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Il ciclone Trump su Russia ed Europa Orientale

La notizia del giorno è l'arresto a Mosca del Ministro dello sviluppo economico Aleksej Uljukaev, accusato di aver intascato una mazzetta da due milioni di $ per favorire l'acquisizione, da parte di Rosneft, del pacchetto azionario di proprietà statale di Bašneft. Il 12 ottobre Rosneft (la maggiore impresa petrolifera mondiale a maggioranza pubblica) ha acquistato dallo Stato russo il 50,08% delle azioni di Bašneft, per 330 miliardi di rubli; mentre nel luglio scorso, scrive la Tass, il vice premier Arkadij Dvorkovič aveva annunciato la decisione di non ammettere compagnie legate al governo russo, tra cui Rosneft, alla privatizzazione della compagnia controllata al 25% dal governo della Baškiria.

Proprio mentre Vladimir Putin e Angela Merkel discutevano al telefono la questione del transito del gas russo attraverso l'Ucraina –l'annuncio di Trump sulla riduzione dell'estrazione di gas di scisto negli Stati Uniti, rinnova le preoccupazioni energetiche europee – il Comitato federale russo per le indagini procedeva al fermo del Ministro, dopo quasi un anno di intercettazioni telefoniche. Da più parti si tiene comunque a sottolineare che l'arresto di Uljukaev non mette in discussione la privatizzazione di Bašneft: ci mancherebbe!

Sergej Obukhov, del CC del PCFR, ipotizza nell'arresto di Uljukaev una sorta di inizio anticipato della campagna presidenziale, senza escludere il coinvolgimento nelle indagini di altri vertici governativi, tra quelli considerati più “simpatizzanti” con i circoli d'oltreoceano: è il caso di ricordare come già nella primavera scorsa il PCFR denunciasse i contatti yankee di Uljukaev, per favorire la partecipazione di banche statunitensi alle privatizzazioni russe, tra cui, per l'appunto, i pacchetti di controllo di Bašneft e del 20% di Rosneft. E se nella campagna “antiliberistica” non si può escludere una candidatura del boss di Rosneft, Igor Sečin, alla poltrona oggi di Dmitri Medvedev, Obukhov lega una probabile nuova candidatura presidenziale di Putin ai suoi tentativi di colpire, da un lato, le tendenze liberistiche governative e, dall'altro, la linea “patriottica” del PCFR, addossando a quest'ultimo ogni “eredità negativa” del passato sovietico e appropriandosi di quelle da lui ritenute positive.

Anche per tutto questo pare difficile disgiungere la notizia moscovita dal generale sommovimento globale avviato con la Brexit britannica e, ora, con le attese per le scelte estere di Donald Trump. I risultati delle presidenziali moldave e bulgare ne forniscono un'ulteriore testimonianza, insieme ai farfugliamenti e alle “preghiere” del segretario generale Nato, Jeans Stoltenberg, all'indirizzo di Donald Trump e a quelle che appaiono come “risolute incertezze” dei ministeri europei per controbilanciare il paventato arretramento USA dalla “difesa collettiva”.

Intanto però, com’era naturale attendersi, non si rinuncia alla pratica sperimentata di tentativi di una “majdan moldava”, coi sostenitori della sconfitta candidata filoccidentale Maia Sandu scesi in piazza, già ieri sera, sventolando bandiere rumene. E non si esclude nemmeno una nuova (quante volte annunciata nei quasi tre anni di governo golpista!) majdan ucraina. L'ha prospettata la ex beniamina occidentale Julija Timošenko, chiamando gli ucraini in piazza per oggi, ancora una volta contro la caduta della moneta, l'aumento delle tariffe (imposto da quel FMI da sempre venerato proprio da Timošenko & Co.), cavalcando ora anche il cavallo dell'anticorruzione, da sempre tema prediletto del transfuga Mikhail Saakašvili e incolpando (udite, udite: proprio lei!) Porošenko di etichettare ogni oppositore quale “mano del Cremlino”. Con ogni evidenza, la fretta di prendere le distanze da una nave in procinto di affondare, insieme ai circoli USA che l'hanno sinora tenuta a galla, fa credere alla bionda Julija – che proponeva di eliminare i russi d'Ucraina con un paio di bombe atomiche – che gli ucraini si siano scordati dei suoi trascorsi di corruttrice governativa.

