Per uscire dalla crisi che ha colpito il sistema di produzione capitalista negli anni ’70 e per il conseguente rilancio di un nuovo ciclo di valorizzazione (e di accumulazione dei profitti), diverse e articolate sono state le misure adottate dal capitale che si sono, in estrema sintesi, mosse lungo due direttrici di massima: in primis, l’esternalizzazione e lo snellimento della produzione nonché l’implementazione del ricorso agli strumenti offerti dalla finanza e, poi, la deregolamentazione del mercato del lavoro (e la conseguente precarizzazione dei rapporti di lavoro) e la compressione dei salari.
Da un lato, infatti, pur mantenendo e conservando una forma fortemente centralizzata del comando negli stati a capitalismo avanzato, si sono sfruttate e create intere filiere transnazionali alla costante ricerca di luoghi ove produrre a costi inferiori (e con maggiori profitti) rispetto a quelli di origine, in virtù soprattutto dello sfruttamento di amplissimi bacini di forza lavoro senza diritto alcuno, né sindacalizzazione e con salari miserevoli (nonché di un esercito di riserva potenzialmente illimitato).
Riduzione dei costi del lavoro e snellimento della produzione (con esternalizzazione degli ulteriori “costi di gestione” della forza lavoro) perseguiti, in un contesto di ricerca continua di flessibilità, anche riducendo le dimensioni delle imprese non delocalizzatesi in altri territori attraverso appalti e sub-appalti o cessioni di interi rami.
Ciò con l’ulteriore obiettivo politico, di non secondaria importanza, di riuscire a disgregare e indebolire la classe operaia (e l’ampio movimento rivoluzionario che ha espresso) che, nel centro capitalista sempre in quegli anni (e soprattutto in Italia), aveva posto all’ordine del giorno l’alternativa sistemica conquistando nel contempo diritti e condizioni salariali fino ad allora impensabili, rappresentandosi quale vera e propria variabile indipendente rispetto alla produzione (e quindi all’antagonista di classe).
Questo rinnovato processo di accumulazione è stato poi alimentato da nuove possibilità di profitti “drogati” su scala mondiale, non più reinvestiti nella produzione sempre più delocalizzata (né tantomeno redistribuiti al lavoro), tanto di origine eminentemente finanziaria e speculativa quanto quale diretta conseguenza della creazione di un sistema di credito, che ha permesso di sopperire alla carenza di domanda indotta dall’imposizione di bassi salari, che ha costretto all’indebitamento milioni di lavoratori liberando denaro per la rendita e il capitale.
Dall’altro lato, come detto sempre con la medesima finalità, si sono progressivamente sgretolate le garanzie contrattuali e salariali conquistate dai lavoratori nel corso del ciclo di lotte degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso.
Un processo lungo, e di cui non si vede ancora la fine compiuta, ma che è stato – e tutt’ora viene – perseguito con scientifica meticolosità da parte di tutti governi che si sono succeduti in questi ultimi trent’anni (dietro espresso impulso delle rappresentanze padronali) e che sta modificando strutturalmente dalle fondamenta le regole che disciplinano il mercato del lavoro. Tale operazione è stata avallata e sostenuta dalle centrali del sindacalismo confederale che, per il tramite della concertazione, hanno permesso lo smantellamento in corso sulla pelle dei lavoratori e delle lavoratrici solo formalmente rappresentati.
Un processo che è il frutto, materiale e ideologico, della feroce guerra di classe dichiarata e condotta dal padronato e che ora, con Monti e Fornero, ha prodotto una controriforma che mira nella sostanza a flessibilizzare totalmente la forza lavoro in entrata e in uscita riportando così le “lancette dell’orologio” ai tempi in cui il lavoro era senza tutela alcuna.
Questa ulteriore tappa non può essere poi in alcun modo separata dalle ulteriori misure (privatizzazioni e riduzione delle spese sociali, aumenti delle tariffe dei servizi, ecc.) che hanno colpito, e colpiscono, il salario (indiretto) dei lavoratori da consegnare alle imprese e al grande capitale finanziario.
