E dunque, alla fine il “Leave” ha prevalso. Un successo largamente preventivato dai sondaggi elaborati dai maggiori istituti demoscopici ad inizio Giugno, salvo registrare una piccolo inversione di tendenza (poi smentita dai fatti) nei giorni immediatamente successivi all’assassinio della parlamentare laburista pro-Remain Jo Cox.
L’esito finale del voto (51.8% a favore del Leave) miete una prima, grande vittima: il primo ministro Cameron, promotore del referendum (scaturito da una promessa elettorale nella campagna delle Politiche del 2015, al fine di arginare il potenziale attrattivo dell’UKIP di Nigel Farage), e capo del fronte schierato a favore della permanenza. Il premier britannico si è infatti dimesso appena preso atto della dura sconfitta, annunciando che passerà la mano (anche come leader del Partito Conservatore) ad Ottobre 2016; simile sorte dovrebbe toccare al Ministro delle Finanze, George Osborne, un fiero nemico delle classi lavoratrici britanniche, protagonista, nei suoi mandati, dell’implementazione di rigide ed anti-popolari misure di austerità. L’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, a capo della campagna per la fuoriuscita dalla UE, spera ora di poter utilizzare la vittoria referendaria anche per guadagnare la posizione di primo ministro (e di leader del partito), a scapito di Cameron. Dovrà però passare per le Forche Caudine di una elezione interna, che coinvolgerà gli iscritti ai Tories (circa 150,000), alla quale pare parteciperà, come sicuro candidato, anche l’altro esponente di spicco della destra conservatrice pro-Brexit, Michael Gove. Dunque, il Partito Conservatore, nonostante le dichiarazioni di unità, ha avviato quella che si annuncia come una faticosa guerra interna per la propria leadership.
Indagando sulla natura della vittoria del “Leave”, molti commentatori italiani enfatizzano i toni xenofobi ed anti-immigrazione di formazioni quali UKIP (capitanata da Nigel Farage) e della stessa destra conservatrice, presentate (non a torto) quali vincitrici del referendum. Sicuramente questi accenti sono stati largamente presenti nella campagna; è bene però ricordare che contenuti simili, uniti alla prospettiva di controlli più rigidi sulla libertà di movimento dei cittadini Europei verso il Regno Unito, hanno trovato comodo albergo anche presso esponenti di spicco del fronte per la permanenza. Lo stesso David Cameron aveva infatti negoziato un vergognoso accordo con l’Unione Europea volto a garantire alla Gran Bretagna la possibilità di negare ai cittadini europei ivi residenti la facoltà di accedere a molte delle prestazioni dello stato sociale per ben 7 anni; la ministra dell’interno, Theresa May, pur avendo una posizione pro-UE aveva più volte, durante la campagna elettorale, fatto appello a condizioni d’accesso ancor più rigide per i migranti [1].
Quello che molti commentatori sembrano volutamente omettere è la vera natura di classe dello scontro consumatosi nelle ultime settimane. Non a caso, la City di Londra (un vero e proprio paradiso fiscale) ha capitanato la battaglia per il “Remain”, accompagnata da un grosso caravanserraglio di multinazionali operanti nel Regno Unito e dall’equivalente della Confindustria britannica. L’accesso al mercato europeo, e la possibilità di far fluire liberamente capitali e manodopera rappresentavano, secondo una interpretazione integrale della dottrina neo-liberista, condizioni necessarie troppo importanti per la propria capacità di realizzare profitti.
In uno scenario simile, garantitosi senza troppo sforzo l’appoggio delle elites legate al mondo finanziario e della classe media cosmopolita, è stato necessario, per Cameron, ricercare alleanze insolite, al fine di portare a casa la pagnotta e salvare la pelle. Di qui, la necessità di uno sfondamento a sinistra delle ragioni del Remain; da tempo, molte delle analisi proposte dagli istituti demoscopici ravvisavano infatti nell’elettorato laburista delle ex roccaforti manifatturiere del Nord dell’Inghilterra il vero ago della bilancia che avrebbe potuto decidere l’esito della consultazione. Un’area geografica dal solido profilo working class, che ha sofferto, più di ogni altra, i processi di de-industrializzazione e smantellamento degli apparati produttivi, avvenuti a seguito dell’applicazione delle ricette neoliberiste ed alla globalizzazione dell’economia, e perciò particolarmente ostile all’Unione Europea. Era questo, dunque, il bacino di voti che il “Remain” avrebbe dovuto conquistare. Di qui, il tacito accordo con le principali Unions britanniche, ottenuto moderando lievemente alcuni dei progetti di riforma della legislazione in materia di diritto sindacale. Nonostante una perdita di influenza (ad oggi, solo 6 milioni di britannici risultano iscritti ad un sindacato; nel settore privato il tasso di sindacalizzazione è pari ad un modesto 6%), frutto di una legislazione in materia tra le più restrittive al mondo, i sindacati britannici conservano ancora un ruolo di cinghia di trasmissione del Partito Laburista (essendo molti di essi direttamente affiliati al Labour), costituendone, tramite i rispettivi fondi politici, i maggiori finanziatori. Stretto, dunque, tra le Unions e la destra blairista, a Jeremy Corbyn (leader del Labour, con un passato da euroscettico moderato) non è rimasto che aderire alla campagna per la permanenza, con posizioni completamente appiattite su quelle del primo ministro e della sua compagine.
