, gli scienziati hanno scarso peso al momento delle grandi decisioni attinenti, per esempio, alla difesa, all’energia o agli investimenti industriali. E neppure hanno completa libertà d’espressione.
Esempio: un illuminato annuncia una dopo l’altra due scoperte straordinarie che si rivelano ben presto prive di fondamento. Ma è sostenuto da un drappello d’intellettuali. Qualche anno più tardi, quando nulla più resta delle sue proposizioni, quello che è reputato il più serio giornale francese dedica più pagine alla sua difesa di quante non abbia consacrate ad una vera scoperta scientifica.
Dobbiamo esaminare con lucidità l’origine di questa mentalità. Di certo, creare panico è spesso un’operazione redditizia. Il gruppo di pressione più organizzato in questo senso è nato negli Stati Uniti. Porta l’audace nome di “Politicamente corretto“.
“Science is the rape of nature“: la scienza è una violazione della natura. Ecco quello che viene proclamato. Ecco quanto viene ripetuto nelle sezioni di lettere ai futuri insegnanti americani. Ecco come viene distrutto il nostro onore. Non meravigliamoci, in simili condizioni, di vedere i liceali disertare le lezioni di scienze. Eppure, se riusciremo a preservare l’ambiente e la qualità della vita, lo potremo fare solo grazie a uno sforzo scientifico raddoppiato.
Penso per esempio al vetro. Il pubblico occidentale considera il vetro come una meraviglia ecologica.
Ma il vetro viene fabbricato in forni giganteschi, bruciando kerosene nell’aria. Ciò produce vapori nitrosi, fumi rossi altamente tossici. Ebbene, adesso è possibile eliminare l’azoto dall’aria a costi ragionevoli, utilizzando un sistema affidabile e ingegnoso. Grazie a questo, tra pochi anni il vetro sarà veramente un prodotto pulito. E i ricercatori artefici di questa rivoluzione avranno diritto alla nostra riconoscenza.
La nostra Accademia delle scienze si allarma dunque a giusta ragione per la cattiva immagine che si ha delle scienze. Coloro che in tempi passati venivano chiamati col bel nome di “sapienti” devono far conoscere il loro modo di pensare, parlare ai giovani insegnanti. E’ un lavoro di largo respiro: occorre coniugare onore e pazienza.
Abbiamo messo a segno dei punti nella scuola di primo grado grazie all’azione lanciata da Georges Charpak e battezzata “Le mani in pasta”. Ma dobbiamo batterci a tutti i livelli perché i formatori dei maestri abbiano essi stessi una visione realistica del mondo moderno, dei suoi bisogni e delle soluzioni di buon senso da cercare.
L’onore di un professore di scienze non è solamente quello di far conoscere delle leggi. Deve anche mostrare a cosa queste servono.
Per concludere questa arringa voglio citare Primo Levi, chimico sfuggito ai campi di sterminio e scrittore. Egli ha scritto, a giustificazione dei suoi romanzi: “Ero alla ricerca di avvenimenti, capitati a me e agli altri, che volevo trasporre in un libro per vedere se sarei riuscito a comunicare ai profani il sapore, forte e amaro, del nostro mestiere, che non è mai solo un caso particolare, una variante più ardita del mestiere di vivere.
Non mi sembrava giusto che la gente sapesse tutto del modo in cui vivono il medico, la prostituta, il marinaio, l’assassino, la contessa, l’antico Romano, il cospiratore e il Polinesiano, ma niente del nostro, di noi che trasformiamo la materia (…). In questo libro, trascuravo deliberatamente la grande chimica, la chimica trionfante degli stabilimenti colossali e delle cifre d’affari vertiginose.
Ciò che m’interessava di più erano le storie della chimica solitaria, disarmata e a piedi, a misura d’uomo, quella che, tranne poche eccezioni, era stata la mia, ma anche quella dei fondatori che non lavoravano in équipe, ma da soli, in mezzo all’indifferenza del loro tempo, spesso senza ricompensa, che affrontavano la materia privi di aiuto, col loro cervello e le loro mani, con la ragione e l’immaginazione“.
Se riusciremo a trasmettere ai giovani lo spirito di Primo Levi, non avremo mancato al nostro onore.
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xxv Si veda il sito web della “Nuclear Age Peace Foundation”, ed in particolare la sezione “Nuclear Files Library”, aperto il 22.1.2016: http://www.nuclearfiles.org/menu/library/correspondence/einstein-albert/corr_einstein_1945-03-25.htm
xxvi Si veda ad esempio il sito web del Movimento Pugwash, aperto il 22.1.2016: http://www.pugwash.org/about/manifesto.htm
xxvii Si veda il sito web della “Nuclear Age Peace Foundation”, aperto il 22.1.2016: http://www.wagingpeace.org/articles/0000/1995_bethe-appeal-scientists.htm
xxviii Si veda ad esempio il sito web dell’Atomic Archive, aperto il 22.1.2016: http://www.atomicarchive.com/Docs/ManhattanProject/SzilardPetition.shtml
xxix L. SCIASCIA, La scomparsa di Majorana, Milano, Adelphi, 1975.
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