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Perché nacquero le ciminiere

Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso i rapporti Svimez sullo stato di salute del Mezzogiorno erano seguiti con estrema attenzione e suscitavano un grande dibattito politico. Pasquale Saraceno, appassionato presidente dello Svimez, si esaltava o si deprimeva a seconda dell’andamento del Pil del Mezzogiorno rispetto al resto del paese, suggeriva soluzioni e denunciava i punti deboli della politica governativa per il Mezzogiorno. Poi, dalla seconda metà degli anni ’80, la «questione meridionale» muore, scompare dall’agenda politica. Il suo posto viene occupato dalla cosiddetta «questione settentrionale» che si guadagnava la scena politica anche grazie ai successi crescenti della Lega nord.
Per oltre trent’anni la questione del divario Nord/Sud nel nostro paese è stata vista come una questione nazionale, non solo una questione di riduzione del divario economico, ma di unificazione sociale, culturale e civile delle due Italie. I governi democristiani e di centro-sinistra avevano tentato di porvi rimedio varando delle politiche per il Mezzogiorno già nell’immediato dopoguerra.
Prima la Cassa per il Mezzogiorno e la Riforma Agraria (1950), poi l’industrializzazione del Mezzogiorno attraverso i «poli di sviluppo», poi le politiche per l’occupazione giovanile (legge 285 del 1977), quella per l’incentivazione alle imprese, ecc. Sappiamo che furono politiche in gran parte fallimentari, ma facciamo attenzione a non buttare il bambino con l’acqua sporca. La Cassa per il Mezzogiorno ottenne grandi risultati nei suoi primi anni d’attività.
Molte delle infrastrutture di base nel Mezzogiorno, dagli acquedotti alle fogne, dalle strade ai sistemi d’irrigazione nell’agricoltura, erano indispensabili e furono realizzati in poco tempo. Poi la politica s’impadronì della Cassa che divenne un «Cascittuni» dove tutta la classe politica dominante prendeva a piene mani per finanziarie le proprie clientele.
La Riforma Agraria, è noto, fu una falsa riforma: distribuì le terre meno fertili ai contadini meridionali (soprattutto con tessera democristiana) senza dargli i mezzi tecnici, l’accesso al credito ed al mercato. Risultato: questi piccoli appezzamenti di terra (in media a famiglia contadina non toccò più di un ettaro) furono abbandonati insieme alle minuscole case rurali costruite per famiglie di otto-dieci membri.
Infine, la politica dei “poli di sviluppo”, che si fondava sul pensiero teorico di Perroux e di altri economisti dello “squilibrio” e delle terapie shock per le aree depresse, produsse risultati contraddittori. In circa quindici anni furono creati, in otto poli industriali, circa 80.000 posti di lavoro nella grande industria – soprattutto siderurgia, petrolchimica, mezzi di trasporto – che furono accolti a braccia aperte dalle popolazioni locali, malgrado procurassero in alcuni casi danni ambientali gravi, e fossero del tutto avulsi alla valorizzazione delle risorse locali. L’Ilva di Taranto, con tutte le sue contraddizioni, è il frutto di quella politica dei poli di sviluppo, così come lo sono Porto Torres, Gela, Augusta Priolo, Milazzo, ecc.
Dalla seconda metà degli anni ’70 non ci fu più una strategia di politica economica per lo sviluppo del Mezzogiorno, ma una miriade di interventi per lo più a carattere assistenziale che portarono ad un crescente trasferimento netto di risorse pubbliche verso l’area meridionale: alla fine degli anni ’80 oltre il 30% del Pil del Mezzogiorno era dovuto ai trasferimenti netti dello Stato (spesa pubblica allargata meno gettito fiscale). Nello stesso periodo – 1950-1980- si era verificata in Italia l’ultima rivoluzione industriale, quella della Terza Italia come la definì Arnaldo Bagnasco, che aveva fatto registrare nel centro-nord-est una diffusa industrializzazione fondata sulla piccola e media impresa e sui distretti industriali. Da Roma in su, per tenore di vita, apparato produttivo, qualità dei servizi, l’Italia si era finalmente unificata ed era diventata la quinta potenza industriale. Restava quella parte marginale del paese, il Mezzogiorno, che ormai era diventato solo un peso, una zavorra, un luogo malfamato di mafie e clientelismo, un «Inferno» come lo definì Giorgio Bocca nel suo libro del 1990. Soprattutto, il Mezzogiorno non era più funzionale allo sviluppo del paese. Se negli anni ’50 l’area meridionale aveva costituito il bacino di reclutamento della forza-lavoro per il triangolo industriale del nord-ovest, se negli anni ’60 l’industria pesante parastatale era complementare alla crescita delle manifatture nel nord, se negli anni ’70 ed ’80 il Mezzogiorno aveva rappresentato un’importante area di consumo per la nascente industria della Terza Italia, adesso non serviva più. Dopo l’89, il mercato era diventato globale e i venti milioni di meridionali rappresentavano un mercato di sbocco marginale per l’industria del centro-nord, così come la forza lavoro meridionale non era più «competitiva» rispetto a quella degli extracomunitari. Basti pensare che, già in quegli anni un incremento dell’1% del Pil in Germania generava nel nord-est Italia una domanda per l’industria superiore ad un aumento di 10 punti di Pil nel Mezzogiorno!