Questa introduzione, che ne descrive la genesi e la formazione, è resa necessaria per un corretto inquadramento del nuovo ruolo assunto dalla struttura dell’economia italiana nel contesto mondiale.
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Logistica e circolazione delle merci, come linee tendenziali di sviluppo strategico del capitalismo italiano
Tali dinamiche hanno infatti comportato una ricollocazione dell’Italia all’interno di una ridefinita divisione internazionale del lavoro: nella nuova filiera produttiva (e del valore) sopra accennata, quale conseguenza soprattutto della descritta delocalizzazione produttiva, il ruolo ora associabile in linea di tendenza al nostro paese è soprattutto quello dell’assemblaggio più o meno complesso, della logistica e della commercializzazione di merci e manufatti prodotti altrove (oltre alla produzione di beni di lusso di nicchia e per le elites mondiali: il famoso made in Italy, nonostante anche in questo settore, soprattutto nel comparto tessile, spesso sia soltanto il “marchio” ad essere aggiunto a vestiti confezionati in tutto o in parte fuori dai confini nazionali).
Con ciò non si intende di certo perorare le teorie che, affermando la scomparsa della produzione in Italia, individuano e limitano la centralità dello scontro su forme di precarietà intellettuale estremamente marginali, deviando così il ruolo dei soggetti sociali fuori da un contesto di classe e da un piano di strutturale incompatibilità di interessi.
Certo è che la diminuzione quantitativa dei lavoratori nella produzione manifatturiera (conseguente, come detto, alle scelte strategiche di politica industriale sopra accennate) e il progressivo aumento dei lavoratori nei servizi (pubblici e privati) alle imprese, addetti al settore della distribuzione complessivamente inteso, ma anche di lavoratori dei servizi meno qualificati (pulizie, ecc.), è ormai un processo in via di consolidamento.
Il settore della logistica, dei trasporti, delle comunicazioni è diventato così centrale e decisivo nella struttura produttiva nazionale.
E ciò è ancor più vero ove si limiti l’analisi e lo sguardo d’insieme al nord Italia e a quella macro regione rappresentata dall’area metropolitana milanese (con un’estensione territoriale non limitabile ai soli confini provinciali, ma che si estende a sud sino al piacentino e a est ed ovest, rispettivamente, al novarese e al Veneto): circa il 30% del totale nazionale degli spazi in uso agli operatori logistici è infatti ivi allocato.
Nonostante l’attuale già alta concentrazione nelle aree disponibili (che potrebbero essere considerate quasi totalmente sature), questo territorio ha comunque un alto potenziale di attrazione per un ulteriore sviluppo del comparto: sono in costruzione opere di collegamento stradale (Tangenziale Esterna Milanese e BRE.BE.MI) che hanno quale finalità sostanziale l’incremento dei poli e quindi la riduzione dei tempi di trasporto (ciò prescindendo dall’agitazione propagandista dei realizzatori delle stesse circa il decongestionamento del traffico in ingresso nella metropoli milanese). Tali grandi opere porteranno infatti, oltre alla devastazione ambientale dei territori agricoli interessati, nuovi hub e piattaforme logistiche in corrispondenza degli svincoli di ingresso.
Peraltro non è un caso che quest’intera area geografica si collochi all’incrocio di due corridoi commerciali di grande valenza strategica per il trasporto merci (su gomma e su ferrovia): il corridoio n° 1 che dovrebbe unire Berlino a Palermo passando per il Brennero e il n° 5 da Lisbona a Kiev (un tratto ferroviario di quest’ultimo è ovviamente quello che sta investendo la Val di Susa e contro il quale sta strenuamente resistendo la popolazione dell’intero territorio con pratiche di lotta diffuse ed esemplari).
E’ in definitiva in atto nel nostro paese, a uno stadio molto avanzato, un incremento della sfera della circolazione (trasporto e vendita) rispetto alla produzione diretta e materiale di merci.