Il tentativo di intruppare nel fronte del “Remain” il voto working class non ha però funzionato. Ed è questa la vera ragione della sconfitta di Cameron e dei suoi alleati. Analizzando, infatti, la geografia del voto al “Leave”, è possibile ottenere una precisa idea di quanto accaduto da un punto di vista di classe. Oltre alla netta e prevedibile affermazione europeista in Scozia (da leggere anche in chiave indipendentista), sono i centri urbani a fornire elementi di riflessione. Se a Londra, come prevedibile, il “Remain” trionfa, in altre grandi conurbazioni il discorso si fa più complesso. A Manchester e Liverpool, ad esempio, il “Remain” prevale nelle zone centrali della città, segnando invece il passo nelle zone periferiche. La Figura 1 (elaborate dal quotidiano Guardian [2]) mostra, infatti, un paragone tra le percentuali di voto al Partito Laburista a Liverpool nelle ultime politiche (2015) e quello al referendum; è possibile notare come il centro città registri una forte prevalenza del voto pro-EU, mentre la periferia (anche quando di fedele osservanza laburista), in cui più forte è l’influenza di problematiche socio-economiche, si esprime in favore del Leave.
Figura 1: Una comparazione tra il voto Laburista alle Politiche 2015 e quello per il Referendum sull’Unione Europea a Liverpool (Fonte: The Guardian [2])
Per il “Remain” le cose iniziano a scricchiolare in centri come Birmingham, Leeds e Sheffield. Ad un sostanziale equilibrio tra i due fronti (successo del “Leave” a Birmingham e Sheffield, rispettivamente col 50.42% e col 50.99%), fa da contraltare il prevalere del “Remain” a Leeds, con un risicatissimo 50.31%. Tuttavia, disaggregando il dato a livello di quartiere, è possibile registrare una fortissima incidenza delle classi sociali sull’esito del voto: successo del “Remain” nei centri cittadini e nei sobborghi della middle class; poderosa avanzata del “Leave” nei quartieri della working class.
La tendenza si accentua e diventa valanga per il “Leave” nei vecchi cuori manifatturieri della Gran Bretagna, nelle Midlands, nello Yorkshire e nel Nord-Est. Città di dimensioni medio-piccole quali Mansfield (70.86%), Doncaster (68.98%), Sunderland (61.34%), Middlesbrough (65.48%), Scunthorpe (66.30%), oggi vittima delle deindustrializzazioni forzate operate dal neo-liberismo, fanno registrare percentuali record per il “Leave”. Si tratta di città in cui la presenza di migranti risulta comunque assai inferiore alla media nazionale, e che fanno i conti con grandi livelli di povertà ed alti tassi di disoccupazione. Aree corrispondenti, dunque, a tradizionali roccaforti laburiste, nelle quali, proprio stavolta, l’elettorato working class ha deciso di non seguire le indicazioni del proprio partito di riferimento (in verità, assai deboli, sbiadite e confondibili con quelle dei Conservatori); proprio per l’incapacità del Labour (ma anche delle altre forze politiche) di articolare una chiara chiamata alle armi pro-UE per la working class: il classico “what’s in it for you”. Un terreno, questo, parecchio scivoloso, visto che la working class britannica si ritiene sostanzialmente “parte lesa” rispetto all’integrazione europea. Un sentimento anti-EU attribuibile in parte all’immigrazione (ritenuta responsabile di problemi cui la working class è parecchio sensibile, quale la moderazione salariale); in parte, problematiche legate al mercato del lavoro ed alle politiche sociali (la spinta dell’UE alla privatizzazione di servizi pubblici essenziali ed industrie strategiche in primis); in parte, allo storico senso di “indipendenza” del popolo britannico.
