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Apple: mele marce e scontri nell’Unione Europea

La decisione della Commissione Europea di condannare la multinazionale statunitense Apple a versare alla Repubblica d’Irlanda 13 miliardi di euro di tasse non pagate ha giustamente avuto un risalto internazionale.

Si tratta di un pronunciamento quantitativamente e qualitativamente importante. Quantitativamente perché l’ammontare che l’azienda di Cupertino dovrebbe versare nella casse irlandesi supera di gran lunga la somma di tutte le “multe” richieste negli ultimi 5 anni a tutti i paesi europei messi insieme in casi simili.

Qualitativamente perché segna un possibile cambiamento nell’orientamento delle élite europee per quanto riguarda la competizione fiscale fra paesi e blocchi. Come scrivevamo in un precedente articolo, l’Unione Europea si è caratterizzata in questi anni per un particolare attivismo per quanto riguarda l’interferenza nelle leggi nazionali che regolano questioni di finanza pubblica e di lavoro, mentre poco o nulla ha fatto circa l’esistenza di veri e propri paradisi fiscali continentali come l’Olanda, il Lussemburgo e la stessa Irlanda.

La decisione presa contro Apple mostra però che almeno una frazione delle classi dirigenti europee (soprattutto quelle francesi e tedesche) potrebbe aver deciso di darci un taglio. Le motivazioni sono varie. Da un lato, come ha scritto il quotidiano online Politico, la decisione potrebbe accrescere un minimo la popolarità della Commissione, in un anno che ha visto il consenso nei confronti degli eurocrati ai minimi livelli fra Brexit, immigrazione e terrorismo. Difficile infatti provare simpatia per Tim Cook e i suoi, in un’era in cui le diseguaglianze sociali sono ai massimi livelli e un qualsiasi cittadino si trova a versare in tasse una quota significativa del proprio reddito senza spesso ricevere in cambio servizi e welfare appropriati.

Dall’altro la decisione (ad opera, si noti, non del dipartimento dell’UE che si occupa della tassazione ma di quello che si occupa di competitività) è l’ennesimo episodio non propriamente positivo all’interno delle relazioni fra USA e UE, dopo le dichiarazioni tedesche e francesi che hanno sancito la fine (almeno per ora) dell’accordo commerciale transatlantico TTIP. Infatti il Dipartimento del Tesoro americano ha reagito rabbiosamente alla decisione. Un suo portavoce ha dichiarato che “le decisioni fiscali fatte dalla Commissione Europea sono ingiuste, contrarie a principi legali ben stabiliti e mette in discussione i regolamenti fiscali dei singoli stati membri dell’UE”.  Come nel caso del TTIP, anche la Brexit sembrerebbe avere influito sulla decisione della Commissione, visto che come ricorda Politico la Gran Bretagna era da sempre il più accanito difensore dell’autonomia degli stati sulle decisioni fiscali (la City di Londra è essa stessa un paradiso fiscale), nonché lo stato tradizionalmente più vicino agli Stati Uniti. E benché la Commissione abbia dichiarato che non ci sia nulla di politico in questa decisione, è del tutto evidente che si tratti di un pronunciamento non solo tecnico, creando un’ulteriore frattura all’esterno fra UE e USA, e riaprendo lo scontro interno fra gli stati membri riguardo alle pratiche di tassazione. Non è un caso che la precedente Commissaria alla Competitività Neelie Kroes (olandese) abbia sentenziato che la decisione presa da colei che ne ha preso il posto, la danese Margrethe Vestage, sia “sostanzialmente ingiusta”.

E in Irlanda, che succede?

La decisione della Commissione ha colpito duramente il governo di minoranza guidato da Enda Kenny. Infatti, l’ammontare della multa e il fatto che la Commissione abbia dichiarato che anche gli accordi con altre multinazionali con sede in Irlanda come Google o McDonald’s siano sotto inchiesta, sono segnali che ad essere messo in discussione è tutto il modello di sviluppo irlandese, basato essenzialmente sull’attrarre investimenti diretti esteri tramite lo status di paradiso fiscale. Il governo, che pure si era caratterizzato finora per un allineamento totale alle direttive UE, ha deciso di ricorrere contro la decisione presa dalla Commissione. Insomma, fin quando l’Unione Europea ha chiesto di tagliare salari e servizi pubblici il governo irlandese è stato ben contento di mostrarsi europeista, ma adesso la questione è diversa. Troppo importante l’autonomia fiscale e la tassazione sui profitti al 12.5 per cento (spesso ridotta a tassi addirittura inferiori grazie a complicate manovre di elusione) e troppo grande la paura che Apple e le altre multinazionali facciano le valigie, portandosi dietro parecchie migliaia di posti di lavoro ben pagati. Insieme al partito di governo Fine Gael si sono schierati a favore del ricorso anche il Fianna Fail, ossia l’altro partito conservatore, e il partito labourista (a cui evidentemente la batosta elettorale delle ultime elezioni non ha fatto passare la voglia di praticare politiche antipopolari). Contrari invece il Sinn Fein (che pure nell’Irlanda del Nord è a favore di una corporate tax più bassa) e la coalizione di sinistra Anti Austerity Alliance – People Before Profit.

Bisognerà vedere quanto questa decisione peserà sulla popolarità del governo. L’autunno si preannuncia vivace in Irlanda. Tre saranno i fronti di lotta. Il primo riguarda la vergognosa assenza di una legge che renda legale l’aborto: una coalizione di varie forze sociali ha lanciato una manifestazione per il 24 settembre con l’obiettivo di costringere il parlamento a cambiare l’ottavo emendamento della costituzione, che proibisce l’interruzione volontaria di gravidanza.

Il secondo fronte riguarda la campagna contro le tasse sull’acqua (water charges) imposte insieme ad altre misure adottate da Dublino in cambio del pacchetto di aiuti concessi dall’UE e dal Fmi. Se grazie ad un’ampia mobilitazione popolare queste tasse sono state già temporaneamente sospese ora il governo potrebbe rimettere in discussione tutto. Ironicamente l’esecutivo, per rimettere in discussione le water charges, si sta appellando ad un pronunciamento della Commissione Europea, a dimostrazione che il “ce lo chiede l’Europa” vale solo quando si tratta di colpire le classi popolari. Il 17 settembre è già prevista una manifestazione a Dublino.

Infine c’è l’enorme problema del diritto alla casa: gli affitti sono letteralmente esplosi (superando i già astronomici livelli pre-crisi), e i primi ad essere colpiti sono ovviamente i lavoratori a basso reddito e gli studenti. A ottobre sono previste mobilitazioni nei campus universitari e in diverse città dell’Irlanda.

 

Panofsky

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