Questa tendenza non è certo riscontrabile in tutte i sistemi economici del centro capitalista: economie infatti quali quella tedesca, anglosassone o statunitense, hanno ancora al proprio interno un’importante produzione nazionale reale.
Ciò a maggior ragione descrive puntualmente quale è il ruolo dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro: quello periferico (o comunque al margine della filiera produttiva) della circolazione delle merci.
Ed è proprio in tale sfera che conseguentemente, nel nostro paese, si assiste ad un incremento del numero di addetti impiegati.
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Valorizzazione del capitale nella circolazione delle merci
L’insieme di questa imponente forza lavoro utilizzata nella fase della circolazione1 è essenziale per la realizzazione del plusvalore delle merci prodotte in precedenza (attraverso la vendita delle stesse e lo scambio con denaro).
Le condizioni materiali di lavoro e salariali in cui versano i lavoratori impiegati in tale sfera sono di vero e proprio sfruttamento, essenzialmente per due ragioni.
Da un lato, la riduzione delle spese di circolazione del capitale non può che essere ottenuta agendo tanto sui tempi di lavoro (in termini di intensità e di flessibilità della forza lavoro) quanto sulle dinamiche salariali.
Dall’altro, soprattutto per ciò che concerne i tempi di trasporto (e quindi l’intera filiera della logistica, inclusa la movimentazione e lo stoccaggio delle merci), il fine perseguito è l’aumento di quello che Marx ha definito il coefficiente di rotazione del capitale (la misura, cioè, della “velocità” con cui il capitale conclude il proprio ciclo di valorizzazione) attraverso la riduzione del tempo di circolazione in una data unità di tempo.
Le merci devono “girare” velocemente: il denaro investito e anticipato per la produzione reale deve trasformarsi in maggior denaro (D-M-D’) per poter affrontare un altro ciclo di valorizzazione (tempo di rotazione del capitale) nel più breve periodo possibile attraverso, quindi, la riduzione dei tempi di vendita e dei tempi di trasporto.
E questo, come detto, non può che tradursi in sfruttamento della forza lavoro impiegata in tutte le differenti fasi di cui si compone l’intera catena della valorizzazione del capitale: quindi anche nella fondamentale fase della movimentazione (comunque distinta dal commercio in quanto collocata in uno stadio intermedio tra questo e la produzione) nella quale si potrebbe peraltro verificare un parziale aumento del valore della merce prodotta in virtù dell’impiego supplementare di lavoro che in qualche misura la modifica (la “lavora”?) per la destinazione finale.
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Il sistema cooperativo paradigma dello sfruttamento di classe
Sul terreno della logistica e nei magazzini ove si movimentano le merci per la grande distribuzione e la spedizione si sono sviluppati, nel corso di questi ultimi anni, conflitti operai di notevole importanza e dimensione caratterizzati da una forte radicalità (non solo nelle forme e nei metodi di lotta).
Protagonisti sono i lavoratori (facchini, carrellisti, fatturisti, addetti al picking o comunque li si voglia definire) soci delle numerose cooperative alle quali vengono appaltate la movimentazione e lo stoccaggio delle merci.
Non è un caso poi che questi lavoratori siano in prevalenza (se non totalmente) stranieri: è evidente infatti che la vitale necessità di avere un contratto di lavoro per garantirsi la possibilità di una permanenza regolare in Italia, li costringa ad accettare anche condizioni di lavoro e salariali pessime.
E li descriva, agli occhi del padronato, stante la condizione di ricatto cui sono sottoposti dalla legislazione in materia di immigrazione, come ideale e docile manodopera da spremere in un contesto di estrema precarietà determinato anche dall’impiego con associazione e assunzione (con contratti di lavoro subordinato o parasubordinati) pressoché esclusivamente per società cooperative.
L’utilizzo della forma cooperativistica rappresenta infatti la forma giuridica e imprenditoriale perfetta per il settore del trasporto e della logistica.
