Da qualche settimana il termine “rossobruno” vive una seconda giovinezza. Poche discussioni politiche possono svolgersi senza che venga tirato fuori il decisivo epiteto, utile come battuta o come scomunica a seconda dei casi. Il più delle volte, però, questo termine viene citato a sproposito, non contestualizzato o non completamente inteso. Ogni tanto diviene, semplicisticamente, sinonimo di fascista, dunque vengono identificati i rossobruni con “quelli di casapound” (o cose simili). Altre volte viene usato al posto di nazista, determinato non da una particolare presa di coscienza, quanto dall’assonanza alle famigerate “camicie brune” naziste, le SA. A volte, ci è anche capitato di udire discussioni in cui rossobruno veniva utilizzato, a cuor leggero, come offesa ai “compagni che sbagliavano”, quei compagni che magari assumevano posizioni vicine alla destra neofascista.
Grande è la confusione sotto il cielo del rossobrunismo, dunque, ma la situazione non è per niente eccellente. Analisi e categorie che davamo per scontate rientrano dalla finestra meno comprese di prima. E dire che tanti, fra i compagni, nel corso degli anni si erano prodigati a spiegare il fenomeno, a tenerlo d’occhio e, a volte, a smascherarlo (un esempio fra i molti). Si perché una delle caratteristiche del rossobrunismo è quella di mimetizzarsi talmente bene da passare inosservato persino ai compagni più attenti.
Fra nazi-maoismo e comunitarismo
Rossobruno è un termine relativamente recente, che va a identificare quelle aree politiche che una volta si sarebbero definite, più sinteticamente e più efficacemente, nazi-maoiste. Nel corso degli anni, soprattutto nei primi anni novanta, il nazimaoismo mandato in pensione dalla fine delle ideologie cambiava definizione ma non sostanza, identificandosi col “comunitarismo”. I rossobruni si mimetizzano molto bene, nascondendo la loro identità politica ben argomentata dietro simbologie e parole d’ordine apparentemente di sinistra. Ma una cosa principalmente caratterizza tutta l’area rossobruna: ogni fenomeno della vita collettiva viene interpretato come episodio di politica internazionale. Nel fare questo, si servono di una determinata materia scientifica, la geopolitica, strumento analitico col quale interpretano ogni fenomeno politico rilevante. Lo sviluppo sociale è determinato, secondo questa, dalla continua dialettica fra blocchi nazionali o macroregionali culturalmente omogenei e in contrapposizione, in perenne scontro fra loro per l’egemonia – o la sopravvivenza – culturale. Anche i singoli episodi della vita sociale nazionale (il termine nazionale è una costante, mentre mai o quasi mai viene citata la parola stato – se non come sinonimo di comunità nazionale) derivano le proprie cause – e la spiegazione generale – dai rapporti di forza internazionali. In questo scontro globale, il concetto di Stato diviene sinonimo di Nazione, e questo viene assimilato a quello di Popolo. Altra caratteristica peculiare del rossobrunismo è la costante rivendicazione identitaria ed etnicista. Ogni scontro statale si trasforma così in scontro fra nazioni, e cioè in scontro fra popoli. Nel fare questo, il rossobrunismo (e tanta parte della geopolitica), inventano di sana pianta territori e culture assolutamente artificiali, come ad esempio il concetto di “Eurasia”, o “Eurabia”, mitiche regioni accumunate culturalmente dall’opposizione all’egemonia statunitense. Leggiamo questa definizione di Eurasia e dei problemi ad essa sottostanti che ne fa Claudio Mutti, storico nazimaoista ora direttore della rivista omonima “Eurasia”, la “rivista di studi geopolitici”
Il presupposto della visione eurasiatista è espresso da Mircea Eliade, quando ci ricorda che esiste una “unità fondamentale non solo dell’Europa, ma di tutta l’ecumene che si estende dal Portogallo alla Cina e dalla Scandinavia a Ceylon”. Sul piano geopolitico, a questo concetto corrisponde il progetto di un raccordo tra i “grandi spazi” in cui il continente eurasiatico si articola: quello russo, quello estremo-orientale, quello indiano, quello islamico, quello europeo. Alcuni di questi grandi spazi sono già adesso riuniti intorno ad un “polo” geopolitico (ad esempio la neonata Unione Eurasiatica), mentre altri sono ancora privi, del tutto o in parte, di unità e di sovranità politica e militare. Quest’ultimo è il caso dell’Europa, la quale, vincolata agli Stati Uniti d’America per mezzo della NATO e governata da classi politiche collaborazioniste, ha saputo esprimere soltanto una precaria unità economica e monetaria.