Il risultato, è la possibilità di effettuare una chiarissima lettura di classe del voto espresso, su scala nazionale, per il referendum.
I grafici riportati nelle seguenti Figure 2, 3, 4, 5, 6 e 7 (elaborate dal quotidiano Guardian [2]) riportano il voto nella consultazione (rappresentato su una scala da sinistra a destra, dove l’estrema sinistra corrisponde una forte prevalenza del “Remain” e l’estrema destra una vittoria del “Leave”) in correlazione con diversi indicatori socio-economici calcolati a livello di circoscrizione elettorale.
La Figura 2 rappresenta una correlazione del voto al referendum nelle single circoscrizioni con la percentuale di individui in possesso di una Laurea (o titolo equivalente) calcolata, anch’essa, su base circoscrizionale. E’ possibile notare una fortissima dipendenza, quasi approssimabile, senza perdita di generalità, da una linea retta: maggiore la percentuale del “Remain”, maggiore la percentuale di Laureati residenti nel colleggio elettorale
Figura 2: Il voto al Referendum in relazione al Titolo di Studio (espresso come percentuale di individui in possesso di una Laurea in ciascuna circoscrizione elettorale). (Fonte: The Guardian [2])
In maniera del tutto speculare, la Figura 3 rappresenta la relazione tra il voto al referendum nelle singole circoscrizioni con la percentuale di individui privi di qualifiche specifiche (in possesso, dunque, dei soli titoli di scuola dell’obbligo) calcolata, anch’essa, su base circoscrizionale. Anche in questo caso, la correlazione appare fortissima: maggiore la percentuale del “Leave”, maggiore la percentuale di individui privi di qualifiche specifiche residenti nello specifico colleggio elettorale
Figura 3: Il voto al Referendum in relazione al Titolo di Studio (espresso come percentuale di individui in possesso esclusivamente dei titoli della scuola dell’obbligo). (Fonte: The Guardian [2])
Andamenti simili possono essere riscontrati correlando l’esito del referendum con misure più strettamente rappresentative dei profili economici delle circoscrizioni. Figura 4 (a sinistra) mostra l’incidenza della mediana dei redditi degli elettori della circoscrizione sull’esito del referendum, evidenziando come, al crescere del reddito, sia possibile ravvisare uno spostamento dei consensi verso il “Remain”. In maniera analoga, Figura 5 (a destra) mostra come una simile correlazione esista tra la percentuale totale di elettori della singola circoscrizione appartenente ai gruppi sociali A (Manager pubblici e private; Professionisti; Imprenditori), B (Quadri intermedi nel pubblico e nel privato) e C1 (Impiegati ed impiegati con funzione direttiva) ed il voto al “Remain”: maggiore lo sbilanciamento verso l’alto del profile demografico della circoscrizione, maggiore, in generale, la propensione a scegliere la permanenza nell’UE. Al contrario, marcatissima appare la preferenza per il “Leave” nei distretti elettorali nei quali la maggioranza della popolazione appartiene alle classi sociali subalterne, identificate dai gruppi C2 (operai specializzati), D (operai non specializzati) ed E (pensionati, disoccupati, lavoratori precari).
Figure 4 e 5: Il voto al Referendum in relazione al Reddito Mediano di ciascuna circoscrizione (sinistra) ed alla percentuale di individui apparenente alle classi sociali A, B e C1 (Fonte: The Guardian [2])
La Figura 6 mostra come la relazione (meno marcata delle precedenti; è possibile capirlo dal fatto che i punti sono maggiormente disposti “a nuvola”) tra l’età mediana dei lavoratori di ogni circoscrizione e l’esito del voto, con il “Remain” leggermente sfavorito nelle circoscrizioni caratterizzate da una popolazione più anziana.
Figura 6: Il voto al Referendum in relazione alla Età Mediana di ciascuna circoscrizione (Fonte: The Guardian [2])
Infine, la Figura 7 mostra come il “Remain” fornisca prestazioni migliori rispetto al “Leave” nelle aree a forte densità di popolazione non nativa del Regno Unito.