Questo per una serie di fattori che le rendono più “competitive” in un sistema che predilige, dal lato della committenza, l’appalto al ribasso per comprimere i costi fissi (e per liberare capitali da dedicare esclusivamente all’attività principale) e il disimpegno dalla gestione (non solo strettamente economica) di un ampio settore di forza lavoro, delle relazioni e dei conflitti sindacali con questa.
In prima battuta, la previsione legale di una serie di agevolazioni fiscali (e di costi di gestione particolarmente esigui) di cui altre forme societarie non godono.
Sono poi l’ideale per costruire quel sistema di “scatole cinesi” che, nella catena di appalti e sub-appalti, permette di rendere più liquida e labile la responsabilità nei confronti dei propri dipendenti (o meglio soci-lavoratori): sono infatti all’ordine del giorno liquidazioni, fallimenti o vere e proprie “sparizioni” di cooperative, immediatamente sostituite da altre (i cui organi dirigenziali sono spesso sempre gli stessi), che lasciano una pesante eredità di retribuzioni non pagate e contributi non versati.
La legge concede poi un’ulteriore serie di vantaggi: dalla previsione della possibilità di prevedere Regolamenti Interni le cui norme possono derogare anche alle garanzie minime previste dalla contrattazione collettiva di settore; alla possibile gradualità nel pagamento di alcuni istituti contrattuali (sono stati firmati infatti nel corso degli anni da CGIL, CISL e UIL una serie di accordi in deroga al ccnl di riferimento che permettono alle cooperative del settore logistico di versare in misura ridotta 13ma e 14ma mensilità, ferie e tfr); all’esclusione legale, da un lato, delle garanzie previste dallo statuto dei lavoratori per i procedimenti disciplinari e, dall’altro, dell’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 18 (ovviamente prima dello scompaginamento operato da Fornero e Monti) e alla confusione, anche giurisprudenziale, circa le norme di tutela e il rito applicabili a seguito dell’esclusione dalla compagine sociale in virtù del doppio rapporto che si instaura tra lavoratore e cooperativa (di lavoro subordinato e di associazione alla cooperativa).
E’ evidente quindi che, già solo dal punto di vista della normativa applicabile, le condizioni materiali in cui sono costretti ad operare i lavoratori impiegati sono di estrema flessibilità formale e sostanziale.
Condizioni rese però ancor più precarie dall’endemica violazione delle norme in tema di sicurezza sul lavoro o di corretto adempimento degli obblighi retributivi e contributivi.
Ciò, ancora una volta, non è un caso: è infatti diretta e naturale conseguenza della necessità, per un verso, di contrarre i costi in un settore di mercato estremamente concorrenziale e, per un altro, della ricerca di massimizzazione dei profitti in un contesto in cui i margini di guadagno sono sempre più risicati per il sistema di appalti al ribasso.
E ovviamente le prime voci di spesa da comprimere il più possibile diventano i costi del lavoro (retribuzioni e omissioni contributive) e quelle per la sicurezza nei magazzini.
Si tratta comunque di un settore di mercato che produce buoni guadagni anche in periodo di crisi come quello attuale e che, anche per questo, oltre per la facilità di riciclarvi denaro da “lavare”, è soggetto a forti infiltrazioni mafiose (sempre che determinate cosche non figurino direttamente nei consigli di amministrazione di cooperative).
Quanto descritto dovrebbe finalmente anche eliminare quell’ipocrita retorica, soprattutto di una parte dei consigli di amministrazioni e degli organi dirigenziali (spesso di provenienza sindacale) delle cooperative cosiddette “rosse”, circa la permanenza e la sussistenza di quello scopo mutualistico posto all’origine della loro fondazione (fine ‘800).