Lotta fra nazioni e complottismo
Quando i rossobruni parlano di scontro fra est e ovest, ad esempio di conflitto – latente o palese – fra Stati Uniti e Russia, intendono uno scontro fra il popolo russo e il popolo statunitense per l’affermazione della propria egemonia culturale (di cui le elites politiche non sono che l’espressione della volontà generale del popolo). In tutta questa retorica, scompare ogni analisi sociale e contraddizione di classe. Le società sono blocchi omogenei, con una propria cultura e una propria mentalità, da difendere, perennemente sotto attacco di un qualche nemico esterno. I problemi sociali, così come la stessa disparità sociale, sono sempre determinati da un qualche fattore esterno destabilizzante, da combattere ed eliminare per tornare ad un passato mitico di pace e prosperità. In questo senso, altra teoria forte del rossobrunismo è quella del complotto. Se lasciata libera, una nazione, cioè la sua comunità etnico-culturale, progredisce armonicamente. I fattori destabilizzanti derivano da complotti, perché non possono, costitutivamente, nascere dal seno del popolo, ma provenire unicamente dall’esterno. A questo proposito, una delle affermazioni preferite dai rossobruni è questa, di Nietzsche:
L’Europa, una volontà unica, formidabile, capace di perseguire uno scopo per migliaia di anni
Come abbiamo detto, scompare ogni forma di analisi di classe e di eterogeneità sociale. La società è un blocco unico omogeneo, diversificata al suo interno per propria e autonoma scelta organizzativa dettata dall’articolazione delle competenze. Il nemico può essere anche all’interno del corpo sociale, ma solo in quanto “venduto” a interessi esterni, internazionali. A questo proposito, riportiamo gli obiettivi che dovrebbero caratterizzare la battaglia del popolo russo contro quello americano: qui La Russia, Una, Indivisibile e Ortodossa. Come vediamo, scompare ogni dinamica di classe. La Russia, così come ogni altro paese, non è uno Stato con le sue proprie distinzioni sociali. Non ci sono ricchi e poveri, né padroni o lavoratori, né elites sociali e cittadini comuni. Il “bene comune” è identificato con la sua unità territoriale e culturale, e la sua tradizione religiosa. Queste sovrastrutture, lungi dall’essere la stratificazione di un dominio di una classe su un’altra, sarebbero il patrimonio comune di ogni russo. La cultura *ufficiale* di un paese si confonde con la cultura dei suoi cittadini; la mentalità delle elites sociali e dei padroni viene identificata con quella dei lavoratori. La lotta di classe, concetto novecentesco, è sopravanzata da rapporti di forza internazionali che la attraversano in ogni momento e ne prendono il sopravvento, rendendola un concetto obsoleto.
I rossobruni e l’anticapitalismo
A questo punto, saremmo portati a credere che tali personaggi siano facilmente identificabili e smascherabili. Se non fosse che, insieme a questa di visione del mondo, tali discorsi sono venati da una profonda retorica anticapitalista (ad esempio) . Bisognerebbe però indagare bene su questo loro presunto anticapitalismo. Anzitutto, la loro avversità al capitalismo sembrerebbe avere come obiettivo unicamente il capitalismo statunitense, visto che, al contrario, i capitalismi di tutti gli altri paesi, formalmente nemici degli interessi americani, vengono invece difesi ed esaltati come modelli di sviluppo sovrano da difendere. Dunque, ad esempio, la Russia Indivisibile e Ortodossa non viene accusata di essere uno stato capitalista, mentre questa sarebbe la peggiore accusa al modello americano. In secondo luogo (ma in realtà presupposto fondamentale), il capitalismo è identificato con la finanziarizzazione economica, e le problematiche geopolitiche sostanzialmente generate da fattori che turbano lo sviluppo economico “naturale” (a seconda dei casi: le banche, gli ebrei, il fenomeno migratorio, il signoraggio, ecc..). Insomma, quando parlano di “capitalismo” non intendono quello che intendiamo noi, ma una serie di non meglio precisate degenerazioni dello stesso che altererebbero il sistema. Sviscerando alla radice tale retorica, il loro anticapitalismo non risulterebbe altro che un più modesto anti-liberismo. Infatti, coerentemente con la propria visione del mondo, i rossobruni sono si sinceramente anti-liberisti, ma in chiave autarchica e corporativa. Il mercato dev’essere libero, ma coordinato dal potere politico statale, che deciderebbe in base al presunto bene comune della nazione. Anche il loro supposto “socialismo nazionale” si risolve in nient’altro che in un mero capitalismo corporativo, forse anti-liberista ma non per questo più edificante. Esattamente il modello della Germania nazista degli anni trenta.
