Nel silenzio assoluto dei media italiani, è iniziato questa mattina a Roma, dopo gli incontri di Oslo, il terzo round dei negoziati di pace tra gli emissari del governo di Manila e i rappresentanti della guerriglia comunista delle Filippine.
L’insorgenza maoista denuncia che una lunga serie di violazioni da parte del governo sul fronte dei diritti umani rischia di costringere il Nuovo Esercito del Popolo a porre fine ad un cessate il fuoco siglato alla fine di agosto del 2016, ma alla vigilia della ripresa dei colloqui il consigliere del presidente Duterte, Jesus Dureza, ha sostenuto che l’esecutivo di Manila si dice ottimista e pieno di aspettative a proposito dell’andamento del nuovo round di negoziati patrocinati dalla Norvegia ed in svolgimento nella capitale italiana. “I vari problemi, anche quelli più complessi, possono essere risolte grazie all’aspirazione alla pace che accomuna entrambe le parti” ha affermato Dureza in un documento.
Uno dei capi della delegazione della guerriglia, Fidel Agcaoili, si è detto invece meno ottimista, non solo a causa della violazione da parte del governo di alcune clausole sul rispetto dei diritti umani contenute in un patto siglato nel 1998, ma anche a causa del rifiuto da parte delle autorità di liberare 400 prigionieri politici, il che per ora rende inattuabile l’estensione del ‘cessate il fuoco’.
La guerriglia ha esplicitamente accusato l’esercito di Manila di aver violato il cessate il fuoco occupando scuole, edifici pubblici ed altre installazioni civili in alcuni villaggi nelle aree dove è attiva l’insorgenza e di aver continuato le attività repressive contro persone accusate di supportare l’opposizione comunista, circostanza però negata dai comandi delle forze armate di Duterte.
Il capo delegazione Agcaoili ha inoltre espresso la propria preoccupazione per la brutale campagna lanciata ormai mesi fa dal presidente Rodrigo Duterte contro lo spaccio e il consumo delle droghe illegali, che ha portato all’uccisione di numerosi innocenti da parte delle forze dell’ordine. “Numerosi innocenti sono stati uccisi nel corso della violenta campagna ingaggiata da Duterte a causa dei brutali e indiscriminati metodi impiegati dalla polizia” sono state le precise parole utilizzate dal mediatore inviato a Roma dalla guerriglia comunista secondo la quale la priorità delle autorità filippine dovrebbe semmai diventare la lotta contro la povertà attraverso il varo di adeguate e urgenti riforme sociali ed economiche. Sarebbero proprio queste misure, insieme alla liberazione dei prigionieri politici, ad essere al centro dei colloqui che si sono aperti oggi a Roma e che si prolungheranno nei prossimi giorni.
Anche la decisione da parte del presidente e del governo di consentire a novembre la sepoltura del corpo del dittatore Ferdinando Marcos nel cimitero degli Eroi di Manila non ha certo contribuito a rasserenare il clima.
E’ la sesta volta che, dalla sua fondazione nel 1968 e dall’inizio della lotta armata nel 1969, il Partito Comunista delle Filippine conduce dei negoziati con altrettanti governi in un paese che da decenni è stato un baluardo degli interessi economici e militari degli Stati Uniti in Asia e delle politiche iperliberiste imposte dall’oligarchia al potere.
A giugno però le elezioni presidenziali sono state vinte dall’ex sindaco di Davao, il populista Duterte. Il nuovo presidente sembra aver cambiato decisamente rotta sul fronte dello schieramento internazionale, affermando la sua distanza – e inimicizia – nei confronti degli Stati Uniti, tanto da mettere apertamente in discussione la collaborazione militare con Washington, a partire dalla permanenza nell’arcipelago di numerose basi militari e navali statunitensi.
Al contempo il presidente delle Filippine ha iniziato una stretta collaborazione sia con la Cina sia con la Russia, sia sul fronte economico e commerciale sia sul fronte militare.
Secondo una stima riservata diffusa da alcuni organi di informazione, la guerriglia filippina avrebbe a disposizione alcune migliaia di combattenti e controllerebbe estese aree dell’arcipelago.
Lo strappo di Duterte rispetto agli interessi di Washington – che comprende anche il varo di alcune politiche dirette a ridurre il potere della Chiesa e a contrastare la povertà – ha convinto il Nuovo Esercito del Popolo a intavolare un nuovo processo di pace con le autorità, sperando che questa volta i colloqui vadano a buon fine e permettano il ritorno dei comunisti e delle organizzazioni sociali alleate – da sempre oggetto di una selvaggia repressione – alla legalità.
Luis Jalandoni, consulente del Fronte Democratico Nazionale (NDF), una coalizione di forze sociali, politiche, sindacali, contadine, indigene e femministe progressiste e rivoluzionarie, ha affermato che i negoziati non devono solo portare alla cessazione degli scontri armati, ma anche alla risoluzione dei problemi che sono alla radice dell’esistenza di un conflitto violento. Al tempo stesso però la guerriglia filippina tende a chiarire che, a differenza di quanto previsto negli accordi di pace siglati recentemente in Colombia dal governo Santos e dalle Farc, il Nuovo Esercito del Popolo non prevede affatto la cessione delle proprie armi alle autorità.
Nei mesi scorsi Duterte ha offerto quattro posti nel suo governo ad altrettanti esponenti del Partito Comunista, che però ha rifiutato, rimandando il tutto all'ottenimento di una soluzione politica complessiva di un conflitto che ha causato ufficialmente circa 40 mila vittime da entrambe le parti. Duterte ha però deciso di includere nel suo esecutivo, in settori chiave – lavoro, riforma agraria, politiche sociali – degli indipendenti che condividono il programma di riforme democratiche radicali difeso dal Fronte Democratico Nazionale, scegliendo i dirigenti di alcune importanti organizzazioni sociali e contadine come interlocutori privilegiati.
Marco Santopadre
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