Ma in Ucraina è tutto un “si salvi chi può” e dunque il previdente Mikhail Saakašvili (fuggito in Ucraina dalla Georgia a causa di due mandati d’arresto) fa ora beccheggiare la scialuppa per mandare fuori bordo Porošenko e mettersi al timone, predicendo una prossima scomparsa dell'intera Ucraina dalla faccia della terra, se non muteranno gli indicatori socio-economici che la pongono agli ultimi posti mondiali. Sulla scia di Saakašvili, che ha dato le dimissioni da governatore di Odessa alla vigilia dell'elezione di Trump, un'altra georgiana della junta ucraina, Khatija Dekanoidze, si è dimessa da capo della polizia ucraina. La sua ex collega all'epoca dell’amministrazione del presidente Saakašvili, Ekaterina Eguladze, anch'essa diventata vice Ministro degli interni ucraino, era stata fermata mesi fa dalla polizia mentre tentava di esportare 4 milioni di $ “per partorire”in Francia, ma sospettata di aver dirottato a sé e al suo capo, il Ministro Arsen Avakov, una somma tra i 10 e i 14 milioni di $: di lei non si è più avuta notizia, mentre di Avakov si sono viste le genuflessioni tardive al neo presidente USA.

In questo quadro di “ristrutturazione” mondiale, di cui le ultime evidenze sembrano non essere che un “debole” inizio, ecco che passa in secondo piano – erroneamente – la direttiva di Vladimir Putin per la sottoscrizione di un accordo tra Russia e Armenia, in vista della costituzione di un Gruppo di forze militari congiunto, per la difesa comune nella regione del Caucaso. L'accordo, che dovrebbe avere una durata di 5 anni, con tacito rinnovo, prevede che, in tempo di pace, il Gruppo sia agli ordini del Comandante in capo delle Forze armate di Erevan, affiancato, in tempo di guerra, dal Comandante della regione militare meridionale russa.

L'accordo russo-armeno va ad aggiungersi a quelli già sottoscritti da Mosca con Abkhazia e Ossetia meridionale. Secondo gli osservatori, la strategia Nato di molteplici contrapposizioni “locali” alle frontiere russe appare come ragione diretta del rafforzamento, da parte del Cremlino, delle diverse regioni militari lungo i propri confini, in accordo con repubbliche, territori e soggetti federali autonomi da Mosca. Lo sfrenato attivismo Nato e USA, ad esempio, in Georgia, e le ripetute richieste rivolte a Mosca da Washington di rinunciare al riconoscimento di Abkhazia e Ossetia meridionale, insieme alla provenienza caucasica di moltissimi combattenti dello Stato islamico, sono motivo immediato dell'accordo con l'Armenia.

Alle frontiere settentrionali russe, invece, dove, in accordo alle decisioni Nato sul rafforzamento del fianco nordorientale dell'Alleanza atlantica, non meno intensa è l'attività delle forze occidentali, Mosca annuncia ora l'abolizione del regime dei visti a favore dei cosiddetti “non cittadini” di origine russa di Estonia e Lettonia, nati dopo il 6 febbraio 1992, data in cui è terminato l'istituto della “cittadinanza sovietica”. La decisione appare anche come una risposta – nemmeno tanto indiretta – alle spinte xenofobe e nazionaliste delle autorità dei paesi Baltici, che continuano a privare di diritti elementari le consistenti minoranze russe residenti.

Ma i rivolgimenti non sono che all'inizio: referenzum italiano, presidenziali francesi e tedesche sono, al momento, i passi più prossimi.

 

Fabrizio Poggi

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