I rossobruni e la sinistra anticapitalista
Sulla loro posizione anticapitalista nascono la maggior parte degli equivoci. Infatti, nella loro posizione concettuale contro gli Stati Uniti, aggregano al carrozzone rossobruno ogni Stato o movimento internazionale si opponga agli USA. Dunque vanno bene tutti, da Ahmadinejad a Chávez (e anche qui, ma ci vuole fegato) , da Cuba alla Russia. Le contraddizioni evidenti con il pensiero della sinistra anticapitalista sono ovvie, ma non per questo immediatamente evidenti. Per la sinistra anticapitalista esiste processo economico di accumulazione e accentramento del capitale, che tenta storicamente di liberarsi dalle maglie della mediazione politica (frutto dei rapporti di classe esistenti) per gestire autonomamente e senza condizioni lo sviluppo produttivo (quello che, sinteticamente, una quindicina d’anni fa, iniziavamo a chiamare globalizzazione). Sommato a questo processo economico, ce ne è uno più politico, o di politica economica, che una volta veniva definito imperialismo, e cioè il tentativo del capitale (e dei suoi referenti politici) di espandersi controllando porzioni di territorio strategiche per il suo sviluppo. Nel fare questo, interveniva direttamente (politicamente) o indirettamente (economicamente) nelle questioni politiche di altri stati indipendenti, promuovendo guerre, destabilizzazioni, colpi di stato, ecc… Fatta questa premessa, dunque, mentre noi consideriamo (ad esempio) l’Iran evidentemente un obiettivo dell’imperialismo americano-europeo, visto che controlla determinanti giacimenti petroliferi, nonché politicamente un elemento “riottoso” rispetto alla pax regionale che vorrebbero imporre Israele e l’Arabia Saudita, per i rossobruni l’Iran è un modello di sviluppo possibile – anzi invidiabile – basato sulla fede e l’etnicità, sull’identità forte e sul controllo etico del libero mercato. Per noi, invece, affermare che Ahmadinejad è oggettivamente un elemento di disturbo per l’imperialismo statunitense non ci porta però a nascondere la realtà dei fatti iraniana, che è una realtà capitalista e teocratica, e come tale da combattere. Solo che la via d’uscita iraniana non può in alcun modo convergere verso un’ipotesi liberale, perché questo trasformerebbe l’Iran in una specie di Arabia Saudita, cioè un paese con lo stesso modello di sviluppo (capitalista), lo stesso livello di sviluppo dei diritti umani, con uno stato sociale più ridotto e asservito agli interessi statunitensi, e dunque non più un “problema” ma l’ennesimo stato-servo di interessi “altri”. Insomma, il cambiamento – necessario – in Iran (come in ogni altro paese opposto agli interessi americani), deve venire dalla lotta di classe (declinata in varie forme) e dall’autodeterminazione del proprio popolo, e non dalla longa manus statunitense. Stesso discorso vale per la Russia odierna, la Siria, e per ogni altro stato che viene attaccato direttamente e indirettamente dall’imperialismo statunitense.
Chiarita questa differenza, possiamo concludere con una nota storica. I nazi-maoisti, o comunitaristi, oggi rossobruni, esistono più o meno da cinquant’anni, non sono certo una scoperta recente. Fino a quando però era presente il problema politico dell’Unione Sovietica, del socialismo reale e politicamente possibile, questi erano chiaramente nel campo nemico, capitalista e anti-comunista, e questo li rendeva immediatamente identificabili dai compagni. Oggi, scomparso il problema politico del socialismo, questi si sono confusi con la retorica anti-globalizzazione. Hanno iniziato ad usare linguaggi a noi affini, e dotarsi di una simbologia para-socialista che li rende facilmente fraintendibili. Rimangono in ogni caso pochi. L’utilizzo efficace della rete ha ingigantito un problema che è difficilmente riscontrabile nella vita reale. Infatti, tali formazioni, oltre che essere assolutamente elitarie – proprio per la loro natura “accademica”, nella stragrande maggioranza dei casi non esistono se non virtualmente. Le iniziative che raramente producono, vedono la presenza di poche unità di persone, il più delle volte parenti degli stessi organizzatori. Altre volte, invece, qualche esponente della sinistra – più o meno radicale – ci casca, e avalla operazioni politiche o culturali che invece dovremmo combattere, esattamente come combattiamo il neofascismo. Presenziando a tali iniziative, si sdogana un mondo effimero e ristretto, ma che potrebbe divenire importante se venisse legittimato quale interlocutore politico credibile. La caduta storica dell’ipotesi politica socialista ha portato a sinistra molti “intellettuali” che una volta sarebbero stati a destra o “democratici”. Questa congrega, oggi saldamente nel campo della sinistra, cede alle sirene geopolitiche del rossobrunismo proprio perchè, non essendo mai stati comunisti, non fanno dell’antifascismo uno dei valori fondanti del proprio essere politico. Evitiamo di fare i nomi perchè altre volte si sono dimostrati interessanti pensatori, ma ribadiamo il concetto: nessuna legittimazione ci può essere verso chi sfrutta l’armamentario simbolico della sinistra per affermare idee aberranti.
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Carlo
Ho appena visto il film “L’economia della felicità”, di Helena Norberg-Hodge.
Mi è sembrato di rilevarvi alcuni degli argomenti di cui parlate in questo pezzo (come i concetti di sviluppo economico “naturale” e di anti-globalizzazione), ma l’autrice, con la sua “economia della localizzazione”, parrebbe in buona fede (o comunque insospettabile), tanto da potere incappare in strumentalizzazioni (basta cercare con google chi ne parla e chi la pubblica).
Ne sapete qualcosa?