In definitiva, ciò che questo panorama svela è infatti il completo sviamento dell’odierna forma cooperativa da quello che era la finalità di sostegno alla classe operaia posta all’origine della loro fondazione. La passata possibilità cioè di ottenere migliori condizioni salariali e di lavoro unendosi e svincolandosi dalla gerarchia padronale di fabbrica, è oggi completamente sostituita, anche nei fini, dalla mera ricerca del profitto al pari – e senza alcuna distinzione sostanziale – di una “qualsiasi” società di capitali.
Ed è proprio tale ricerca di profitto, nelle forme e con i metodi accennati, a fondare lo sfruttamento dei lavoratori impiegati ma anche a generare al proprio interno, in linea con il vecchio adagio marxiano, il proprio nemico di classe.
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Le forme del conflitto nella logistica
Come detto, infatti, nel comparto della logistica, a partire dal 2008, si sono diffusi conflitti operai di notevole importanza e dimensione che, in forma autorganizzata, hanno avuto quale risultato immediato il miglioramento delle condizioni materiali di lavoro quotidiano e un incremento dei livelli salariali.
Le piattaforme sindacali agitate, salva qualche ovvia specificità, sono pressoché identiche per ogni vertenza esplosa nel periodo: il rispetto delle norme (soprattutto relative ai minimi retributivi della paga oraria e degli istituti contrattuali e legali) del seppur pessimo contratto collettivo nazionale di settore; un’equa distribuzione dei carichi di lavoro e degli orari (troppo spesso utilizzata arbitrariamente con funzione premiale o, specularmente, punitiva per singoli operai); il rispetto delle regole minime circa la sicurezza nei magazzini; il corretto inquadramento e il corrispondente salario contrattuale; l’allontanamento di capisquadra particolarmente violenti.
Tali richieste di natura più prettamente economica e sindacale sono state accompagnate da rivendicazioni di valenza più politica: dall’imposizione dell’egualitarismo come coscienza di essere parte di un’identità collettiva, dalla pretesa del reintegro immediato in occasione di licenziamenti determinati da scioperi o comunque dalla lotta sindacale condotta (frequenti sono gli esempi di espulsione dei lavoratori più esposti); al riconoscimento formale e sostanziale di propri delegati di magazzino e rappresentanze sindacali aziendali (legate al sindacato di base).
Tutte istanze che, come detto, non si limitano all’aspetto puramente rivendicativo ed economico ma che, investendo la materialità quotidiana del lavoro e i rapporti di forza interni ai magazzini, evidenziano da un lato il netto rifiuto delle logiche concertative del sindacalismo colluso con gli interessi padronali (numerosi sono gli esempi di accordi di secondo livello firmati da burocrati della categoria, senza preventiva discussione né approvazione dei lavoratori interessati, che svendono diritti o vi rinunciano) e, dall’altro, abbozzano un tentativo complessivo di messa in discussione del comando in fabbrica attraverso il protagonismo e la partecipazione attiva e diretta, senza delega alcuna se non a propri compagni di lavoro.
Ogni decisione, tanto relative ai contenuti della piattaforma quanto ai singoli passaggi della lotta (e ovviamente la conduzione dell’eventuale trattativa con il padrone), sono prese e discusse in forma assembleare: pratiche quotidiane di autorganizzazione che servono anche a sviluppare coscienza tra tutti i lavoratori e, soprattutto, determinano una nuova consapevolezza circa il loro essere parte della classe e a ritrovare quella dignità stritolata dai meccanismi dello sfruttamento cui sono sottoposti.
E sono proprio questi ultimi aspetti che rendono la lotta dei lavoratori delle cooperative una delle esperienze più importanti sviluppatasi nell’odierno panorama del conflitto di classe.
Esperienza sicuramente caratterizzata da una forte sperimentazione: da un empirismo di fondo nella ricerca delle forme di lotta più adatte ma che comporta una ridefinizione critica delle consuete categorie, dei linguaggi e dei metodi con cui si è affrontato il tema centrale del conflitto capitale – lavoro sino ad ora.