Figura 7: Il voto al Referendum in relazione alla percentuale di residenti non-nativi per circoscrizione
(Fonte: The Guardian [2])
Come ha scritto, con grande onestà intellettuale, l’opinionista britannico di orientamento laburista di sinistra Owen Jones (schierato per il “Remain”, dopo una iniziale puntata nel campo euroscettico), il voto della working class britannica è stato decisivo per la vittoria del “Leave” nel referendum. “Il più drammatico evento nella storia recente del Regno Unito assume i contorni, tra le altre cose, di una rivolta della working class. Certo, non la rivolta che molti di noi avrebbero sognato. Ma è innegabile che questo risultato sia stato raggiunto con il contributo decisivo dei votanti di una classe lavoratrice furiosa ed alienata. La Gran Bretagna è una nazione profondamente divisa. Molte delle comunità che hanno votato in maniera più decisa per la fuoriuscita sono le stesse comunità che hanno sofferto le più intense mortificazioni ad opera di molti governi succedutisi negli ultimi decenni. La propaganda governativa è stata tutta incentrata sulla paura e sulle minacce di una nuova recessione. Ma queste comunità hanno vissuto, per intere generazioni, condizioni di crisi ed insicurezza economica. A poco servono le minacce, se si sente che non si ha nulla da perdere. Al contrario, queste minacce potrebbero aver reso le convinzioni di molte persone ancora più profonde. Ad un primo ministro conservatore, spalleggiato dalle grandi multinazionali, e dal presidente degli USA, le classi popolari hanno risposto con il più grande ‘fanculo’ della storia moderna britannica”.
In questo contesto, al di là di come la si possa pensare sulla Brexit, ha provocato grande tristezza vedere la stragrande maggioranza dei dirigenti sindacali britannici (fatta salva qualche eccezione) e molti dei rappresentanti della sinistra Laburista rinnegare la propria storia (gloriosa), ed un secolo di conquiste, nel condurre una campagna referendaria completamente appiattita sulle posizioni conservatrici, con l’aggravante di presentare l’Unione Europea, una istituzione completamente screditata agli occhi delle classi popolari, come un baluardo dei diritti dei lavoratori.
Una campagna referendaria che ha messo in luce, una volta di più, i danni prodotti dall’ultimo quarantennio di sbornia neoliberista, anche per quel che concerne la possibilità di conservare un punto di vista autonomo della classe lavoratrice. In tal senso, va sottolineato il coraggioso tentativo della piattaforma “Lexit”, che ha condotto una difficile e coraggiosa campagna [4] per affermare le ragioni dell’uscita dall’Unione Europea da una prospettiva socialista e di classe.
Se la sinistra vuole avere un futuro – in Gran Bretagna e altrove – deve ritrovare una connessione sentimentale con la propria classe di riferimento. Per fronteggiare le grandi battaglie che attendono i ceti subalterni. Pena la definitiva scomparsa dalla storia.
Andrea Genovese
Risorse Online
[1] Theresa May, ministro dell’interno e sostenitrice del “Remain” sulla necessita’ di limitare l’immigrazione europea: http://www.express.co.uk/news/uk/680354/Theresa-May-David-Cameron-EU-Referendum-Brexit-Vote-Leave-immigration
[2] Elaborazione dei risultati del Referendum ad opera del quotidiano The Guardian: http://www.theguardian.com/politics/ng-interactive/2016/jun/23/eu-referendum-live-results-and-analysis
[3] Owen Jones, opinionista britannico, sul voto della “working class” britannica nel referendum: https://www.theguardian.com/commentisfree/2016/jun/24/eu-referendum-working-class-revolt-grieve
[4] Hanno partecipato alla campagna, tra i vari soggetti: il Partito Comunista Britannico, il sindacato dei trasporti RMT, il gruppo intersindacale “Trade Unionists Against the EU”, l’Associazione Britannica dei Lavoratori Indiani, il Consiglio Britannico dei Lavoratori, la piattaforma “Scottish Left Leave”, il gruppo “Counterfire” e l’organizzazione “Socialist Workers Party”.
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Nirvana
Come residente da oltre 20 anni in Gran Bretagna condivido l’articolo nella sua interezza. La lettura del voto come voto xenofobo e nazionalista e’ sleale e riduttivo. Le aree industriali specialmente del Nord dell’Inghilterra, i porti di pescatori, ecc hanno vissuto sulla loro pelle i danni delle politiche UE, il problema dell’immigrazione rappresenta in queste zone solo la “cherry on the cake”, quell’ennesima fonte di stress e disorientamento che si aggiunge alle altre, lavoro precario e sempre piu’ flessibile, progressiva riduzione dei salari, attacco alle pensioni e agli ammortizzatori sociali, accapparramento delle proprie risorse (pesca, ecc) dalla competizione internazionale, ecc …. tutte conseguenze di politiche UE.
Nicola Vetrano
Ottimo, profondo, scientifico, come sempre, l’@rticolo di Genovese, da far circolare
stefano battolla
i miei più sinceri complimenti all’ autore, e ai miei fratelli inglesi…da un operaio italiano che avrebbe votato Leave per solidarietà di classe, se non per altro.