Persa la sua funzionalità allo sviluppo del capitalismo italiano, il territorio meridionale restava interessante solo come bacino di voti. Malgrado tutto, grazie ai trasferimenti netti dello Stato il divario Nord-Sud non era cresciuto e anzi in qualche fase era anche leggermente diminuito. Se osserviamo una serie storica relativa all’andamento del reddito pro-capite tra Centro/Nord e Sud, scopriamo che negli anni di crescita economica sostenuta il divario aumenta, mentre negli anni di recessione (1963/64, 1975, ecc.) il divario diminuisce. La spesa pubblica funzionava da zavorra che rendeva il Mezzogiorno impermeabile agli shock esogeni. In altri termini, quando il mercato mondiale tirava, il Sud non ne riceveva grandi benefici data la sua struttura produttiva, mentre quando c’era una fase recessiva il Sud resisteva meglio grazie ai flussi di spesa pubblica che restavano invariati. Come scrisse Sylos Labini «il motore dello sviluppo del Mezzogiorno è la spesa pubblica», e la classe politica dominante alimentava questo motore senza più pensare minimamente di affrontare la questione del divario strutturale Centro/Nord- Sud.
Dal 2008, da quando siamo entrati nella Grande Contrazione, come l’ha definita Paul Krugman, tutto è cambiato. Le politiche di austerity tagliano pesantemente la spesa pubblica e colpiscono le fasce sociali ed i territori più deboli. Il dato fornito dal Rapporto Svimez – solo un giovane su tre lavora nel Mezzogiorno- è ancora più grave di quanto il numero ci possa dire. Rispetto agli anni ’50 e ’60, quelli della «grande emigrazione» meridionale, oggi un giovane disoccupato non sa più cosa fare e dove andare. C’è un fenomeno che non viene registrato dalle statistiche: è il flusso continuo di andata e ritorno sud/nord che è cresciuto in questi anni. I giovani partono verso il centro-nord Italia alla ricerca di un lavoro. Molte volte lo trovano, ma si tratta di un lavoro precario e malpagato, mentre i costi della nuova residenza sono crescenti ed insostenibili. Così,vanno e vengono, tentano per qualche tempo e poi ritornano a casa dai genitori, per poi ripartire, magari verso altri paesi europei (come la Germania e l’Inghilterra).
C’è ancora un altro divario molto grave che non appare nel Rapporto Svimez: è il divario crescente all’interno del Mezzogiorno. Innanzitutto, tra le regioni meridionali. La Puglia ha fatto molti passi in avanti nei settori dell’industria culturale e del turismo, delle energie rinnovabili e nel campo del non profit, mentre forte è la caduta economica e sociale di regioni come la Calabria, la Sardegna e la Campania. Ma, ancora più grande è il divario tra le aree interne ed aree costiere o di pianura, tra centri urbani e piccoli comuni dell’«osso meridionale». Con i tagli lineari del governo Monti, preceduti da quelli dell’ultimo governo Berlusconi, sono stati cancellati centinaia di scuole rurali, di scuole elementari, di presidi sanitari, di uffici postali e farmacie. In un piccolo Comune dell’Appennino meridionale questi tagli si traducono nella morte civile di queste comunità. Interi paesi, ricchi di storia e cultura materiale, stanno scomparendo nell’indifferenza generale. Certo, è un fenomeno che si registra anche nelle Alpi ed in alcune regioni del Nord come il Piemonte, ma al Sud è un fenomeno di massa che produce un vero e proprio genocidio culturale.
C’è infine una critica di fondo che va fatta al Rapporto Svimez. E’ il suo approccio economicistico che riduce la complessità del confronto Nord/Sud al solo andamento del Pil e dell’occupazione ufficiale. Sono tanti i fattori e le variabili che sono profondamente cambiate rispetto a solo dieci anni fa. Facciamo alcuni esempi. Clientelismo, corruzione ed economia criminale non sono più una piaga che colpisce e caratterizza solo il Mezzogiorno, ma sono fenomeni ben radicati in tutto il paese. Anzi, è proprio nell’area meridionale che negli ultimi anni si registra una rivolta di ampi strati sociali allo strapotere della borghesia criminale, e che si stanno ponendo le basi per la nascita di un’economia equa e solidale. La condizione degli anziani e dei pensionati nel Mezzogiorno è migliore di quella di alcuni grandi centri urbani del nord, grazie al più diffuso possesso di case in proprietà e di piccoli appezzamenti di terra che danno un contributo importante al bilancio familiare (autoproduzione). Quello che è veramente una tragedia sociale, sul piano esistenziale prima che economico, è la condizione giovanile. Per affrontarla c’è una sola terapia concreta al di là delle chiacchiere: il diritto ad un reddito minimo garantito. E’ il solo investimento sul futuro che può assicurare buoni frutti nei prossimi anni. Naturalmente, non può che essere una legge nazionale che comprenda tutti i giovani tra i 18 ed i 32 anni, con le opportune sanzioni per i furbetti ed i figli di papà. Non è la panacea per tutti i mali, ma un punto chiaro di ripartenza per una politica meridionale/nazionale (di cui riparleremo alla prossima occasione).
Ma, solo un reddito minimo garantito per i giovani può permettere al Mezzogiorno di guardare al futuro, scatenando queste energie per sperimentare nuovi stili di vita e di lavoro. Altrimenti, tutto il territorio meridionale si trasformerà in un ospizio per quella che Marx definiva come «sovrapopolazione stagnante», ricovero di malati, handicappati, anziani e disadattati rispetto a questo modello sociale.

da “il manifesto”

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