Ciò è determinato ovviamente dal terreno concreto, descritto nella premessa di questo contributo, su cui si sviluppa lo scontro ma anche dalla particolare composizione di classe protagonista di queste lotte (in prevalenza immigrata) e delle condizioni materiali in cui lavora.
Ma anche esperienza oggettivamente tra le più avanzate: non solo e non tanto per le forme concrete (più o meno dure e determinate) con cui sono stati e vengono declinati i passaggi nelle singole vertenze e gli “strumenti” di lotta praticati davanti ai cancelli: dai picchetti (con blocchi dei camion in ingresso e/o in uscita e dei crumiri nei magazzini), al rallentamento dei ritmi di lavoro imposti, al proselitismo per il coinvolgimento dei propri colleghi, agli scioperi organizzati o spontanei, alla controinformazione e all’agitazione.
Bensì e soprattutto per la radicalità dei contenuti complessivamente espressi, base (e punto di partenza) indispensabile per la sedimentazione di coscienza e per l’aggregazione tra e di lavoratori, nonché per la costruzione in prospettiva di un movimento di classe avanzato che riesca ad esprimersi sul terreno del conflitto sociale in forma organizzata costruendo un percorso che non viva sulle (o peggio galleggi in attesa delle) singole esplosioni di conflitto ma che si ponga, con intelligenza e determinazione, l’obiettivo concreto e complessivo dell’unità di classe.
Le contraddizioni devono infatti essere affrontate in termini più complessivi: la qualità dell’intervento e delle soluzioni adottate, nonché il metodo (da misurarsi sempre sulla realtà concreta), devono dialettizzarsi con le lotte presenti anche negli altri settori per creare collegamenti stabili e organici.
Questo infatti è il vero obiettivo da costruire in una prospettiva di classe che parta dalle contraddizioni reali e dai percorsi di lotta concreti.
Un circolo virtuoso che, partendo dalle situazioni più avanzate, crei le condizioni per una reale ricomposizione di classe e per l’allargamento di un ampio conflitto sociale che includa altresì vertenze e lotte per il recupero di quote di salario indiretto (casa, servizi sociali…) continuamente sottratto ed eroso per contribuire a pagare i costi della crisi coinvolgendo, così, anche quel proletariato urbano della nostra metropoli che costituisce il bacino privilegiato per l’attuale esercito di riserva.
Ma non è sufficiente.
Per la messa in rete di esperienze concrete di lotta è, in questo contesto, di assoluta importanza la presenza e la partecipazione diretta e attiva di realtà politiche (e quindi non solo sindacali) il cui ruolo e compito principale non può che essere la tessitura di relazioni tra lotte e settori di classe disgregati, da inserire in una prospettiva più generale di lotta anticapitalista.
Un progetto strategico di lunga durata che ha costruito le premesse per valorizzare e ricalibrare il ruolo di strutture territoriali come i centri sociali, il cui agire è in molti casi un semplice aggrapparsi alla limitata funzione meramente aggregativa – molte volte fine a se stessa – permettendogli un’effettiva internità a percorsi di conflitto reale.
Crediamo fermamente che l’attuale crisi strutturale del sistema capitalista dia la possibilità, se non obblighi, tutti e tutte a un salto di qualità politica, a uscire dalla genericità restituendo a una possibile agenda politica collettiva la centralità del conflitto capitale-lavoro (e non solo le pur importanti parzialità).
Questo permetterà di misurare le nostre forze in una prospettiva di crescita politica anziché di semplice sopravvivenza.
Ricerca del consenso di massa quindi, ma su un terreno di prospettiva autonoma e non subordinata a mode e corporativismi vari.
Queste lotte insegnano quanto sia prioritario ridefinire il proprio intervento, investendo sicuramente i consueti paradigmi con i quali si è abituati a leggere la realtà oggettiva dello sviluppo dei rapporti di classe (e, sempre come detto, la composizione della stessa). Ciò non significa ovviamente il loro accantonamento o peggio svilimento all’inseguimento di qualche soluzione riformista più o meno radicale, ma, anzi, implica una ridefinizione adeguata che, in un rapporto dialettico, interpreti la situazione concreta per meglio comprendere anche le forme di lotta e di organizzazione.
Sicuramente è un lavoro che impone uno sforzo di elaborazione anche teorica che può essere però affrontato esclusivamente se vi è alla base un’internità reale e continuativa al conflitto e alle lotte (prassi – teoria – prassi): crediamo infatti non ci siano più margini per il semplice inseguimento delle scadenze o per la partecipazione estemporanea alla singola manifestazione e iniziativa pubblica, troppo spesso impostaci dal nemico di classe sul terreno puramente difensivo della doverosa e necessaria risposta ad attacchi repressivi.
Queste riteniamo siano le sfide improrogabili da affrontare per ogni realtà politica.
La nostra esperienza ci fa dire che ci siamo riusciti e che abbiamo vinto questa sfida?
Non vogliamo assolutamente asserire questo.
Proprio la pratica costante e continua di questi ultimi anni ci fa capire quali e quante siano le difficoltà da superare in un processo di sedimentazione di lungo periodo.
Tra queste la possibilità e la conseguente praticabilità, per un movimento politico sindacale ancora in formazione, di essere elemento di stimolo, da un punto di vista di identità di classe da verificare nel conflitto, non solo per i lavoratori della logistica ma, in generale, per tutte le altre forme dell’odierno proletariato.
Su come si debba essere in grado di trasformare la rabbia e la spontanea radicalità dei lavoratori, viste numerose volte davanti ai cancelli, in sedimentazione di solidarietà, coscienza e identità di classe.
La risposta non è sicuramente la scelta di ideologizzare dei lavoratori, bensì uno sforzo dialettico per cercare di inserire ragionamenti complessivi all’interno della pratica quotidiana del conflitto e dello scontro con il padrone.
Si tratta di un percorso che deve saper coniugare, precisando puntualmente limiti e ruoli, gradualismo sindacale e prospettiva politica strategica misurandosi con l’ancora attuale ed essenziale funzione di un sindacato conflittuale (e autorganizzato) in un quadro generale, però, caratterizzato da una manifesta debolezza del sindacalismo di base.
E che deve anche misurarsi, dato il livello della lotta, con la difficoltà di tramutare la sporadica solidarietà, se non il mero solidarismo, dei molti presenti solo dopo gli episodi più eclatanti e violenti di scontro avanti i cancelli (ad esempio, all’Esselunga di Pioltello dopo l’aggressione di una squadra organizzata di crumiri o, a Basiano, dopo le durissime cariche con feriti e arresti), in solidarietà attiva partecipando organicamente alle lotte ancor oggi a “carico” dei militanti più stretti del coordinamento di sostegno. Ciò anche in funzione della costruzione di livelli più avanzati di organizzazione che includano, in particolare, incontri stabili con e fra lavoratori per lo sviluppo di coscienza.
Difficoltà oggettive, anche determinate dalla fase, e soggettive che, crediamo, debbano essere oggetto di un’analisi di critica e autocritica da parte di tutte le realtà collettive e i singoli che partecipano a questa come ad altre lotte in un processo che cerchi di superarle.
Siamo infatti convinti che anche questo pezzo di lotta di classe difficile e reale, che porta con sé l’immaginario di lotte radicali e vincenti ma anche la drammaticità di alcune sconfitte, non possa essere in sé risolutivo se non avvia un processo di aggregazione di forze (reali e di soggettività politiche e sindacali) tale da modificare, con maggiore peso e determinazione, i rapporti di forza attuali all’interno di una strategia più complessiva di trasformazione dell’esistente.
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note
1 Nella fase della circolazione non vi è immediata produzione di plusvalore ma, comunque, influisce in maniera significativa sulla composizione del valore di scambio, ancor di più all’interno di un modo di produzione flessibile e “snello” e impostato sul just in time, non più quindi fondato sulle economie di scala
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